Metafore e stili di pensiero
Oltre le scienze “semi-cognitive” (e la “dismal theory” di Lakoff e Johnson)
Comunicazione presentata al convegno internazionale “Researching Metaphor: Cognitive and Other – Autour de la métaphore: de la métaphore cognitive et d’autres approches” (Genova, 13-15 maggio 2019).
Il testo in inglese, con il titolo "Metaphors and styles of thought. Beyond “semi-cognitive” sciences (and the “dismal theory” of Lakoff and Johnson)" è stato pubblicato sui Quaderni del CIRM (Centro Interuniversitario di Ricerca sulle Metafore), 2, 2023.
Abstract
Il meccanismo di pensiero su cui sono imperniate le metafore non è stato ancora chiarito adeguatamente: e non potrà venire chiarito se le metafore non saranno analizzate in base agli stili di pensiero che le differenziano, pur in un ambito di affinità. Questa è la tesi che cercherò di sostenere.
Il concetto strategicamente decisivo è dunque quello degli “stili di pensiero”. Per comprenderlo, occorre svincolarsi dall’alternativa tra stile come espressione individuale e stile come insieme di tratti che caratterizzano una corrente, un’epoca, ecc. Affermare che “non c’è pensiero senza stile” significa invece collegarsi a una domanda che ha trovato i suoi maggiori interpreti nella filosofia continentale degli ultimi due secoli. Hegel, Nietzsche, Heidegger, hanno rifiutato il dogma di ciò che possiamo chiamare zerostilismo, cioè la convinzione secondo cui esiste un solo modo di pensare, logicamente fondato e corretto. Le loro prospettive sono diverse - intelletto (Verstand) e ragione (Vernunft) per Hegel, conoscenza socratica e conoscenza tragica per Nietzsche, pensiero calcolante e pensiero meditante per Heidegger –, ma solidali.
Bisogna dunque distinguere due stili di pensiero (o meglio, due famiglie). Lo stile separativo si serve di termini dai confini rigidi o semirigidi, la cui identità è autonoma; invece per lo stile congiuntivo l’identità viene determinata solo grazie a rapporti di sconfinamento (eventualmente reciproco). Si consideri ad esempio la differenza tra “questa bottiglia e questo bicchiere” e “Tristano e Isotta”. Due usi e due significati radicalmente diversi della “et”, dal punto di vista logico. Non vi è alcun sconfinamento, nel primo caso; per contro, in ogni versione del mito di Tristano e Isotta, l’amore crea un legame indissolubile, e rende impossibile sopravvivere alla perdita della persona amata.
Le metafore sono forme di pensiero congiuntivo? Sembra proprio di sì: dunque, bisogna valorizzare la specificità del loro funzionamento logico. Adesso possiamo comprendere la povertà delle teorie cognitiviste: poiché si fondano sullo stile separativo, come possono pretendere di descrivere il vero funzionamento delle metafore?
Come si vedrà, i cognitivisti privilegiano le cose dotate di confini precisi (having distinct bounderies) e affidano alla metafora un ruolo servile, quello cioè di introdurre frontiere chiare e stabili là dove mancano. Una tesi che viene smentita dalla letteratura, in quanto essa crea metafore soprattutto per dissolvere i confini rigidi già esistenti.
A questo punto, occorre compiere un ulteriore e decisivo passo in avanti; non possiamo più parlare delle metafore in generale, senza distinguere due grandi possibilità:
(a) le metafore stereotipate (l’amore è un viaggio, ecc.), orientate verso l’effettualità, rigidamente articolate, con funzione familiarizzante;
(b) le metafore stranianti, orientate verso la possibilità, e semanticamente dense (favorevoli all’interpretazione).
Questa è la differenza tra le metafore con cui viviamo una vita irrigidita, e le metafore con cui viviamo una vita fluida. Tale differenza nasce dal conflitto tra stili di pensiero e lo conferma. Al tempo stesso, mostra come le scienze cognitive dovrebbero venir chiamate “semi-cognitive”, per la parzialità del loro stile logico.
1. Dallo “zerostilismo” agli stili di pensiero. Una breve introduzione.
Poiché la metafora è un meccanismo di pensiero, la domanda “Che cosa significa pensare?” dovrebbe venir considerata rilevante anche per una teoria dei tropi. Fino a quando non affronteremo questa domanda, qualunque definizione della metafora (e degli altri meccanismi semantici fondamentali) risulterà parziale e inadeguata. Questa è la tesi che cercherò di sostenere. Per ovvie ragioni di tempo, sono costretto a esporla e ad argomentarla in maniera assai schematica.
Ma questa domanda è davvero necessaria? Non tutti la ritengono tale: anzi, sembra che solo alcuni filosofi, appartenenti alla cosiddetta filosofia continentale (ad esempio Hegel, Nietzsche, Heidegger) l’abbiano considerata ineludibile. Si potrebbe tuttavia obiettare che anche la filosofia analitica e da qualche decennio le scienze cognitive indagano l’attività del pensiero: come negarlo? Qual è dunque la differenza a cui è dedicata questa mia riflessione – e, anzitutto, qual è la differenza tra concezioni della filosofia tra le quali, come sappiamo, il dialogo è il più delle volte impossibile?
La differenza consiste nel mantenere oppure nel rifiutare una superstizione, un dogma, introdotto e reso inattaccabile dall’articolo determinativo nelle espressioni “IL pensiero” e “IL linguaggio”. A favore dell’articolo determinativo si schiera interamente il senso comune: e chi non dubita della sua legittimità, anche se è un filosofo o un linguista, si troverà senza rendersene conto nell’impossibilità di mettere in discussione il dogma che chiamerò monostilismo, o meglio ancora zerostilismo, vale a dire la convinzione per cui esiste soltanto un modo di pensare. Esso non ha impedito evidentemente i progressi della logica formale e della scienza nei confronti del linguaggio quotidiano, con le sue ambiguità e le sue vaghezze, e nei confronti del pensiero quotidiano, così propenso a compiere errori. Zerostilismo significa però un’altra cosa, e cioè “pensiero senza stile”. Significa che possono esistere logiche diverse, ad esempio quelle postclassiche, le logiche aletiche, le logiche paraconsistenti, ecc, ma che queste differenze non infrangono l’unità del pensiero, la sua identità “stilistica”. Dunque, il pensiero può essere molteplice senza diventare pluristilistico.
In che senso sto utilizzando il termine stile? Certamente in un’accezione diversa da quella diffusa nell’opinione comune, e in cui lo intendeva Gottlob Frege quando diceva “l’eleganza possiamo lasciarla ai sarti e ai calzolai”. Ancora una volta, dobbiamo scuotere e respingere le certezze del senso comune, condivise purtroppo da chi crede che esista una sola possibilità per la logica. Per motivi a cui potrò almeno accennare tra poco, dobbiamo riconoscere e affermare tra lo stile e il pensiero un nesso che niente potrebbe spezzare – anche se, come si è appena detto, viviamo ancora in un’epoca superstiziosa, siamo ancora superstiziosi, crediamo ancora nell’effetto di unità prodotto dall’articolo determinativo.
La meta che sto indicando potrebbe apparire come qualcosa di nebbioso, e perduto in remote lontananze, se la via non fosse già stata parzialmente tracciata da alcuni grandi pensatori: ho già ricordato alcuni nomi, a cui se ne potrebbero aggiungere altri (per esempio, Freud e Bachtin).1 La tesi da sviluppare è dunque questa: “non c’è pensiero senza stile”. E il concetto che bisogna subito precisare è quello di “stili di pensiero”.
Per procedere in questa direzione, dobbiamo abbandonare quasi interamente ciò che si colloca nell’ambito della stilistica (Spitzer, Auerbach, ecc.), e senza dubbio l’alternativa tra stile come espressione individuale e stile come insieme di stilemi, cioè tratti che caratterizzano una corrente, un autore, e così via. Si tratta di nozioni che appartengono a un’idea di linguaggio erroneamente impoverita rispetto ai processi mentali. Se trascuriamo alcune eccezioni (Pascal, per esempio: esprit de géometrie, esprit de finesse), possiamo dire che la differenza tra stili di pensiero è una tesi che viene chiaramente enunciata soltanto con l’idealismo tedesco. Per Hegel l’intelletto (Verstand) e la ragione (Vernunft) differiscono in questo (mi riferisco ai par. 79-81 dell’Enciclopedia): l’intelletto produce e si serve di determinazioni rigide, cioè di concetti che corrispondono al requisito che verrà poi indicato da Frege, secondo cui i concetti devono avere confini netti.2 Non mi pare forzato affermare che Hegel sta descrivendo un “modo di funzionare” dell’intelligenza, uno stile di pensiero che chiamerò separativo, una logica che potremmo chiamare separativa o disgiuntiva. Questa nominazione non deve far sorgere equivoci: la logica delle “buone separazioni” dispone ovviamente di connettivi: ma questi connettivi fanno sorgere nessi (o legami) che non compromettono l’identità di nessun termine. Essi non prevedono lo sconfinamento, anzi lo impediscono. Per lo stile logico separativo, l’identità è la relazione che un ente può avere soltanto con se stesso.
Provo a chiarire questo punto fondamentale tramite due esempi, in cui il connettivo “et” assume due significati del tutto diversi dal punto di vista logico: che differenza c’è tra la “e” di “questa bottiglia e questo bicchiere” e quella di “Tristano e Isotta”? Nel primo caso, il connettivo indica un legame (presumibilmente di contiguità nello spazio) tra due oggetti, ciascuno dei quali è identico a se stesso: una bottiglia è una bottiglia e un bicchiere è un bicchiere. Nel secondo caso il connettivo indica un legame che può venir espresso in vari modi, ma che Freud ha definito meglio di tutti servendosi del concetto di “identificazione”. L’amore non è solo investimento libidico oggettuale (nel linguaggio comune, desiderio di avere), bensì identificazione con la persona amata (nel linguaggio comune, desiderio di essere). 3
Nella diversità dei suoi tipi, l’identificazione è un processo di sconfinamento, non necessariamente reciproco. Ci si può identificare con un modello (come Don Chisciotte con Amadigi di Gaula) oppure con un oggetto (come Werther nei confronti di Charlotte). La prova maggiore dell’identificazione, nei rapporti amorosi, viene indicata da Freud nell’amore infelice, spinto sino a quella condizione estrema e patologica che è la melanconia. Ciò che rende inguaribile la ferita del melanconico è l’identificazione con la persona amata: perdendola, egli ha perduto una parte di se stesso. Di qui lo spaventoso vuoto e le sofferenze del melanconico. 4
Nel caso di un amore ricambiato, l’identificazione è reciproca – e totale: così completa da determinare la morte di colui o di colei che ha perso l’amata (o l’amato). Nelle varie versioni del mito di Tristano e Isotta, così come in altre storie d’amore assoluto, la passione appare come un legame infrangibile, dunque congiuntivo: la frontiera separativa è stata abolita, e gli amanti non fanno che ripeterlo: “Ne vus sanz mei, ne jeo sanz vus”.5 Ma – si faccia attenzione – questo legame non è semplicemente una interdipendenza: esistono infatti interdipendenze senza sconfinamento.6 In questo caso, invece, il processo di sconfinamento (reciproco) è tale da legittimare l’asserzione “Tristano e Isotta sono la stessa persona”.
In che senso, però? Di nuovo, evitiamo gli equivoci che possono sorgere dal carattere estremamente sintetico di questa esposizione. Tristano e Isotta rimangano numericamente distinti, come è ovvio, così come Don Chisciotte rimane numericamente distinto da Amadigi di Gaula: ma il processo di identificazione (con un modello, nel caso dell’hidalgo spagnolo, con l’oggetto nel caso dei due celebri amanti) ha trasformato radicalmente il loro essere, e determina le loro emozioni, i loro comportamenti, i loro destini. 7
Dal punto di vista logico (oltre che ontologico), l’identificazione è una relazione congiuntiva. Senza un’adeguata teoria delle relazioni, l’identificazione rimane un processo incomprensibile – e infatti viene ignorata dalle filosofie separative (che comprendono la cosiddetta “filosofia analitica”). 8
2. L’intelligenza e la logica della flessibilità.
Questi chiarimenti dovrebbero risultare preziosi, quando analizzeremo la metafora come trasformazione, e come congiunzione. La metafora non è forse una figura “congiuntiva”? Essa definisce l’identità di un termine tramite l’identità di un altro termine: la metafora abolisce i confini separativi.9
Adesso sono necessarie alcune precisazioni, perché è indispensabile distinguere, nel campo delle logiche congiuntive, quelle basate sulla sintesi (dunque, sul rapporto tra contrari) e quelle basate sui correlativi, che sono opposti “non sintetizzabili”:
- non sono un hegeliano, e ritengo che la logica hegeliana sia soltanto una versione della logica congiuntiva: si tratta di una versione che privilegia la sintesi, mentre le versioni, che preferisco (quella di Nietzsche o quella di Heidegger) definiscono relazioni di co-appartenenza o di reciprocità agonistica che non prevedono sintesi. Sono logiche dei legami e al tempo stesso del conflitto: qui il legame non sospende e non spegne la lotta. Polemos è padre di tutte le cose, dunque, di tutte le logiche.
- gli sconfinamenti della logica congiuntiva non violano il principio di non contraddizione (questa è una sciocchezza, affermata purtroppo da molti hegelo-marxisti e recentemente dall’hegelismo lacaniano di Žižek);
- la logica che ispira il mio programma di ricerca non è dunque una logica dialettica, ma una logica della flessibilità. L’intelligenza rigida ha le sue eccellenze, su ciò non possono esservi dubbi: le cosiddette “scienze dure” non sono forse saperi orientati verso il rigido? La logica, di cui la mente umana si fa vanto, non ha forse cercato quasi sempre le proprie garanzie di validità in principi e inferenze, che nella flessibilità scorgono un pericolo? Dopo Eraclito, quanti secoli sono stati necessari perché si tornasse a progettare e a definire una logica dei legami, dove gli opposti non sono destinati a escludersi reciprocamente?
La splendida definizione di Montesquieu, “l’homme, cet être flexible”,10 rimasta priva di un’adeguata elaborazione, non può certamente nascondere la formidabile propensione al rigido che caratterizza la nostra specie. Freud ha indicato tre ferite narcisistiche, che sminuiscono gli uomini ai loro stessi occhi: quella di Copernico, quella di Darwin, e infine quella di cui è responsabile la psicoanalisi, in quanto mostra che l’uomo non è padrone a casa propria.11 Tre ferite alla nostra vanità, alle quali oggi sembra aggiungersene una quarta: la possibilità che le macchine ci sostituiscano non solo in prestazioni materiali ma anche in quelle intellettuali. A ben vedere, le macchine sono in grado di eguagliare e superare le nostre capacità mentali fino a quando ci si muove nella dimensione del rigido: là dove il pensiero segue vie totalmente articolate, segmentate, univoche, in ambiti circoscrivibili con precisione e nettezza da una cornice – come nel caso della scacchiera, per menzionare uno degli esempi in cui si è imposta la superiorità di procedure che corrispondono ai criteri appena enunciati -, l’umanità risulta simulabile e superabile. Questa sarebbe dunque la quarta ferita narcisistica: dover pensare che il 99% della nostra intelligenza potrebbe essere governato dalla rigidità, e che la creatività umana dipende forse da un esiguo 1%, da un resto che però è anche il motore di meravigliose conquiste.
Di questo 1% fanno parte le metafore – ma non tutte le metafore. Dobbiamo cominciare a ipotizzare che anche il campo della metafora sia destinata a scindersi in due modi: dobbiamo ipotizzare che le somiglianze di famiglia debbano scindersi in differenze di famiglia.
3. Le metafore creano confini: l’errore dei cognitivisti.
La mia relazione prevede una pars destruens, indicata nel titolo. Se mi si chiede quale sia il motivo fondamentale di insoddisfazione nei riguardi delle scienze cognitive, non posso che rispondere così: esse descrivono solo una metà dell’intelligenza, quella disgiuntiva o separativa. Una metà non dal punto di vista statistico, in quanto i procedimenti rigidi sono utilizzati molto più frequentemente di quelli flessibili: una metà nel senso di “soltanto uno stile”. Perciò credo che bisognerebbe ribattezzarle “scienze semi-cognitive”.
Ma le metafore non sono forse “congiunzioni”? Cito da Lakoff e Johnson: “L’essenza della metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa in termini di un altro”.12 Attribuire alla metafora una funzione essenziale nella strutturazione delle conoscenze non significa forse andare al di là del pensiero rigido? In apparenza, sì. Ma solo in apparenza. Cercherò di mostrare perché le pretese di Lakoff e di altri cognitivisti, che ritengono di aver messo in discussione l’intera tradizione filosofica occidentale grazie alla loro concezione della metafora, siano infondate e velleitarie. Procedo schematicamente, elencando una serie di punti:
Primo: come abbiamo appena visto, una tradizione unitaria della filosofia occidentale non esiste; qual è il luogo in cui si produce la più grande, e la più feconda, delle scissioni? E’ la concezione della mente come virtualmente pluristilistica. Invece Lakoff e altri cognitivisti ritengono che il difetto fondamentale sia l’oggettivismo. Non è così: la relazione tra soggetto e oggetto sta “più in basso”, per così dire, rispetto alla pluralità conflittuale degli stili.
Nel linguaggio di Heidegger: noi siamo sempre “gettati negli stili” e, in quanto non li padroneggiamo interamente, siamo in parte “perduti negli stili” (lost in styles). La polutropia, elogiata all’inizio dell’Odissea, non è solo la metis descritta da Detienne e Vernant (la ruse chez les Grecs): la polutropia è la capacità di cambiare stile di pensiero, di passare con agilità da uno stile all’altro a seconda della situazione in cui ci si trova.
Secondo: perché la metafora è un meccanismo che mette in crisi l’oggettivismo? Max Black aveva sostenuto che le metafore creano somiglianze, e non si limitano a rispecchiare quelle già date, cioè offerte dalla realtà empirica.13 Lakoff e Johnson ripropongono questa tesi (almeno in apparenza) quando attribuiscono alla metafora “il potere di creare una realtà piuttosto che semplicemente concettualizzare una realtà preesistente (the power of metaphor to create a reality rather than simply to give us a way of conceptualizing a pre-existing reality)”.14
E’ giusto riconoscere che questa posizione si differenzia in una certa misura da quella dominante nel realismo filosofico, e anche nell’ambito del cognitivismo. Per esempio Steven Pinker afferma: se i meccanismi figurali di somiglianza (metafore e analogie) producono conoscenza, è per «la loro fedeltà alla struttura del mondo (their fidelity to the structure of the world)»: una fedeltà che può essere verificata.15 Dunque, Pinker ripropone senza esitazioni la concezione della verità come adaequatio, come corrispondenza. Adesso bisogna chiedersi: la teoria esperienziale della metafora mette davvero in discussione la concezione aristotelico-tomista della verità? Oppure Lakoff e company propongono un costruttivismo moderato, pienamente compatibile con la concezione tradizionale?
Se si vuole rispondere in maniera non affrettata e non semplicistica a questa domanda bisogna porne un’altra – una domanda che Lakoff e Johnson non si sono mai posti: è legittimo definire l’epistemologia realista in una prospettiva zerostilistica? E, possiamo aggiungere, qual è il prezzo che si paga rinunciando alla teoria degli stili?
In una prospettiva zerostilistica il realismo appare imperniato su un’unica tesi: l’indipendenza della realtà esterna rispetto al soggetto che la pensa. I nostri enunciati sono veri se, e solo se, rispecchiano gli stati di cose nel mondo. Ciò implica che il mondo sia “ben formato”, costituito da oggetti individualizzati, dai confini precisi. Questa è la tesi “stilistica” – implicita, non dichiarata – del realismo: la realtà è ciò che possiamo pensare separativamente, cioè mediante uno stile di pensiero separativo.
Che cosa accade quando ciò non è possibile? Dicono Lakoff e Johnson: “Attraverso la vista e il tatto percepiamo numerose cose come dotate di confini precisi (We experience many things, through sight and touch, as having distinct boundariers)” – dunque in modo separativo, immediatamente. Poi aggiungono: “quando le cose non hanno tali confini precisi noi spesso proiettiamo confini su di esse, concettualizzandole come entità e spesso come contenitori (when things have no distinct boundaries, we often project boundaries upon them – conceptualizing them as entities and often as containers).16 In altri termini: quando la realtà è difettosa, quando difetta di frontiere chiare e stabili, siamo noi a irrigidirla. Ciò che qui viene chiamato proiezione è in effetti un’emanazione di rigidità.
Il mondo dei cognitivisti è un mondo che non corrisponde pienamente all’utopia dei confini precisi: presenta zone informi, ancora da strutturare. Ma in questa mancanza di strutturazione il cognitivismo vede più un difetto che una potenzialità.
Per concludere questo secondo punto: Lakoff e Johnson criticano l’oggettivismo, secondo cui il mondo – e anche il significato - è fatto a blocchi di costruzione (the world is made up of buiding blocks). Ma non basta criticare questa posizione per sottrarsi al primato della realtà effettuale, e al dibattito sterile tra oggettivismo e costruzionismo.
Terzo punto: adesso siamo in grado di comprendere perché la concezione esperienziale della metafora sia deludente. I cognitivisti ripropongono una concezione “servile” della metafora, cioè la metafora subordinata al primato della realtà effettuale (quella che Heidegger chiama Wirklichkeit distinguendola dalla Realität). Ma in Sein und Zeit (par. 7) troviamo una proposizione, che potrebbe essere considerata come la più importante nella filosofia del XX secolo: “Più in alto della realtà effettuale (Wirklichkeit) sta la possibilità”,17 e che dovremmo porre alla base anche di una teoria della metafora.
Le metafore, o almeno le metafore eminenti, sono enunciazioni di possibilità. Non perché la realtà sia dimenticata, persa di vista, ma perché viene pensata ed esplorata dal punto di vista del possibile, di quelle virtualità che iniziano a sprigionarsi quando abbandoniamo il dogma dell’identità come coincidenza. Esporre la teoria delle modalità, come iniziata da Heidegger e nei suoi sviluppi (l’ho chiamata rivoluzione modale) richiederebbe molto tempo. Mi limito a esemplificarla, mediante le metafore seriali di Proust.
4. La letteratura contro “Metaphors we live by” (una vita rigida) – Le metafore in Proust.
La metafora è una metamorfosi, dice l’autore della Recherche. Com’è noto, egli crea sovente una serie di metafore che, nella loro successione, attribuiscono all’oggetto iniziale una serie di identità che spezza i vincoli del contesto empirico – e tuttavia, è proprio il contesto a rendere plausibili trasformazioni estremamente ardite. Per esempio, nella Recherche c’è un oggetto che viene metaforizzato molte volte: si tratta del campanile di una chiesa. Esso viene descritto tramite somiglianze: probabilmente non siamo sorpresi dal paragone con una spiga, sullo sfondo di un campo di grano, e neanche dalla personificazione che gli assegna tratti antropomorfi (una persona che prega, lo slancio dell’anima verso l’alto). Ma che il campanile di Saint Hilaire possa venir metaforizzato in una brioche e in un cuscino, questo è davvero sorprendente. E tuttavia non bizzarro; a inibire la sensazione di stravaganza interviene anzitutto l’effetto della serie, la processualità che inizia con immagini più caute, così come la mutazione dei contesti: rispettivamente, la colazione del mattino e il rito serale della buonanotte, con la dolcezza del bacio materno.18
L’importanza del contesto viene riconosciuta anche dai cognitivisti: il modello del codice è stato ridimensionato da tempo, e l’esigenza di descrivere la mente come embodied trova sempre maggiori consensi. Rimane però una differenza fondamentale tra la posizione che sto enunciando e quella di Lakoff e Johnson. Per i cognitivisti, la funzione del contesto non è solo quella di disambiguare e di introdurre coordinate spazio-temporali, insomma di riempire i deittici, ma quella di conferire vitalità agli stereotipi. Consideriamo un concetto strutturato quasi per intero in modo metaforico: l’amore. Questa esperienza emotiva resterebbe amorfa se non venisse configurata in relazioni metaforiche, come “l’amore è un viaggio”, “L’amore è un malato”, “l’amore è una forza fisica”, “l’amore è follia”, “l’amore è guerra”, ecc. Grazie ad esse, gli individui sarebbero in grado di affrontare un’esperienza altrimenti ingovernabile.
Ma è legittimo attribuire a concetti stereotipati una funzione di conoscenza? Oppure è venuto il momento di fare chiarezza sugli equivoci legati all’aggettivo cognitivo? Possiamo attenuare il disprezzo di Flaubert per le idées reçues, assimilabili alla bêtise, e riconoscerne l’utilità sociale, il supporto che essi offrono alla comunicazione, ma non sino al punto da giustificarle nella loro integrità. Lo stereotipo è un aiuto e al tempo stesso un ostacolo: un contributo alla conoscenza e un ostacolo alla conoscenza. E’ questa duplicità – ed è soprattutto il secondo aspetto - che i cognitivisti non vedono.
Tra le loro argomentazioni, vi è quella che insiste sulla continuità: in More than Cool Reason, Lakoff e Turner affermano che i poeti si servono di risorse basiche condivise da tutti; se così non fosse, non potremmo comprenderli. Ma nessuno di coloro che hanno enfatizzato lo scarto tra linguaggio quotidiano e linguaggio letterario ha mai negato che Shakespeare scrivesse in inglese e Proust in francese, oppure che gli scrittori più grandi facciano uso anche di stereotipi. Il punto non è questo. L’errore del cognitivismo consiste nel negare le differenze a favore delle somiglianze, nel negare la discontinuità - quella che Michele Prandi chiama il contro-senso della metafora – a favore della continuità.19
L’esempio prima menzionato dovrebbe farci riflettere: diversamente dall’amore, i campanili sono oggetti dai confini precisi; essi non sono una realtà amorfa. Dunque, non c’è alcun bisogno di proiettare confini separativi per riconoscerli e indicarli. Ma la letteratura preferisce dissolvere i vecchi confini, e comunque i confini rigidi. Gratuitamente, arbitrariamente? La letteratura afferma il primato della possibilità non solo quando analizza l’identità di personaggi complessi, e le emozioni che si avvicinano all’ineffabile, ma anche quando descrive oggetti semplici, saldamente collocati nella Wirklichkeit. Il concetto di viaggio irrigidisce l’amore, mentre il cuscino non irrigidisce il campanile: al contrario, lo rende fluido.20
La letteratura si ribella alla vita rigida, e dunque si ribella alle metafore con cui viviamo (metaphors we live by) – che cosa? una vita irrigidita. Tra le metafore eminenti, cioè anti-effettuali, e la vita rigida esiste un’eterna inimicizia, che il cognitivismo ha cercato invano di nascondere e di superare.
5. Le metafore vivono grazie ai conflitti.
Prima di concludere, è probabilmente opportuno un altro chiarimento, il cui sfondo sarà rappresentato dalla polisemia degli opposti, da un lato, e dalle estetiche conflittuali, dall’altro.
Rispetto alla tipologia aristotelica, che distingue tra contraddittori, contrari e correlativi, la teoria degli stili di pensiero introduce una modifica decisiva: la distinzione tra i diversi tipi non si basa sul grado di opposizione, cioè sull’opposizione decrescente; se così fosse, i correlativi sarebbero il caso di opposizione più debole (tant’è vero che, pur opponendosi, si implicano reciprocamente). Questo è il grande limite (la grande fallacia) di Aristotele e della logica tradizionale. La vera differenza è assai più grande: i contraddittori e i contrari sono opposti separativi, mentre i correlativi sono opposti congiuntivi, e rappresentano la possibilità di un’altra logica, quella che Hegel, Nietzsche, Heidegger, in modi diversi, hanno teorizzato o di cui hanno fatto uso implicitamente.
Per comprendere la straordinaria importanza dei correlativi, non basta – lo dico senza spirito di polemica - il punto di vista della linguistica. Occorre la filosofia, e come minimo è necessario cogliere la svolta rappresentata dalle estetiche conflittuali, a partire dalla Nascita della tragedia di Nietzsche: il saggio di Heidegger sull’Origine dell’opera d’arte rappresenta forse il vertice della nuova, moderna estetica nel Novecento.21
Nuova? Sì, in quanto l’estetica tradizionale era imperniata su un solo principio, l’armonia (o la proporzione). Con Nietzsche, l’estetica diventa dualista: l’apollineo e il dionisiaco non sono contrari, bensì correlativi. Non confluiscono in una sintesi – in una mescolanza, in un blending nel quale perderebbero vigore: vivono del loro contrasto, e si intensificano reciprocamente. Ma questa concezione del conflitto come forza vivificante è del tutto nuova? Non era stata intuita già nell’antichità, e sia pure restando una posizione minoritaria? Che cos’è la concordia discors (o la discordia concors) se non la prefigurazione, ancora timida e incerta, appena abbozzata, delle moderne estetiche conflittuali?
Torniamo alle metafore vive: non vivono forse del conflitto? Quando il conflitto si spegne, esse entrano in uno stato di inerzia, di progressiva paralisi. Non sto tuttavia affermando che le metafore creano una condizione di caos: senza dubbio non è così, una buona metafora instaura una forma di coerenza. Il contro-senso iniziale (ad esempio, un campanile è una brioche, un cuscino) viene superato nella misura in cui la metafora ci offre un nuovo punto di vista, un insight (Black), che trasforma il termine metaforizzato.
Posso senz’altro ammettere che la metafora trasferisca nell’ambito di destinazione un sistema semantico coerente; ma ciò non significa che il conflitto rappresenta soltanto, per così dire, “il primo passo”.22 Bisogna superare il pregiudizio per cui conflitto equivale a “incoerenza”. Che il conflitto sia tensione vivificante, è la tesi che ispira le estetiche conflittuale, e la mia concezione della metafora.23
6. La tristezza degli stereotipi (e del cognitivismo).
Sottolineare il carattere “trasgressivo” e fluidificante delle metafore più creative non implica riproporre la vecchia nozione di “scarto dalla norma”, bensì dirigere lo sguardo verso un’ontologia del possibile e il pluristilismo. Non solo: in quanto procedimenti del pensiero, le metafore non vanno necessariamente intese come figure “locali”, circoscritte in poche parole; esse possono espandersi in microtesti (come accade sovente nelle metafore di Proust), e diventare principi di organizzazione di un testo, cioè strategie testuali.
Tuttavia, e vale la pena di insistere su questo punto, non vi è dubbio che esistano metafore orientate verso la realtà effettuale, e che propongono una sorta di “addomesticamento” di ciò che si presenta come amorfo: sono quelle che vengono privilegiate dal cognitivismo. Dobbiamo continuare a chiamarle metafore concettuali? Non sarebbe più corretto chiamarle metafore stereotipate?
Gli stereotipi irrigidiscono la mente, la impoveriscono. Immaginiamo due persone – un uomo e una donna, oppure due donne, oppure due uomini – che iniziano a parlare della loro relazione affettiva usando metafore come “l’amore è un viaggio”: se sono persone intelligenti, si renderanno conto rapidamente di quanto limitata sia la loro conversazione; inizieranno a ironizzare, uno dei due potrebbe dire sorridendo all’altro “lo sai che stai parlando come un cognitivista?”, e subito rinunceranno a questo stile comunicativo. Gli stereotipi intristiscono la mente, e la vita. La teoria di Lakoff e Johnson (e dei loro continuatori) è una teoria triste, una dismal theory.
Se questo paradigma ha avuto successo, è per il suo semplicismo: esso offre anche a studiosi di modesto livello la possibilità di compiere qualche ricerca; gli stereotipi sono diffusi ovunque, nell’arte e nella quotidianità, nei linguaggi specialistici, e così via. Per lasciarsi alle spalle i limiti del cognitivismo non è indispensabile creare un nuovo paradigma, che finirebbe forse con il favorire la standardizzazione: sarebbe sufficiente creare uno “spazio di ricerca” in cui punti di vista affini trovino la possibilità di un confronto e di un arricchimento reciproco.
NOTA
Per un’esposizione più ampia della mia concezione della metafora, mi permetto di rinviare all’articolo “Lost in styles. Perché nel cognitivismo non c’è abbastanza intelligenza per capire l’intelligenza figurale”, pubblicato in “Lo sguardo” 7, 2015, e disponibile anche in inglese in Academia.edu.
Per il pluralismo logico e i modi di identità, rinvio a Identity exists only in its modes. The flexible subject and the interpretative mind against semi-cognitive “sciences” in “Comparatismi, 1, 2016
Per la mia concezione logico-ontologica, a La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
1 Tornerò tra poco su Freud. Quanto a Bachtin, si ricordi la fondamentale distinzione tra personaggi che coincidono con se stessi (quelli di Racine) e personaggi che non coincidono con se stessi (cioè “sconfinanti”, nella mia terminologia: quelli di Dostoevskij). Dunque, per Bachtin, esistono due modi di identità, e per comprenderlo sono necessari stili logici differenti.
2 G. Frege, Funzione e concetto (1891), in Senso, funzione e concetto (a cura di C. Penco e E. Picardi), Laterza 2005, p. 17.
3 S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921 (in particolare il capitolo 8, “Innamoramento e ipnosi”).
4 Se si vuole accedere alla concezione di Freud, nella sua ampiezza e complessità, è indispensabile la lettura di Lutto e melanconia (1917).
5 “né voi senza di me, né io senza di voi” (Maria di Francia, Il caprifoglio, in Lais (1160-1175), trad. it. Pratiche, Parma, p. 317).
6 Ad esempio, il rapporto tra padrone e servo. Non esiste padrone senza servo, né servo senza padrone. Ma ciò non implica uno sconfinamento: esso rimane possibile, certamente. Un esempio nel film di Tarantino, Django enchained (2012) (il servo di colore, interpretato da Samuel Jackson).
7 Nell’orizzonte ristretto delle teorie dell’identità, fondate sulla logica separativa, ci si limita a questa distinzione: ““Ci sono due tipi di identità. Io e la mia replica siamo qualitativamente identici, ossia esattamente eguali. Ma non possiamo essere numericamente identici, ossia un’unica e medesima persona. Analogamente due palle bianche da biliardo non sono numericamente identiche, ma possono essere qualitativamente identiche. Se dipingo una di queste palle di rosso, non sarà più qualitativamente identica a ciò che era ieri, ma la palla rossa che ora vedo davanti a me e quella bianca che ho dipinto di rosso sono numericamente identiche: sono un’unica e medesima palla” (D. Parfit, Reasons and Persons, 1984 (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1989, p. 260).
8 Senza un’adeguata teoria delle relazioni, l’analisi testuale risulta impotente quando si rivolge a testi in cui domina il “desiderio di essere”. Va rilevato però che il desiderio di essere non va ridotto semplicisticamente al “desiderio mimetico”, come accade nella concezione di Girard. Va comunque riconosciuto a Mensonge romantique et verité romanesque (1961) il merito di aver fatto emergere aspetti di assoluto rilievo nel romanzo moderno, da Cervantes a Stendhal, da Dostoevskij a Proust. Per una critica allo schematismo di Girard, rinvio a G. Bottiroli, Desiderio di avere, desiderio di essere” in Letteratura e altri saperi. Influssi, scambi, contaminazioni (a cura di Anna Maria Babbi e Alberto Comparini), Carocci, Roma 2020, pp. 141-171.
9 Una precisazione: i confini sfumati o vaghi indeboliscono – senza abolire, però - la rigidità delle separazioni, dunque non determinano mai il passaggio a una relazione congiuntiva. Per esempio, l’impossibilità di stabilire se certe zolle appartengano o no al Cervino non compromette l’identità di questa montagna e la sua differenza rispetto alle altre.
10 Montesquieu, De l’esprit des lois (1748), Prefazione.
11 S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, 1916.
12 G. Lakoff – M. Johnson, Metaphors we live by, Chicago, University of Chicago Press, 1980,( p. 21 it )
13 M. Black, Metaphor, 1954 (trad. it. Pratiche, Parma, p. 55).
14G. Lakoff – M. Johnson, Metaphors we live by, cit., p. 144,
15 S. Pinker, The Stuff of Thought, Language as a Window into Human Nature, New York (NY), Viking, 2007, p. 261.
16 G. Lakoff – M. Johnson, Metaphors we live by, cit., p. 58.
17 M. Heidegger, Sein und Zeit, 1927 (trad. it. p. 54).
18 M. Proust, Du côté de chez Swann, in A la recherche du temps perdu (a cura di P. Clarac e A. Ferré), vol. I, p. 65.
19 M. Prandi, A Plea for Living Metaphors: Conflictual Metaphors and Metaphorical Swarms, 2012.
20 Le metafore creative sono interpretazioni, e non categorizzazioni (cioè proiezioni che irrigidiscono). A bene vedere, la teoria di Lakoff e Johnson è proiettiva (e non si serve affatto di una logica congiuntiva).
21 Com’è noto, Heidegger riscrive il conflitto tra apollineo e dionisiaco in quello tra il Mondo e la Terra. L’opera d’arte esiste solo nella lotta: “l’opera … è l’attizzatrice di questa lotta (das Werk ist … eine Anstiftung dieses Streites)”. Cfr. L’origine dell’opera d’arte (1936), in Sentieri interrotti (1950), trad. it. La Nuova Italia,1968, p. 34.
22 Su questo punto la mia posizione differisce da quella di Michele Prandi, con la quale ritengo vi siano punti in comune, e un pieno accordo sulla necessità di distinguere metafore vive e metafore che (comunque le si chiami) sono state irrigidite.
23 Ritengo che l’interazione di Max Black - se si preferisce questa nozione a quella di “conflitto” - vada intesa come tensione permanente, e non provvisoria.
Un’ultima considerazione: anche la metaforizzazione delirante del mondo, nel Don Chisciotte, obbedisce alla coerenza: una bacinella da barbiere diventa un elmo, un ronzino diventa un destriero, i mulini a vento si trasformano in giganti, ecc. Ma ciò non abolisce il conflitto tra il personaggio di Cervantes e la realtà, anzi: lo rilancia continuamente.