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Metafore e miscele modali

Relazione al "Seminario sulla metafora", Università di Urbino, maggio 2005

In corso di stampa per le Edizioni di Storia e Letteratura, Roma. I testi saranno pubblicati in lingua inglese.

1. E' trascorso mezzo secolo da quando Black, nel suo articolo sulla metafora, dichiarava di volersi rivolgere ai critici letterari per gettare luce sul funzionamento di una figura così svalutata e disprezzata dai filosofi (con qualche rilevante eccezione, per esempio Aristotele).1 Grazie a quell'articolo, e al dibattito che ne è seguito, le possibili valenze conoscitive della metafora sono state ammesse anche nell'ambito dell'epistemologia orientata verso le scienze naturali; tuttavia il legame tra metafora e conoscenza resta oscuro.

Abbiamo fatto molti progressi nella descrizione del meccanismo linguistico, che è anche psicologico, mentale, della più celebre tra le figure - e poco importa che nessun modello di descrizione sia riuscito a imporsi sugli altri; la rivalità fra le teorie è stimolante. Non sembra che progressi altrettanto notevoli siano stati compiuti in relazione al nostro problema: quando si attribuisce una potenzialità conoscitiva alla metafora, che cosa s'intende affermare? Dando per scontato, dopo Black, che la dimensione minima della metafora sia la proposizione (o l'enunciato): si ritiene che le metafore offrano conoscenze analoghe a quelle fornite da altri enunciati cognitivi, enunciati empirici come "la neve è bianca" o " il gatto è sul tappeto"? Dunque le metafore andrebbero giudicate con il criterio della verità come corrispondenza, adaequatio? Potrebbe darsi, tuttavia, che le metafore offrano conoscenze di tipo diverso - accontentiamoci, per il momento, di questa espressione -, e la loro ambizione cognitiva verrebbe allora legittimata da altre concezioni della verità, la verità-coerenza, oppure la verità-aletheia. Insomma, una metafora andrebbe considerata non tanto come una rappresentazione quanto piuttosto come un'interpretazione, cioè come una prospettiva.

Sembra essere questo, per Black, il più importante contributo della metafora alla dimensione conoscitiva. Qualche anno dopo, egli scrive: "Forse ogni scienza deve cominciare con la metafora e finire con l'algebra; e forse senza la metafora non ci sarebbe stata nessuna algebra" 2. Ciò che colpisce qui non è la prudenza del tono, ma il fatto che, proprio nel momento in cui stabilisce un legame tra metafora e scienza, Black si affretta ad aggiungere che tale legame ha un carattere effimero. Introduttivo, inaugurale: la metafora non è più un ornamento, utilizzato per ragioni didattiche o estetiche, ma, nella sua provvisorietà e mancanza di autonomia, resta una figura ancillare.

L'imbarazzo di Black è evidente: si direbbe che egli percepisca soltanto ora i limiti della sua rivalutazione. Nell'articolo del 1954, la critica alla concezione sostitutiva e comparativa era stata formulata in modo soddisfacente; ed era stata criticata persuasivamente l'idea di una reversibilità tra linguaggio letterale e figurale. Quando si riconduce un enunciato metaforico alla forma letterale da cui si presume sia stato tratto, quando si esegue cioè una parafrasi, l'operazione avviene in perdita (Black si riferisce ovviamente alle buone metafore, alle metafore creative, non alle catacresi o ad espressioni banali): "One of the points I most wish to stress is that the loss in such cases is a loss in cognitive content; the relevant weakness of the literal paraphrase is not that it may be tiresomely prolix or boringly explicit (or deficient in qualities of style; il fails to be a translation because it fails to give the insight that the metaphor did".3

Ecco che cosa viene meno: non qualche tratto semantico, in linea di principio sempre recuperabile con una 'traduzione' più minuziosa e attenta, ma il carattere prospettico della metafora. Lo slancio prospettico, potremmo dire, che ne fa il motore di successive elaborazioni e sviluppi. Forse una scienza può cominciare da una metafora; ma non da una metafora parafrasata.

 

2. A partire da un enunciato, un discorso, un testo, sarà sempre possibile (forse) trasporne adeguatamente il contenuto, il dictum; nel momento in cui si crea un enunciato, un discorso, un testo che vorrebbe essere equivalente, la difficoltà maggiore sta però nella trasposizione del modus. Non che i due aspetti debbano risultare sempre inseparabili: esistono certamente discorsi 'zeroprospettici', che provengono da una soggettività anonima (è improbabile che un enunciato come "il treno per Firenze parte al binario 14" possa manifestare la personalità del particolare individuo che lo formula). Con altrettanta certezza, tuttavia, si può affermare l'esistenza di enunciati, discorsi, testi, in rapporto ai quali l'azzeramento della prospettiva provocherebbe un danno grave e irreparabile: tra di essi le metafore, o perlomeno alcune metafore, in cui l'insight - per riprendere il termine usato da Black - svolge una funzione modale.

E' stata così richiamata, non arbitrariamente, una distinzione che i filosofi sono abituati a incontrare quando si occupano delle categorie. Kant, ad esempio, distingue tre gruppi di categorie (quantità, qualità, relazione) che articolano la sfera del dictum, e aggiunge un quarto gruppo (modalità) che riguarda la sfera del modus. Esamineremo tra un istante la concezione kantiana. Vale forse la pena di anticipare la tesi che intendiamo sostenere, e cioè che il problema della conoscenza tramite le metafore può essere affrontato correttamente, e adeguatamente, soltanto sul terreno delle modalità; ma ciò richiede che venga introdotta nella teoria della conoscenza la nozione di 'miscela modale'. Le metafore, come vedremo, non possono essere comprese nella loro valenza conoscitiva se non oltrepassando la miscela dell'effettualità.

Black cercava alleati tra i critici letterari; ma, se vogliamo affrontare veramente il problema che egli elude, dobbiamo tornare tra i filosofi. Che la metafora agisca come un meccanismo di ridescrizione, come un filtro che seleziona e che enfatizza, riorganizzando la nostra visione di un oggetto (o di una situazione, o di un problema), non dimostra ancora il suo potere di conoscenza. La conoscenza è l'insieme dei discorsi veri; ma saremmo disposti a chiamare vero un discorso che enuncia solo una possibilità, un discorso che potrebbe essere vero? Ebbene, una nuova intuizione, una nuova visione di qualcosa - è questo che la metafora offre, non ne dubitiamo - è già una conoscenza oppure è soltanto una possibilità di conoscenza? Concordiamo con Black sul fatto che la metafora sia in grado di produrre non soltanto una suggestione estetica, ma anche una suggestione cognitiva: tuttavia una suggestione, una prospettiva, non è ancora conoscenza (e non solo per chi rimane affezionato alla teoria della verità-adaequatio). Perciò Black finisce con l'attribuire un carattere effimero alle intuizioni metaforiche: forse diventeranno conoscenza - il che significa che non lo sono ancora.

La componente intuitiva, prospettica, caratterizza anche i discorsi finzionali, sia quelli artisticamente elaborati sia quelli che nascono nella vita privata di ciascuno (ad esempio i sogni o le fantasie ad occhi aperti). Si ritiene generalmente che i discorsi finzionali non siano equiparabili ai discorsi veri: essi nascono sul terreno dell'immaginazione, non su quello della conoscenza. Quest'opposizione è troppo rigida? In ogni caso, se si vuole metterla davvero in discussione, è l'intera teoria della conoscenza che dovrà essere riesaminata. Se si concede che la prospettiva - il modo della conoscenza - svolge un ruolo decisivo (e non effimero), non si potrà più accettare nessuna teoria della verità come corrispondenza, neanche nelle varianti più sofisticate: la 'res' a cui il soggetto dovrebbe 'adeguarsi' non coinciderebbe più con l'oggetto, bensì, sorprendentemente, con il soggetto stesso (l'adaequatio riguarderebbe l'intellectus e il modus). Più precisamente: il primato del modus sul dictum sarebbe anche il primato del soggetto rispetto all'oggetto, della singolarità individuale rispetto alla neutralità universalmente condivisibile, del desiderio rispetto a un intelletto neutro. Questa direzione di ricerca ci porterà inevitabilmente oltre la distinzione tra modus e dictum, come è stata formulata nella dottrina classica delle categorie. E' da qui, peraltro, che conviene iniziare.


3. La presentazione delle modalità nella Critica della ragion pura potrebbe essere il miglior punto di partenza. Kant riprende una tradizione consolidata, mettendo in rilievo la differenza tra le categorie 'cosali' e quelle 'modali'. "La modalità dei giudizi - afferma Kant commentando la Tavola dei giudizi - è una loro funzione tutta particolare, che ha questo carattere distintivo: che non contribuisce per niente al contenuto del giudizio (...), ma tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in generale".4 Questa tesi viene ribadita più avanti:

"Le categorie della modalità hanno questo di particolare, che non accrescono minimamente, come determinazione dell'oggetto, il concetto al quale sono unite come predicati, ma esprimono soltanto il rapporto con la facoltà conoscitiva. Quando il concetto di una cosa è già del tutto completo, io posso tuttavia chiedermi sempre, se questo oggetto sia solamente possibile o reale e, in questo caso, se sia anche necessario".5

Potremmo visualizzare la posizione di Kant in uno schema:

schema-1

 

Questo schema, che chiameremo 'dei rettangoli concentrici', mostra il passaggio dal possibile all'esistente, e dall'esistente al necessario, mediante una restrizione progressiva: soltanto un certo numero di possibilità viene attualizzato; quanto al rettangolo indicato con N, esso potrebbe risultare vuoto.

Si osservi che, secondo questa concezione filosofica che trova una convalida nel senso comune, la necessità viene pensata come rigida: necessario è ciò che non può essere altrimenti.6 Inoltre, la necessità viene inclusa nell'esistente, nell'effettuale (soltanto qualcosa di esistente può essere considerato anche necessario). E poiché la rigidità è un tratto distintivo dell'effettuale - niente potrebbe cambiare il passato, o far sì che un esistente non sia mai esistito -, viene da chiedersi se la rigidità del necessario derivi da quella che caratterizza l'effettuale. Insomma, l'effettuale svolge in questa concezione un ruolo decisivo: restringe i possibili e contiene il necessario. Non sembra arbitrario indicare la combinazione di modalità che stiamo esaminando con l'espressione miscela (modale) dell'effettualità, facendo così risaltare la categoria dominante.

Ebbene, una teoria della conoscenza che s'ispira - poco importa se consapevolmente - alla miscela effettuale, non dovrà forse individuare nell'effettualità il modello della verità? E' precisamente questo il significato della verità come adaequatio: la verità consiste nell'indicare i possibili che sono diventati effettuali (o che lo sono da sempre, necessariamente).

Potrebbe darsi però che il privilegio dell'effettualità nella teoria della conoscenza sia l'espressione di una fallacia. Per il momento, limitiamoci a constatare il legame tra conoscenza e categorie modali, e cerchiamo di non perdere di vista la pluralità dei legami.

 

4. Il rifiuto della verità-adaequatio in nome della verità come coerenza, oppure come aletheia, potrebbe essere fruttuosamente esplorato nella prospettiva che abbiamo iniziato a delineare. Si intuisce che non è l'effettualità a dominare, in queste concezioni. Sembra opportuno, tuttavia, non confrontare direttamente le grandi teorie e procedere su un terreno più ristretto, dove troviamo proposizioni (o microtesti). Consideriamo alcuni esempi:

"gli  inganni e gli  incantesimi  delle  parole  seducono  e  fanno violenza  all'intelletto in molti modi,  volgendosi indietro a colpire l'intelletto dal quale provengono; come fanno i  Tartari,  che saettano mentre fuggono" (Bacone)7

"Ero diventato, mi sembra, il vertice di un triangolo isoscele, sostenuto nello stesso modo da due divinità gemelle, il dio selvaggio della memoria e la dea-loto del presente ... e ora dovrei adattarmi alla meschina unidimensionalità della linea retta?" (Rushdie)8
"ho il cervello teso come un palo" (García Márquez)9

Queste proposizioni sono suscettibili di venir giudicate per la loro verità o falsità? Ebbene, esse possiedono il primo dei requisiti che siamo abituati a esigere: sono proposizioni dichiarative, e non interrogative o esclamative; anche l'ultima parte del passo di Rushdie è, a ben vedere, una domanda retorica, dunque riportabile alla dimensione dichiarativa. Potremmo dire che si tratta di asserzioni? L'equivalenza tra 'dichiarativo' e 'assertorio' gode di ampi consensi; eppure, di fronte a questi esempi, abbiamo la sensazione che la classificazione tradizionale delle proposizioni debba venire ripensata. La prima parte della frase di Bacone, "gli inganni e gli  incantesimi  delle  parole  seducono  e  fanno violenza  all'intelletto in molti modi" appare come un'asserzione autentica; ma nel momento in cui inganni e incantesimi si volgono indietro, per colpire l'intelletto da cui provengono, e questa torsione del busto - non sapevamo, ancora un istante fa, che essi avessero un corpo simile al nostro e come il nostro capace di torcersi, di compiere un movimento analogo a quello di un arciere che, cavalcando, ruota per consentire alle braccia di scagliare una freccia contro gli inseguitori - questa torsione del busto è sufficiente a produrre qualche incertezza. E l'incertezza aumenta, considerando gli altri esempi: le metafore suggeriscono somiglianze; le suggeriscono fino al punto da asserirle? Dovremmo dunque credere alla somiglianza tra un individuo e il vertice di un triangolo isoscele, sostenuto da due divinità gemelle? In tal caso, come ci rappresentiamo la somiglianza?

Quale esperienza, quale stato di cose, potrebbe offrire una conferma empirica alle metafore sopra menzionate? E tuttavia l'impossibilità di trovare una conferma empirica non deriva dalla vaghezza di quelle proposizioni, e neanche dal fatto che esprimerebbero un'esperienza strettamente privata: ciascuno di noi, infatti, è in grado di comprendere e di condividere la condizione psichica espressa da "ho il cervello teso come un palo", anche se probabilmente la parafrasi di quest'enunciato non risulterà semplice.

In ogni caso, nonostante il loro carattere dichiarativo, queste proposizioni sembrano differire radicalmente da "la neve è bianca" o "il gatto è sul tappeto". Diversamente da queste asserzioni empiriche, le metafore di Bacone, Rushdie, García Marquez, non sono vere e proprie asserzioni e non sono empiriche: non sono vere e proprie asserzioni, in quanto suggeriscono piuttosto una prospettiva ("prova a guardare le cose in questo modo"); e non sono empiriche, perché - a questo punto possiamo dirlo - non appartengono alla miscela modale dell'effettualità.

L'argomentazione potrebbe essere riformulata così: poiché queste proposizioni, che sono dotate di senso e offrono prospettive non banali rispetto agli stati o agli eventi che descrivono, non sembrano 'empiricamente orientate', e poiché riteniamo di dover chiarire il loro statuto modale, la loro differenza rispetto alle asserzioni empiriche (o effettuali), siamo costretti a ipotizzare almeno una miscela modale diversa da quella dell'effettualità. Quest'ipotesi nasce, e resterà confinata, sul terreno emotivo? Oppure è un'ipotesi che, per quanto nuova nella sua concezione, trova delle conferme in alcuni grandi autori?

 

5. La subordinazione alla miscela effettuale è stata sempre fieramente avversata, nella storia della filosofia. Si può dire, anzi, che per molti grandi filosofi il rifiuto di subordinare il pensiero all'effettualità costituisce l'essenza stessa della filosofia. Certamente non è così per tutti i filosofi: non è così per l'empirismo, per il positivismo e per il neopositivismo, per l'epistemologia naturalizzata di Quine, ecc. E, certamente, le ragioni in nome delle quali si è criticata la fallacia effettuale - chiameremo così la subordinazione all'effettualità, e i suoi esiti deformanti10 - sono risultate molte volte altrettanto criticabili della fallacia che rifiutavano. Basti pensare al platonismo, cioè a quel tipo di filosofia che ritiene di affermare l'autonomia del pensiero rispetto all'empiria sdoppiando la realtà empirica, facendo riferimento a un'effettualità superiore, ideale, la cui idealità avrebbe peraltro i tratti di un'empiria esente da imperfezioni. Non è questa però la strada indicata da Nietzsche e da Heidegger. Per comprendere davvero Nietzsche bisognerebbe completare e precisare una delle sue affermazioni più note: se il compito della filosofia consiste nel rovesciare il platonismo, si deve aggiungere che questo rovesciamento non va inteso alla lettera (altrimenti il "mondo vero" di Platone sarebbe stato già rovesciato, dagli empiristi e dai positivisti).

Nei termini di Heidegger, la fallacia effettuale è l'atteggiamento di chi privilegia l'ente intramondano, e cerca di formulare il problema dell'essere a partire dall'ente. La fallacia effettuale deriva dunque dall'oblio della differenza ontologica (e anche della differenza tra l'ente intramondano e il Dasein). Ho mostrato in altra sede come la filosofia di Heidegger sia una filosofia modale, e inviti a una nuova riflessione sulle modalità classiche (il possibile, l'effettuale, il necessario).11 Qui mi limito a menzionare una delle tesi fondamentali di Essere e tempo:

"Più in alto della realtà si trova la possibilità" (Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit).12

Che cosa significa 'più in alto'? Non più vasta, non più ampia numericamente. Escludiamo questa interpretazione. Il passo di Heidegger accenna a una superiorità ontologica, che diventa pienamente comprensibile solo richiamando tutta la visione di Essere e tempo. In ogni caso: la possibilità può apparire ontologicamente più ricca della realtà solo se non si pensa al possibile come al regno delle ombre, che attendono di bere sangue per prendere consistenza; dunque, la possibilità heideggeriana non è un dictum legittimato a varcare la soglia oltre la quale acquisterà esistenza, bensì una possibilità che mantiene la ricchezza, e la potenza, del possibile anche nel corso della sua attuazione. Una possibilità che 'oltrepassa' l'esistenza - ontologicamente, non empiricamente (non è un supplemento di esistenza).

Questa prospettiva è oscura? Forse sì, inevitabilmente, sino a quando non ne esamineremo le manifestazioni ontiche. Già adesso, però, siamo in grado di affermare che una possibilità che mantiene la propria potenza, che non si esaurisce nel processo di realizzazione, deve essere una possibilità necessaria. Il che implica una miscela modale non empiricamente orientata.

Cambiamo bruscamente terreno, e passiamo alla logica. Non soltanto l'ontologia, infatti, ma anche la logica può suggerire una visione non-effettuale o anti-effettuale per quanto riguarda l'attività del pensiero. La riflessione logica è di per sé un atto di autonomia rispetto alle descrizioni empiriche: perciò un'inferenza (i gatti hanno cinque zampe; Felix è un gatto; Felix ha cinque zampe) può mantenere la propria validità, la propria correttezza formale, anche in assenza di verità, intesa come corrispondenza ai fatti. Tuttavia ci sono autori che hanno proposto di subordinare la logica alla realtà: ad esempio Bertrand Russell, secondo cui la logica è una scienza naturale astratta, che "non deve ammettere gli unicorni più di quanto lo faccia la zoologia; infatti la logica tratta del mondo reale come la zoologia, anche se in termini più astratti e generali".13

Si noti che questa impostazione non nega la distinzione tra logica e realtà, e neanche quella tra analitico e sintetico; però la logica viene imprigionata nella realtà effettuale. "Uno scapolo è un uomo non sposato" è una proposizione legittima e sensata solamente perché risulta legittimo e sensato chiedersi, in determinate circostanze, se un individuo, appartenente alla specie umana, a 'ciò che vi è', sia o non sia scapolo.

Per ritrovare l'autonomia modale del pensiero occorre dunque accentuare la biforcazione tra logica e realtà. Sembra che questa sia la via indicata, per esempio, da Wittgenstein: già nella sua prima fase emerge la peculiarità di due tipi di proposizioni, le quali hanno a che fare con la dimensione conoscitiva sia pure in maniera meno diretta delle singole proposizioni empiriche. Ciò che accomuna queste proposizioni è il carattere 'dichiarativo non assertorio'. Da un lato vi sono le proposizioni che esprimono leggi scientifiche, e che non andrebbero considerate come vere e proprie asserzioni ma come regole per la costruzione di enunciati descrittivi ("Distinzione tra 'asserzioni' e ipotesi': un'ipotesi non è un'asserzione, ma una legge per formare asserzioni").14 In effetti, se una legge (o ipotesi) fosse un'asserzione, essa descriverebbe dei fatti: e non questo o quel fatto, bensì dei fatti generali. Ma i fatti generali non esistono; dunque le leggi scientifiche non sono propriamente asserzioni. Su un altro versante vi sono le espressioni in cui prende forma il pensiero filosofico; ma la filosofia non è una dottrina, è piuttosto un'attività, dunque essa non sfocia in asserzioni: "Risultato della filosofia non sono 'proposizioni filosofiche', ma il chiarirsi di proposizioni".15

Supponendo che tutte le proposizioni con valore conoscitivo siano asserzioni, esisterebbero dunque proposizioni, le quali, essendo prive di riferimento empirico immediato, e non essendo né interrogative, né imperative, né esclamative, andrebbero classificate - almeno provvisoriamente - come dichiarative non assertorie. Queste proposizioni avrebbero uno statuto speciale, che si tratta comunque di riconoscere. Così come è necessario riconoscere, secondo Wittgenstein, la peculiarità delle proposizioni logiche: "La spiegazione corretta delle proposizioni logiche deve dar loro una posizione speciale tra tutte le proposizioni".16

Wittgenstein sta cercando di sottrarre la logica a quella subordinazione rispetto alla realtà effettuale, che era stata affermata da Russell? Ciò che importa non è la correttezza filologica di questa lettura; le domande essenziali sono altre: si può pensare una combinazione tra le modalità classiche non dominata dall'effettualità? cioè una miscela modale che non corrisponde allo schema dei rettangoli concentrici? E quanti tipi di miscela si possono (o si debbono) pensare?

Proviamo a costruire uno schema in cui il possibile non debba necessariamente sfociare nell'effettuale e in cui il necessario non risulti inevitabilmente una zona interna all'esistente - non sono queste le prime mosse decisive per svincolarsi dalla signoria dell'effettualità? Lo schema potrebbe presentarsi così:

 

 

schema-2.gif

 

Qui il necessario non è più filtrato dal fattuale: sgorga direttamente dalla possibilità. La figura a forma di clessidra, o di papillon, nel cerchio dei possibili mostra la differenza tra due miscele modali: l'una è costituita dal possibile (P) che passa all'esistenza (E), l'altra dal possibile che diventa necessario (N). A ciò si aggiunge l'eventualità di una zona vuota: sarebbe riempita dall'esistente (anche) necessario già previsto nella schema n.1. Ma la vera novità è rappresentata dalla combinazione diretta tra P e N.17

Questa combinazione dev'essere esplorata ulteriormente. Sul piano concettuale, la sua novità potrebbe ridimensionarsi se non fossimo in grado di attribuire alla necessità un significato diverso da quello tradizionale. Nella combinazione tra P e N, la necessità resta rigida? Questa domanda ne implica un'altra: che cosa irrigidisce la necessità? Il filtro dell'esistente, come si è già visto, ma anche, bisogna aggiungere, lo stile logico. La rigidità ha due volti: la necessità è la rigidità a priori, l'esistente è la rigidità a posteriori. Mentre la rigidità dell'esistente consegue dal suo 'essere-accaduto',18 quella del necessario è implicita nel suo 'non-poter-essere-altrimenti'. Dunque la grande schiavitù a cui il pensiero si ribella, in nome di una necessità diversa da quella contro cui combatte, va individuata nella rigidità.

Quale forza potrebbe opporsi alla necessità rigida, all'infrangibile Ananke? E come si può immaginare una vittoria sulla rigidità? Esaminiamo la nuova combinazione modale, indicata nello schema della clessidra - immagine che sembra offrire qualche risorsa metaforica in più rispetto a quella del papillon. Come chiameremo questa nuova miscela? Il necessario possibile? Sarebbe una denominazione ambigua: non si capirebbe se stiamo parlando del necessariamente possibile oppure di possibilità necessarie. Le due espressioni non sembrano riportabili, se non per pigrizia mentale o per l'azione del pregiudizio, a nessuna sinonimia.

Necessariamente possibile: ciò che è possibile, ma non 'semplicemente possibile', 'solamente possibile' - in tal caso non si comprenderebbe la funzione svolta dal modificatore avverbiale. E tuttavia: ci può essere una possibilità che è soltanto (o semplicemente) possibile? "Domani pioverà": è possibile; lo è necessariamente? In altri termini: non è necessario che piova, ma la possibilità che ciò accada non è forse una possibilità rigidamente iscritta nell'alternativa "domani pioverà oppure non pioverà"?

Alternative di questo tipo hanno un nome: tautologie. Le tautologie sono proposizioni sempre vere, in base alla loro struttura. Appartengono all'insieme delle proposizioni logiche, alle quali, secondo Wittgenstein, bisognerebbe assegnare uno statuto speciale rispetto alle altre proposizioni (presumibilmente, quelle di carattere assertorio). Ebbene, la differenza tra "domani pioverà" e "domani pioverà oppure non pioverà" viene generalmente descritta così: "domani pioverà" è una proposizione empirica, e la sua verità potrà venir stabilita solo mediante una verifica. Per giudicare la verità di una tautologia come "domani pioverà o non pioverà" è invece sufficiente un'analisi di carattere linguistico. Secondo Wittgenstein

"E' il carattere particolare delle proposizioni logiche (logischen Sätze) la possibilità di riconoscerle vere dal simbolo soltanto, e questo fatto (Tatsache) chiude in sé tutta la filosofia della logica. E così pure è uno dei fatti più importanti l'impossibilità di riconoscere vere o false soltanto dalla proposizione le proposizioni non logiche" (dass sich die Wahrheit oder Falschheit der nichtlogischen Sätze nicht am Satz allein erkennen lässt).19

A questo punto, dopo esser tornati ad osservare lo schema 2, potremmo formulare alcune considerazioni:

- lo schema 2 riguarda le modalità de dicto oppure de re ? E' una domanda che, ovviamente, ci obbligherà a riconsiderare prima o poi anche lo schema n.1. Decidiamo, per ora, di non oltrepassare i confini del linguaggio: lo schema ci permette di classificare i diversi tipi di enunciati cognitivi nei differenti spazi;

- la zona indicata da P contiene enunciati come "Domani pioverà", cioè possibilità empiriche. E nel caso in cui domani piova, l'enunciato "Oggi piove" entrerà nella zona E. Invece le tautologie, ad esempio "Domani pioverà o non pioverà", saranno ospitate nella zona N: questa zona potrebbe includere anche le leggi scientifiche, intese non come asserzioni fattuali ma come regole per produrre enunciati veri.

Gli interrogativi che abbiamo lasciato in sospeso stanno trovando una risposta? Sembra che ci troviamo di fonte a due possibili interpretazioni del secondo schema:

(a) P indica il (semplicemente) possibile, N il necessariamente possibile. Questa differenza sembra corrispondere alla tesi di Wittgenstein, secondo cui "Qualcosa di logico non può essere solo-possibile. La logica tratta di ogni possibilità e tutte le possibilità sono i suoi fatti" (Etwas Logisches kann nicht nur-möglich sein. Die Logik handelt von jeder Möglichkeit, und alle Möglichkeiten sind ihre Tatsachen).20 Wittgenstein sta dicendo che la possibilità logica è 'necessariamente possibile', a differenza della possibilità empirica?

Da un certo punto di vista, questa differenza appare convincente. Facendo un altro esempio: è necessariamente possibile che una macchia nel campo visivo abbia un colore, mentre è 'solo possibile' che quel colore sia rosso (anziché giallo, ecc.);21

b) e tuttavia restano dei dubbi: la possibilità che domani piova non sembra differire, in una scala graduata del 'necessariamente possibile', dalla possibilità che domani piova oppure no. Dicendo che la possibilità della pioggia, domani, è 'soltanto possibile', si intende forse suggerire che questo evento potrebbe essere impossibile? Certamente no. Dunque è necessariamente possibile che domani piova.

Allora lo schema 2 verrebbe interpretato così: P è il necessariamente possibile (nP), e ospita enunciati che possono essere veri o falsi ("domani pioverà", "domani non pioverà", ecc.), mentre N è il necessario, cioè l'insieme degli enunciati che sono sempre veri in base alla loro struttura (le tautologie).22

 

6. Iniziamo a comprendere i motivi della nostra insoddisfazione. Nello schema 2 la necessità riesce a sottrarsi al potere dell'effettualità, ma non alla rigidità: le teorie che corrispondono a questo schema, nell'una o nell'altra delle sue possibili interpretazioni, si sono svincolate dalla rigidità a posteriori, ma non da quella a priori. Resta confermata la nostra tesi: la teoria delle modalità "classiche" è dominata dalla rigidità. E se il possibile sembra sfuggire alla rigidità, ciò avviene soltanto grazie alla sua indeterminatezza e inferiorità ontologica. Si tratta comunque di un'illusione: il possibile destinato alla rigidità dell'effettuale o a quella del necessario è già rigido.

Come oltrepassare la teoria classica? Essa non contempla forse tutte le modalità e tutti i modi? Assolutamente no. Le modalità classiche, lo abbiamo appurato, sono intrise di rigidità: dunque la rigidità è una categoria modale, anche se implicita. Se guardiamo ancora una volta alla tavola kantiana delle categorie, non possiamo fare a meno di riscontrare l'articolazione mediante coppie oppositive: possibilità/impossibilità, esistenza/inesistenza, necessità/contingenza (Möglichkeit - Unmöglichkeit, Dasein - Nichtsein, Nothwendigkeit - Zufälligkeit). E' sufficiente estendere questo tipo di articolazione anche alla categoria implicita, per veder apparire una nuova coppia: se il rigido è una categoria modale, anche il flessibile lo sarà. Grazie alla distinzione rigido/flessibile, tutta la sfera modale potrà essere reinventata.

La direzione lungo cui procedere è ormai chiara: bisogna provare a pensare il concetto di 'necessità flessibile'. Abbiamo individuato due fattori che irrigidiscono la necessità: il filtro esercitato dall'effettualità, e lo stile di pensiero; dunque la necessità flessibile andrà cercata nella combinazione diretta tra possibilità e necessità, e in uno stile di pensiero non rigido, cioè non separativo. La combinazione tra P e N è sembrata però ambigua. La differenza tra il 'necessariamente possibile' e la 'possibilità necessaria', apparsa subito evidente sul piano intuitivo, adesso può venir precisata: il necessariamente possibile è il rigidamente possibile, mentre una possibilità necessaria attinge alla dimensione della flessibilità. Una dimensione suscettibile di venir esplorata soltanto da una logica che non sia non separativa o disgiuntiva, bensì congiuntiva.

Quale campo di fenomeni trova nella logica congiuntiva la possibilità di una descrizione corretta, adeguata, feconda? Prima ancora di affrontare questa domanda sembra opportuno riformulare lo schema precedente, rendendo visibile la differenza tra due diversi campi concettuali:

schema-3.gif

Lo chiameremo schema della necessità divisa. D'ora in avanti indicheremo con la sigla nP il necessariamente possibile, e con PN le possibilità necessarie. Una precisazione: nP e PN non sono due spazi reciprocamente esclusivi; una possibilità necessaria è anche necessariamente possibile, altrimenti sarebbe possibile qualche volta sì e qualche volta no. Nella zona PN, la flessibilità include la necessità così come l'agilità di un danzatore include la rigidità del suo scheletro. Le due zone di combinazione tra possibile e necessario differiscono quindi per la diversa funzione svolta dalla rigidità, che domina in nP mentre in PN svolge una funzione 'difensiva' nei confronti dell'impossibile: garantisce cioè che le possibilità necessarie sono sempre possibili.23

Occorre adesso verificare il valore euristico di questa distinzione. Quali fenomeni, o quali enunciati (se vogliamo restringere l'attenzione al campo linguistico), trovano la loro collocazione in PN ? Gli esempi di Wittgenstein non sono utilizzabili: è necessario che una macchia abbia un colore, non è necessario che quel colore sia il giallo. E ancora: una catena montuosa presenterà delle depressioni tra una montagna e l'altra: è necessariamente possibile che una catena montuosa sia caratterizzata dalle sue valli, ma nessuna necessità prescrive la forma che esse potranno assumere.

In esempi di questo genere non riscontriamo alcuna traccia di possibilità necessarie. Esaminiamo allora un altro esempio: nella sua analisi di "The Purloined letter", Jacques Lacan ha affermato che una lettera giunge sempre a destinazione.24 Questo enunciato si presta a un'interpretazione ovvia, immediata: Lacan potrebbe alludere alla conclusione della vicenda narrata, cioè al fatto che la lettera inviata alla Regina, e poi abilmente sottratta dal ministro D., perviene infine nelle mani della persona a cui era indirizzata. Se si enfatizza questo tragitto, il racconto di Poe appare governato da una struttura circolare e da una promessa di restaurazione. Contro questa interpretazione, che attribuisce a Lacan, Derrida accentua l'eventualità di una perdita o di una distruzione: "Non che la lettera non arrivi mai a destinazione, ma fa parte della sua struttura il potervi anche non arrivare".25 Nei nostri termini: è necessariamente possibile che una lettera vada smarrita, che non arrivi a destinazione.

Ma Lacan non nega affatto questa eventualità. Il suo discorso va inteso diversamente, senza perdere di vista il doppio significato di lettera come "epistola, missiva", e come "significante".26 Che una lettera arrivi sempre a destinazione vuol dire che non è possibile sfuggire all'azione, al 'determinismo', del significante: ma poiché il determinismo del significante non è analogo a un determinismo fisico, e va ad instaurarsi in soggetti flessibili, la sua azione verrà descritta assai più correttamente da un linguaggio modale che non da un linguaggio fattuale o comportamentale. In che consiste l'azione del significante? Nell'interpellare i soggetti, nel richiamarli alle loro possibilità: e non a possibilità qualsiasi, ma alle loro possibilità necessarie o superiori.

Questo determinismo non può venir aggirato né sospeso: ciò non vuol dire, evidentemente, che il soggetto sia obbligato ad assumere le proprie possibilità necessarie; non assumendole, tuttavia, egli sarà infedele a se stesso. Ad esempio, Cesare poteva varcare il Rubicone oppure non varcarlo: sappiamo che ha scelto le sue possibilità superiori. Kafka avrebbe potuto non scrivere "Il processo": scrivendolo, ha scelto di non rinunciare alla propria vocazione.

Nel racconto di Poe, il significante determina tutti i personaggi: ma ciascuno di essi ha una propria 'natura', cioè una propria miscela modale. Il trionfo o la sconfitta di ogni personaggio va compreso in relazione alle possibilità che gli sono proprie. Possibilità che non sono implicite nell'identità dei soggetti come lo è una valle in una catena montuosa o un colore in una macchia. E' la differenza tra il Dasein di Heidegger e l'ente intramondano. Dunque la zona indicata con PN non contiene asserzioni bensì interpretazioni: e un'interpretazione va al di là della biforcazione tra fxattuale e logico, come è stata pensata da Wittgenstein (almeno nella prima fase). Percepiamo ancora una volta l'insufficienza della classificazione tradizionale degli enunciati.

 

7. Cerchiamo di approfondire questo punto: un enunciato interpretativo fa riferimento a un testo oppure all'identità di un soggetto in maniera diversa da come un'asserzione si riferisce a un fatto. L'interpretazione non è semplicemente una descrizione, e tuttavia non è neanche un discorso imperativo, interrogativo, ecc.: non dovremmo allora prendere atto della sua inclassificabilità nella tipologia di cui ci si serve più comunemente?

Per la teoria degli Speech Acts (e già per il secondo Wittgenstein) l'asserzione è soltanto un tipo di enunciato, e non merita privilegi particolari; ma per la teoria della conoscenza come adaequatio, in tutte le sue varianti, la frontiera decisiva rimane quella che separa gli enunciati dichiarativi (o asserzioni) e gli enunciati non dichiarativi, di vario genere. D'altra parte, con Nietzsche e Freud è proprio questa frontiera a venire messa in discussione: una verità interpretativa differisce da una verità fattuale, pur non essendo priva di valenze descrittive o esplicative. Su che cosa si fonda questa differenza? Finora non è stata fornita, a nostro avviso, una risposta soddisfacente.

L'ermeneutica ha contrapposto i fatti e i significati, gli oggetti e i testi. Troppo poco, se si mantiene una concezione veicolare del senso, se il senso viene concepito 'cosalmente', esponendosi alle critiche dell'epistemologia naturalizzata. Manca, nell'ermeneutica, una vera comprensione del legame tra il significato e la sfera del modus: non che sia impossibile scomporre il significato in parti più elementari, con un procedimento 'oggettuale'; ma con questo tipo di analisi, che definisce la semantica componenziale, ci si lascia sfuggire l'essenziale del problema. Non si comprende la pluralità stilistica del senso (i regimi), e neanche la pluralità delle logiche. Diventa impossibile approfondire il problema della verità.

E' probabilmente per questi motivi che Heidegger ha preso le distanze dall'ermeneutica.27 E con piena ragione: per quanto vistosi siano gli omaggi e per quanto numerosi siano i riferimenti, l'ermeneutica sembra non avere colto l'impostazione modale del pensiero heideggeriano.

La concezione della verità come aletheia non si esaurisce nell'enfasi posta sull'apertura. Se il luogo della verità non è, come sostiene Heidegger, quello della proposizione, ciò non vuol dire che dobbiamo cercare un luogo più originario: 'più originaria' è la pluralità dei modi di articolazione, cioè la scissione semantico-fattuale e i regimi di senso. La grande novità che si fa strada dapprima in Nietzsche e Freud, poi in Heidegger, è che il significato non consiste in un contenuto veicolato o trasmesso (comunque lo si interpreti), ma è un'attività articolante, formante, strutturante. Energheia, e non ergon: ma quest'intuizione diventa una teoria, la teoria dei regimi di senso, solo a condizione di pensare i modi del significato.

8. Avevamo osservato, all'inizio di questo articolo, che le metafore, pur presentandosi nella forma di asserzioni e comunque di enunciati descrittivi, non sembrano offrire lo stesso tipo di conoscenza che viene fornito da enunciati come "la neve è bianca" o "il gatto è sul tappeto". Perciò il nesso tra metafora e conoscenza resta oscuro. La capacità di ridescrivere un oggetto, su cui insiste Black, è certamente equiparabile a una nuova proposta percettiva o semantica, a una nuova possibilità; ma una possibilità non è ancora una conoscenza. Per poter affermare il valore conoscitivo delle metafore occorre una teoria della conoscenza diversa da quelle di tipo empirista o realista; una concezione non cosale o fattuale; soltanto sul terreno delle modalità (lo avevamo anticipato nel par. 2) si potrà davvero affrontare il problema della conoscenza tramite le metafore.

Gli sviluppi del nostro discorso inducono a una prima conclusione: un enunciato può rivendicare la propria verità solo relativamente alla miscela modale entro cui si colloca. Questa è una visione relazionale, e non relativista. La pluralità delle miscele modali rende illegittima ogni pretesa di verità non modalmente contestualizzata. "Il gatto è sul tappeto" - come enunciato che riflette un frammento dell'esperienza quotidiana - va compreso e valutato internamente alla miscela dell'effettualità. "Ero diventato il vertice di un triangolo isoscele, sostenuto da due divinità gemelle, il dio selvaggio della memoria e la dea-loto del presente" (Rushdie) non è un enunciato effettuale: come tutti gli autentici enunciati figurali, è un enunciato interpretativo, e va compreso e valutato internamente alla miscela della necessità divisa. Si noti che mentre un enunciato fattuale (semanticamente diluito) può venire giudicato atomisticamente, cioè in un micro-contesto, un enunciato figurale, semanticamente denso, esige normalmente di venire collocato in un contesto più ampio, che tende a coincidere con l'intero testo di appartenenza. 28

Da questa conclusione scaturisce però un nuovo problema: mentre dal punto di vista strettamente linguistico tutte le metafore risultano sufficientemente omogenee tra di loro, non è così dal punto di vista conoscitivo. Tra i due punti di vista nasce una forte divergenza: l'affinità, se non l'identità, nel meccanismo semantico non rende credibile un'affinità analoga per quanto riguarda il meccanismo modale, cioè l'appartenenza a una o all'altra delle diverse miscele. Soltanto gli enunciati figurali autentici, lo abbiamo appena detto, appartengono alla miscela PN. Bisogna dunque diffidare della grammatica, delle apparenze grammaticali - una diffidenza auspicata da Nietzsche come da Wittgenstein - quando l'analisi si sposta dal terreno linguistico a quello conoscitivo.

Come riconoscere un enunciato figurale autentico? Siamo davvero sicuri della differenza che stiamo affermando? Non è forse vero che nessuna somiglianza figurale è equiparabile alle somiglianze letterali, cioè a somiglianze tra oggetti o individui della stessa specie? Un'automobile somiglia a un'altra automobile, un fiore a un altro fiore; invece, perfino le somiglianze che hanno trovato una codifica nelle metafore catacresizzate danno la sensazione di instaurare una somiglianza, di crearla (o di averla creata), piuttosto che di trovarla.

L'obiezione è parzialmente fondata, ma trova una risposta precisando la nozione di 'miscela': a differenziare una miscela modale da un'altra è la dominanza, non la presenza esclusiva di una categoria o di una combinazione. Riprendiamo il problema dell'identità: definire il proprio 'essere' in relazione alle proprie possibilità necessarie non significa, per un individuo (reale o di finzione), trovarsi escluso (o quasi) dall'effettualità: in tal caso le individualità più complesse sarebbero inevitabilmente creature quasi angeliche, condannate all'esilio. Questa è la condizione di molti artisti, il cui regno non è di questa terra:29 ma si tratta di una condizione storica, che vale per molti artisti della modernità, e non ha impedito in passato, e di per sé non impedisce, una forte integrazione nel tessuto sociale e una ricezione immediata; inoltre, la condizione di solitudine dell'artista nel corso della propria esistenza non impedisce alle possibilità necessarie, che hanno trovato elaborazione nella sua opera, di vivere nel "tempo grande", come lo ha chiamato Bachtin; per ciascuno di noi, infine, l'invito che Nietzsche trae da Pindaro, "Diventa ciò che sei", e che possiamo trasporre in "Dà una forma alle tue possibilità necessarie", non suggerisce alcuna rinuncia a calarsi nell'effettualità. Queste considerazioni vanno estese alle metafore.

Anche le metafore meno compromesse con somiglianze empiriche, anche le metafore la cui bellezza è più astratta, si servono di materiali tratti dalla Wirklichkeit. La cosa è del tutto evidente. Vale la pena di distinguere, però, i diversi orientamenti modali e i possibili destini degli enunciati figurali. Le metafore che diventano un'algebra non sono forse metafore irresistibilmente trascinate, o risucchiate, nella miscela dell'effettualità? Il passaggio da "il mondo è un grande animale, una totalità vivente" a "il mondo è una macchina" caratterizza la nascita della fisica moderna, con Galilei e Cartesio. Che cosa resta però di metaforico nella fisica moderna? Su questo punto Black ha ragione, le metafore che inaugurano un programma di ricerca nell'ambito delle scienze naturali svolgono un ruolo effimero, hanno una vita effimera.

Un analogo orientamento effettuale caratterizza però molte metafore letterarie:

"La luce si spandeva in alto dal tetto di vetro, facendo apparire il teatro un'arca festiva ancorata tra le carcasse di case, con i fragili cavi delle lanterne che l'assicuravano agli ormeggi".30
"O. ha passato i 70 anni, la sua memoria si è affievolita, il suo volto è rugoso come un palmo di mano semiaperto".31

In queste metafore la potenza non-effettuale, o anti-effettuale, non si dispiega in tutta la sua forza (anche se con maggior decisione nel primo caso). Da dove nasce questa sensazione? Probabilmente dal fatto che tra i due termini della relazione metaforica, entrambi empirici, la differenza di contesto non è particolarmente accentuata; nella frase di Auster si riscontra addirittura un contesto unitario, il corpo umano. Per contro, l'accostamento di oggetti provenienti da sfere lontane, anche se egualmente empiriche, può esaltare il funzionamento astratto della metafora, mascherato dalla nominazione di oggetti concreti.

9. La necessità di descrivere la specificità delle metafore, cioè degli enunciati metaforici, e il posto speciale che questi enunciati occupano, ci ha portati a delineare una nuova visione linguistica e ontologica: un pensiero delle modalità, una rivoluzione modale.

Cerchiamo di indicare alcune direzioni di ricerca:

a) una nuova tipologia delle proposizioni con valore cognitivo. Si potrebbe anche mantenere la frontiera tra dichiarativo e non dichiarativo, a condizione di rompere la sinonimia tra 'dichiarativo' e 'assertorio', e certamente tra 'dichiarativo' e 'assertorio empirico': le proposizioni interpretative (tra cui quelle figurali) verrebbero in tal caso a collocarsi nel territorio del dichiarativo, ma con piena autonomia. Oppure si potrebbe enfatizzare la differenza tra asserzioni e interpretazioni, in quanto presuppongono due miscele modali differenti: naturalmente, questa seconda via ci sembra preferibile;

b) il problema della sensatezza. Un enunciato metaforico è sempre sensato? O esiste un criterio per decretare l'insensatezza di certe metafore? Ebbene, il criterio di sensatezza per gli enunciati figurali non andrà individuato nel referente empirico, poiché gli enunciati figurali (autentici) appartengono alla miscela del possibile necessario, da cui l'empiria non è assente ma in cui non gode di alcun privilegio; e neanche nella grammatica di una qualsiasi lingua naturale, in quelle regole d'uso rigide o semirigide che prescrivono i confini del senso in un gioco linguistico. Non sembrano perciò adeguate le indicazioni del secondo Wittgenstein, dalle cui Ricerche filosofiche si può trarre il test della 'possibilità del contrario'. Ad esempio, se qualcuno afferma: "questa linea è lunga due metri", posso pensare che quest'affermazione non sia vera, ma non che la linea non abbia una lunghezza.32 Nei nostri termini, è necessariamente possibile che una linea presenti una certa lunghezza.

Regole grammaticali, o di tipo grammaticale, autorizzano a considerare insensata l'attribuzione di sensazioni a oggetti inanimati: "questo tavolo ha mal di denti" è dunque una proposizione rispetto a cui il criterio grammaticale di sensatezza può venir applicare senza indecisioni. Regole semantiche dovrebbero consentirci di riconoscere come privi di senso enunciati quali "idee verdi incolori dormono furiosamente". Tuttavia, commentando questo celebre esempio di Chomsky, Denis Bertrand ha indicato una possibile anche se avventurosa isotopia. 33 La fluidità e la duttilità della dimensione semantica rendono difficile, e probabilmente impossibile, il reperimento di un criterio di sensatezza: vi sono molte proposizioni metaforiche che, a prima vista e in assenza di un contesto plausibile, appaiono insensate. Non è detto però che l'azione redentrice ad opera di un contesto non possa esercitarsi a distanza di tempo: "sono il vertice di un triangolo isoscele" - ecco un esempio di metafora che non ci appare più necessariamente insensata grazie a un personaggio di Rushdie;

c) l'imprevedibilità delle isotopie, che le metafore sanno creare, esige nuovi strumenti di descrizione e di analisi. Non ci si può limitare a una registrazione di scarti dalla norma, irregolarità, trasgressioni.34 Ciò implicherebbe l'esistenza, o la legittimità, di un solo stile logico, quello separativo, nel cui ambito il senso dovrebbe risultare sempre determinato o determinabile (i fenomeni di vaghezza non producono nessuna catastrofe logica). Gli enunciati figurali nascono da uno stile di pensiero congiuntivo, che non va inteso semplicemente come un insieme di trasgressioni, di violazioni sia pure tollerate. Da un certo punto di vista, è vero che lo stile congiuntivo si appoggia al separativo per negarlo e reinventarlo, ma da un diverso punto di vista si può sostenere che il congiuntivo è più originario, o perlomeno altrettanto originario. La potenza di connessione che si manifesta nelle figure è, per Vico o per Nietzsche, il ritorno di un'energia che la grammatica, con le sue articolazioni rigide, si era illusa di aver imprigionato e addomesticato.

Per la nostra impostazione, non è indispensabile pronunciarsi sulla maggiore originarietà di uno stile di pensiero o di un altro: ciò che importa è che venga riconosciuto il contributo essenziale della figuralità, la sua possibile autonomia, e dunque la legittimità di quel tipo di logica che chiamiamo congiuntiva. In realtà con questa espressione si indica una famiglia di logiche che va ulteriormente divisa, nel confusivo e nel distintivo;

d) la logica congiuntiva si fonda su un concetto fluido e scissionale di 'identità'. Identità non vuol dire necessariamente, come nella logica separativa, 'coincidenza' (con se stesso); anzi, tale coincidenza può venire indicata come una vera e propria fallacia, nella misura in cui tende ad escludere l'identità fluida, flessibile. Dovrebbe essere evidente che la non-coincidenza di cui stiamo parlando non è l'equivalente di una contraddizione, non è la violazione di un principio, definito per la prima volta da Aristotele, che non può venir eluso da nessun discorso razionale. Se ciò che stiamo enunciando non appare immediatamente comprensibile - ed è ovvio che sia così -, è perché una lunga e fallace tradizione ha nascosto il carattere 'stilizzato' del principio di non-contraddizione, e la polisemia delle relazioni oppositive. Che A coincida con non-A è possibile, ed è legittimo sul piano razionale, se A e non-A vengono pensati come correlativi, e non come contraddittori;

e) secondo la logica separativa, si può riferire un predicato a un soggetto (a una sostanza individuale), ad esempio si può dire che "Platone è ateniese"; ma non si può predicare una sostanza individuale di un'altra sostanza, ad esempio non si può dire che "Platone è Socrate". Ebbene, questa tesi, che è tra le più basilari della logica separativa, non risulta più accettabile per la logica congiuntiva. E' assolutamente legittimo, per uno stile di pensiero congiuntivo, asserire che Platone è Socrate. Quest'affermazione diventa possibile grazie a un diverso concetto di identità: l'identità come identificazione.

Che questa concetto di identità sia legittimo, anzi, estremamente fecondo, dotato di una straordinaria forza euristica, è la psicoanalisi ad attestarlo. Per Freud, che espone per la prima volta in forma sufficientemente sistematica la teoria dell'identificazione in Psicologia delle masse e analisi dell'Io,35 l'identità degli esseri umani viene determinata dal desiderio di essere: desiderio che ci porta, sin dall'inizio, al di là dei nostri confini - che quindi, da un certo punto di vista, non sono mai esistiti. Il rapporto con l'alterità è costitutivo. Il bambino è sua madre e suo padre (due identificazioni eterogenee), e poi altre persone ancora. Si identificherà positivamente con i suoi modelli: così Platone desidererà essere Socrate, e potrà esserlo.

Non interamente: come nel caso delle metafore, e di quella che Lacan ha chiamato metafora paterna, tra A e B si verifica un'intersezione, e non una sovrapposizione completa. Così accade nelle metafore distintive; le identificazioni deliranti sono invece processi confusivi;

f) "Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo".36 Ecco un processo di identificazione descritto nella sua serialità: per tre volte accade ciò che la logica separativa considera inammissibile, un soggetto viene predicato di un altro soggetto (il verbo diventare significa che qualcosa s'identifica con qualcos'altro, lo interiorizza nella sua forza modellizzante). E' quanto avviene normalmente nella metafora.37

Si potrebbe tentare di tradurre le relazioni figurali nello stile separativo, riportandole così a quella logica di cui esse disconoscono l'unicità e il primato: si dirà, ad esempio, che il cammello esemplifica il predicato 'pesantezza', oppure che i lessemi /spirito/ e /cammello/ trovano in questo tratto semantico la loro zona di confluenza, di intersezione. Queste descrizioni non sono infondate, e tuttavia se ne può trarre una conferma dell'inadeguatezza del punto di vista strettamente linguistico.

L'affinità tra metafora e processo di identificazione dovrebbe riportarci al pluralismo delle miscele modali: in ogni identificazione, il soggetto sceglie oppure non sceglie le proprie possibilità necessarie. L'identificazione non si esaurisce nell'istante o nel breve periodo: è un processo talvolta lungo, conflittuale e tormentato.38 A questo punto lo schema 3 appare in una nuova luce: come un insieme di distinzioni polisemiche, in cui P, ad esempio, indica diversi tipi di possibilità, quelle dell'ente intramondano ma anche quelle del Dasein. Soltanto per il Dasein ha senso parlare di possibilità necessarie, cioè di possibilità che vanno riconosciute ed elaborate mediante l'interpretazione.

10. Ciò che si può imparare dalle metafore, analizzate sul terreno delle modalità: la pluralità delle miscele, e il passaggio a una teoria non referenzialista della conoscenza; l'ampliamento delle modalità classiche, a cui si aggiungono le categorie 'rigido/flessibile' e i modi del senso (i regimi: confusivo, separativo, distintivo); la necessità di una nuova logica, già messa in opera da Eraclito, Hegel, Nietzsche, Heidegger, Lacan, in versioni notevolmente diverse tra loro, ma sufficientemente affini perché si possa parlare di 'logica congiuntiva': una logica che non mai è riuscita ad autodescriversi, e che potrebbe ricevere stimoli importantissimi da una buona descrizione; la conferma del concetto di identità come identificazione, teorizzato dalla psicoanalisi, e che trova probabilmente nella letteratura le migliori possibilità di elaborazione.

Note

  1. Max Black, Metaphor, 1954, in Models and Metaphors, Cornell U.P., Ithaca, New York 1962, p. 25; trad. it. Metafora in Modelli Archetipi Metafore, Pratiche, Parma 1983, p. 41.
  2. Modelli e archetipi è una conferenza del 1958, pubblicata per la prima volta nel 1960; trad. it. cit. p.94.
  3. "Uno dei punti su cui vorrei insistere è che la perdita, in casi simili, è una perdita di contenuto cognitivo; la più grossa carenza della parafrasi letterale non è costituita dal fatto che questa possa essere fastidiosamente prolissa o noiosamente esplicita o priva di qualità stilistiche; essa non riesce come traduzione perché non riesce a dare quel tipo di intuizione che la metafora dava" (Max Black, Metaphor, in Models and Metaphors, cit., p. 26; trad. it. cit. p. 65).
  4. "Die Modalität der Urtheile ist eine ganz besondere Function derselben, die das Unterscheidende an sich hat, dass sie nichts zum Inhalte des Urtheils beiträgt (...), sondern nur den Werth der Copula in Beziehung auf das Denken überhaupt angeht" (Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-87; trad. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1969, p. 110.
  5. "Die Kategorien der Modalität haben das Besondere an sich: dass sie den Begriff, dem sie als Prädicate beigefügt werden, als Bestimmung des Objects nicht im mindesten vermehren, sondern nur das Verhältniss zum Erkenntnissvermögen ausdrücken. Wenn der Begriff eines Dinges schon ganz vollständig ist, so kann ich doch noch von diesem Gegenstande fragen, ob er bloss möglich oder auch wirklich, oder, wenn er das letztere ist, ob er gar auch nothwendig sei?" (ibid, p. 224).
  6. Aristotele, Metafisica, V, 5, 1015 a 35 - 1015 b 6.
  7. Francesco Bacone, De dignitate et augmentis scientiarum, 1623; trad. it. Della dignità e del progresso delle scienze in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1965, vol. II, p. 279.
  8. "I have become, it seems to me, the apex of an isosceles triangle, supported equally by twin deities, the wild god of memory and the lotus-goddess of the present ... but must I now become reconciled to the narrow one-dimensionality of a straight line?", Salman Rushdie, Midnight's Children, 1980 (trad. it. I figli della mezzanotte, Garzanti, Milano 1999, p. 169).
  9. "Tiengo el cerebro tieso como un palo", Gabriel García Márquez, El coronel no tiene quien le escriba, 1961 (trad. it. Nessuno scrive al colonnello, Mondadori, Milano 2005, p. 21).
  10. Dal punto di vista ontologico, la fallacia effettuale è perfettamente rappresentata dall'impostazione di Quine: "A curious thing about the ontological problem is its semplicity. It can be put in three Anglo-Saxon monosyllables: 'What is there?' (From a Logical Point of View, 1953, Harvard U.P, p. 1) ("Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può essere posto, in italiano, con tre sole parole: 'Che cosa esiste?') (trad. it. Il problema del significato, Ubaldini, Roma, p. 3).
  11. Mi permetto di rinviare a Giovanni Bottiroli, Le scissioni dell'alfa privativo. Per una concezione modale della verità, in "Oltrecorrente" 5, 2002. Per quanto riguarda la mia concezione delle modalità, e la rivoluzione modale, cfr. Teoria dello stile, La Nuova Italia, Firenze 1997.
  12. Martin Heidegger, Sein und Zeit, 1927 (trad. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, a cura di Franco Volpi, par. 7, p. 54).
  13. Bertrand Russell, Introduction to Mathematical Philosophy, 1919 (trad. it. Newton Compton, Roma 1970, p. 199).
  14. Cfr. Wittgenstein und der Wiener Kreis (1929-32), appunti redatti da F. Waismann, 1967; trad. it. Wittgenstein e il Circolo di Vienna, la Nuova Italia, Firenze 1975, p. 87.
  15. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1921; trad. it. Einaudi, Torino 1974, 4.112.
  16. "Die richtige Erklärung der logischen Sätze muss ihnen eine einzigartige Stellung unter allen Sätzen geben" (Ludwig Wittgenstein, Tractatus, 6.112).
  17. L'argomento ontologico di S. Anselmo si basa su questa combinazione: indica il passaggio da P a E mediante N, mentre le prove a posteriori muovono da E, dall'esistente, per inferire un ente necessario.
  18. Come dice un'antica sentenza: "Factum .. fieri infectum non potest" (Ciò che è stato fatto non può diventare non fatto).
  19. Tractatus, 6.113.
  20. Tractatus, 2.0121.
  21. Cfr. il Tractatus, 2.0131.
  22. Questa seconda interpretazione sembra preferibile; adottando l'interpretazione (a) bisognerebbe ritagliare all'interno di N uno spazio per le tautologie, che, oltre ad essere necessariamente possibili, sono necessariamente vere.Va comunque osservato che la divergenza tra le due interpretazioni è destinata a ridimensionarsi notevolmente nel confronto con lo schema 3.
  23. Lo schema 3 avrebbe potuto avere una diversa configurazione, con PN come sottinsieme di nP.
    Altra osservazione: ammettendo che tutte le possibilità (P) siano necessariamente possibili (nP), lo schema evidenzierebbe la differenza tra zone rigide e zone della flessibilità.
  24. Jacques Lacan, Ecrits, 1966; trad. it. Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p.
  25. Jacques Derrida, Le facteur de la vérité, 1975; trad. it. Il fattore della verità, Adelphi, Milano 1978, p. 59.
  26. Il significante di Lacan non è quello di Saussure: non è una metà del segno. E' piuttosto un regime di funzionamento semiotico.
  27. "L'ermeneutica è affare di Gadamer" (lettera di Martin Heidegger a Otto Pöggeler, 5 gennaio 1973; citata in O. Pöggeler, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, Alber, Freiburg-München 1983, p. 395).
  28. Rinvio ad altra sede il problema dell'olismo. E del semi-olismo: c'è da dubitare infatti che olismo e atomismo costituiscano un'alternativa rigida, e che il problema non sia affrontabile con il criterio dei gradi.
  29. Scrive Freud a proposito di Norbert Hanold, il protagonista della novella di Jensen: "Una tale scissione, della fantasia dalle facoltà razionali, doveva predisporlo a diventare o poeta o nevroticoM comunque egli apparteneva a quella specie di uomini il cui regno non è di questa terra" (Der Wahn und die Träume in Wilhelm Jensens 'Gradiva', 1906; trad. it. Delirio e sogni nella 'Gradiva' di W. Jensen, in Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, Boringheri, Torino 1975, vol. 2, p. 124)
  30. "The light spread upwards from the glass roof making the theatre seem a festive ark, anchored among the hulks of houses, her frail cables of lanterns looping her to her moorings" (James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, 1916; trad. it. Mondadori, Milano 1973, p. 126.
  31. Paul Auster, The Invention of Solitude, 1982; trad. it. L'invenzione della solitudine, Anabasi, Milano 1993, p. 158.
  32. Cfr. Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, 1953; trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, parte prima, par. 251.
  33. Denis Bertrand, Précis de sémiotique littéraire, 2000; trad. it. Basi di semiotica letteraria, Meltemi, Roma 2002, p. 121.
  34. La nozione di category-mistake, tratta da Ryle, viene discussa da Ricoeur in La métaphore vive, 1975; trad. it. La metafora viva, Jaca Book, Milano 1976, pp. 28-sgg.
  35. Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, 1921; trad. it. in Opere, vol. IX. Cfr. in particolare i capitoli 7 (dove Freud distingue tre tipi di identificazione ) e 8 (l'identificazione può riguardare l'Io oppure l'Ideale dell'Io).
  36. "Drei Verwandlungen nenne ich euch des Geistes: wie der Geist zum Kameele wird, und zum Löwen das Kameel, und zum Kinde zuletzt der Löwe" (Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, 1883-85; trad. it. Così parlò Zarathustra, in Opere, vol. VI, tomo I, Adelphi, Milano 1968, p. 23).
  37. L'esempio può apparire non pertinente perché non chiama in causa individui designati da un nome proprio; è comunque interessante perché accentua la processualità seriale delle identificazioni.
  38. Esistono anche identificazioni brevi, contingenti o intermittenti: tali sono frequentemente le identificazioni che riguardano l'Io (ad esempio, quelle con un campione sportivo, le cui imprese scatenano l'entusiasmo senza creare nessun proposito di emulazione).