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Ritorno alla letteratura

Un manifesto a favore della teoria e contro gli studi metodologicamente reazionari (cultural studies etc.)

Pubblicato in “Comparatismi” (rivista online), n. 3, dicembre 2018

1. L’Università e i Muggle Studies.

Nel terzo libro della saga di Harry Potter, Hermione Granger comunica ai suoi amici di essersi iscritta anche a un corso di Muggle Studies (Babbanologia). Non si tratta – Hermione lo sa benissimo - di un corso particolarmente interessante, e certamente non è paragonabile a quello sulla ‘Difesa dalle arti oscure’ o ad altri corsi sull’apprendimento della magia. Nessuno va a Hogwarts per studiare prevalentemente i Muggle studies! Hermione li frequenterà soltanto perché è una studentessa zelante e vuole avere una preparazione la più completa possibile.

Quali sono le possibilità di scelta per uno studente che s’iscrive all’Università per conoscere la letteratura, in Europa e negli Stati Uniti? Non sarebbe sconfortante apprendere che la maggior parte dei corsi che gli è possibile frequentare sono l’equivalente dei Muggle studies ? Lo studente vorrebbe seguire lezioni che lo avvicinino alla magia della letteratura. Per non smarrire tale magia, egli dovrà imparare a difendersi contro “le arti chiare”, perché la letteratura è un linguaggio denso e complesso. “I poeti chiari non durano”, ha detto Eugenio Montale. “La grande letteratura è linguaggio saturo di significato al massimo grado” (Great literature is simply language charged with meaning to the utmost possible degree), ha detto Ezra Pound.

Questa non è l’unica definizione possibile, e pienamente valida, di quegli “oggetti” multilaterali che sono i testi letterari: alcuni grandi scrittori, e alcuni saggisti, ne hanno proposto altre, assumendo prospettive che mettono in luce aspetti non meno essenziali della densità semantica. Come dobbiamo valutare questa pluralità di definizioni? Come una condizione imperfetta ma provvisoria? Si potrà giungere prima o poi a una formulazione, in grado di riflettere e di riunire tutti gli aspetti essenziali? Ma – l’obiezione è assolutamente legittima – esiste un’essenza della letteratura? E se non esiste, come giudicare i tentativi di conoscerla, e di descriverla?

Che cosa giustifica il sottotitolo di questa riflessione? E’ possibile selezionare e respingere approcci inadeguati ed erronei? Io credo di sì, e mi pare che questa convinzione sia ampiamente condivisa: le divergenze riguardano i tipi di errori, non il fatto che una certa impostazione oppure un’altra venga considerata, se non del tutto sbagliata, almeno riduttiva. Lo studente che s’iscrive a un Dipartimento di studi letterari è guidato da un desiderio di conoscenza, e da un insieme di attese. Egli si aspetta, anzitutto, che quel Dipartimento mantenga le promesse implicite nel suo stesso nome: egli studierà la letteratura! e poiché la letteratura – così difficile da definire nella sua mutevole e intricata “essenza” – è composta da testi, egli intende dedicare le sue energie prevalentemente all’analisi dei testi: a quelli che hanno già suscitato il suo entusiasmo, ma di cui è consapevole di non aver afferrato la ricchezza e la complessità, e ad altri testi, in cui ha percepito una bellezza misteriosa e impenetrabile, a causa del loro ermetismo, o che lo hanno intimorito con la loro vastità: opere sterminate, e che presentano mondi lontani; come valicare questa distanza? La fatica che richiedono inizialmente si trasformerà in piacere?

Con una certa sorpresa, destinata però ad attenuarsi perché non è facile sottrarsi alle abitudini che vengono imposte e al conformismo imperante, lo studente dovrà constatare che l’Università non mantiene le sue promesse, e che nei Dipartimenti di letteratura non si studia letteratura. Non si studiano i testi, ma quasi soltanto i contesti! Le opere vengono riportate allo spazio storico, culturale, ideologico, in cui sono state generate: chiamerò contestualismo questo atteggiamento, che vorrebbe spiegare un testo privilegiando il contesto di produzione, e cercherò di descrivere le diverse forme che esso assume nell’ambito degli studi letterari. Non vanno ignorate infatti le differenze tra il vecchio contestualismo e quello nuovo: bisogna imparare a riconoscere il contestualismo che si presenta come intertestualità, e dunque, almeno in apparenza, sembra privilegiare i testi.

Per molti aspetti, il contestualismo corrisponde alla “malattia storica” descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale: la modernità è contraddistinta da un’inflazione degli studi storici, che determinano un impoverimento delle forze vitali. La storia sembra un fiume che costantemente si inaridisce: il suo flusso va a insabbiarsi nell’erudizione, nel culto sterile di un passato divenuto un contenitore di reliquie; oppure nell’omaggio a grandezze irripetibili, celebrate con un’aggettivazione iperbolica e vuota; ma anche in un atteggiamento distruttivo, in quella che potremmo chiamare l’ideologia del presente, cioè nella convinzione di un’inferiorità del passato (rappresentata, negli ultimi decenni, da chi crede che il politically correct possa compensare la mancanza di creatività, di talento, di invenzione stilistica). Una faziosità ideologica, che Nietzsche ha saputo intuire e descrivere in anticipo.

2. Primo ritratto dei contestualisti – Il testo letterario come grandezza costante.

Il contestualismo impoverisce l’esperienza estetica, e dunque il rapporto vitale con le opere d’arte. La storia, che sia il culto del passato o l’enfatizzazione del presente, diventa nemica della vita. Oggi si parla meno di storia che non di cultura: ma questo avvicendamento terminologico non può nascondere una continuità di impostazione, che caratterizza le nostre Università negli ultimi due secoli. Come spiegare la dominanza degli studi contestuali? Com’è possibile una miopia così ostinata e deleteria? A mio avviso, qualunque risposta dovrebbe trovare il suo punto di partenza nella complessità della letteratura, ma anche, paradossalmente, nell’apparente accessibilità della maggior parte dei testi. Contro questa illusione, Proust ha affermato che “Les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère”.1 Tutti i bei libri - anche quelli scritti nella nostra madrelingua. Ecco un’altra verità sulla letteratura: ma di questa verità ci si ricorda, in genere, solo quando si affrontano testi ermetici, quando si leggono Mallarmé, Eliot, oppure Kafka, non quando ci si occupa di Balzac o di Tolstoj. Dobbiamo proprio a Tolstoj una delle definizioni più vere, e più stimolanti, delle opere letterarie, ciascuna della quali è “un labirinto di nessi” (labyrinth of linkages) (labirint sceplenij). 2

Dalle affermazioni aforistiche di Pound, Proust e Tolstoj possiamo derivare un ritratto più che adeguato dei contestualisti. Il contestualista è uno studioso che (a) ignora o sottovaluta la densità semantica; (b) crede che l’opera letteraria sia trasparente, e che le eventuali opacità siano causate dall’evoluzione linguistica oppure da una deliberata reticenza dell’autore; (c) non ha la minima intenzione di addentrarsi nel labirinto di nessi che costituisce un’opera. Sceglierà un punto di osservazione lontano, che gli permetterà di proporre grandi analogie (tra forme letterarie e società) oppure, più aggressivamente, di indicare i pregiudizi ideologici anche negli scrittori più grandi.

La congiunzione di (a), (b) e (c) caratterizza il tipo di contestualismo più diffuso; ma non vanno escluse adesioni parziali. E’ di fondamentale importanza adesso rendersi conto di quale sia la concezione del testo letterario, adottata – consapevolmente o meno – dai contestualisti. Spiegherò subito dopo perché tale concezione sia da considerarsi arretrata, dal punto di vista teorico e metodologico. Il lettore giudicherà se le buone intenzioni ideologiche, e il riferimento a valori certamente condivisibili (per quanto riguarda la critica letteraria che ha voluto difendere le donne, gli omosessuali, le differenze razziali, ecc.), possa giustificare la povertà del contestualismo e ridimensionare gli enormi danni che esso ha provocato.

Bisogna chiedersi adesso se il contestualismo è una teoria o semplicemente un’ideologia. Lo si può considerare da entrambi i punti di vista: è certamente un’ideologia, nella misura in cui con questo termine si indica un discorso che tende alla semplificazione, alla rarefazione concettuale, e si serve di poche rozze distinzioni. Vale la pena tuttavia di esaminarlo in quanto teoria per metterne in evidenza i principi, che restano per lo più impliciti: d’altronde il contestualista non sente per nulla l’esigenza di renderli trasparenti, in quanto sarebbe costretto a riconoscere il carattere dogmatico e mummificato dei principi, o se si preferisce delle tesi, che guidano la sua attività.

La più importante e la più dogmatica di queste tesi afferma che il testo letterario (come qualsiasi opera d’arte) è una grandezza costante. Il suo significato sarebbe stabile, e governato essenzialmente dall’intentio auctoris. Ma quest’azione di governo non implica un controllo assoluto: come un re appartiene al suo popolo, così un autore appartiene alla sua epoca, e non può non rispecchiarla nella sua opera, che svolge perciò la funzione di veicolare una determinata cultura e le sue componenti ideologiche. L’opera riflette un preciso contesto epocale, che le generazioni successive possono tuttavia comprendere con maggiore profondità, smascherando le ideologie latenti: per esempio, nel titanismo del Faust di Goethe si potrà scorgere la volontà di dominio mondiale che caratterizza la borghesia e la futura politica imperialista. Un testo letterario non è totalmente esplicito, come sembra suggerire la tesi dell’intentio auctoris: ma la sua dimensione implicita non dipenderebbe dalla ricchezza delle relazioni interne – come riteneva Tolstoj, e come vedremo meglio tra poco -, bensì da quelli che potremmo chiamare “i riflessi involontari della situazione storico-culturale” in cui esso è stato prodotto. Ne fanno parte i pregiudizi a cui difficilmente l’autore avrebbe potuto sottrarsi (concezione patriarcale, fallocentrismo, superiorità della razza bianca, ecc.).

3. Ribellarsi al contestualismo.

Come si è già detto, il contestualismo è l’impostazione metodologica che ha dominato e che domina gli studi letterari in Occidente. Quasi incontrastato nell’Ottocento, il secolo della storia, esso è stato fortemente criticato nel Novecento, il secolo del linguaggio, del linguistic turn, ma anche il secolo di Freud e di Heidegger. La ribellione al contestualismo si è sviluppata in tre direzioni, che si sono intrecciate solo parzialmente, e non sempre con esiti felici, e che costituiscono un campo eterogeneo chiamato teoria della letteratura: un campo di ricerca ibrido, che ha conosciuto una fase aurea, negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta del secolo scorso, e che è stato poi oscurato da nuove forme di contestualismo. Gli ultimi decenni rappresentano una fase di regresso e di arretratezza, durante la quale l’anti-teoria ha prevalso sulla teoria. Questa tendenza potrà essere rovesciata? La teoria, la buona teoria, potrà occupare di nuovo un posto di rilievo negli studi letterari? Credo che questa possibilità dovrebbe essere considerata come una necessità, perché il contestualismo uccide la letteratura, distrugge le condizioni stesse dell’esperienza estetica. Dunque, la ribellione è necessaria. Per le nuove generazioni, la possibilità di arricchire la propria formazione, assimilando la forza cognitiva ed emotiva della letteratura, dipende dalla capacità di ribellarsi al contestualismo.

La critica al contestualismo sarà condotta esclusivamente in nome della teoria? No, certamente: se questa fosse la mia convinzione, non avrei iniziato il mio discorso citando alcuni enunciati folgoranti di grandi scrittori. Le intuizioni di Poe e di Wilde, di Flaubert e di Proust, ecc., sono come lampi che squarciano l’oscurità: ma la loro luce rischia di spegnersi troppo rapidamente, se non è accompagnata dall’analisi, e dalla critica. Vorrei rendere omaggio anzitutto alle ricerche di quegli studiosi che si sono affidati alla loro ‘miscela individuale’, che riuniva competenze linguistiche e filologiche, raffinatezza, sensibilità, ecc. Penso ad Auerbach, Thibaudet, Spitzer, Contini, per limitarmi a studiosi di straordinaria finezza nell’analisi dello stile. Niente può sostituire la leggerezza e la fluidità di uno sguardo che si muove liberamente e agilmente nel testo, e che vede, di colpo, il dettaglio rivelatore.

E’ stato un grande errore credere che la teoria e la metodologia esplicita avrebbero reso inutile e superflua l’intuizione – e dunque la critica letteraria intuitiva. Non è così: sarebbe come credere che strumenti come il microscopio, oppure la moviola e lo zoom, rendano del tutto superflua l’osservazione a occhio nudo. I due tipi di sguardo vanno alternati, e dovrebbero scambiarsi i loro risultati.

Ma la teoria è diventata indispensabile. Senza dubbio, questo termine indica – deve indicare! -una pluralità di prospettive e uno spazio di lavoro, un cantiere sempre aperto, dove si formulano delle ipotesi, dove si costruiscono strumenti e modelli, li si mette alla prova, li si perfeziona, e così via. Ripropongo quindi la concezione di Barthes: teoria significa “visione + tecniche”. Una buona teoria sa generare una scatola degli attrezzi.

4. Conquiste irrinunciabili: il testo come grandezza dinamica e l’interpretazione come “conflictual reading”.

Che cosa sappiamo della letteratura? Ancora troppo poco. Ci siamo resi conto che il progetto dei Formalisti russi, elaborare una scienza della letteratura, arrivare all’enunciazioni di leggi, era troppo ambizioso, e viziato da una mentalità positivista. Quasi certamente non ci sono leggi che governano quei linguaggi, di cui dovremmo ammirare la flessibilità, e una libertà di costruzione che appare quasi illimitata. E’ in questo senso che possiamo rileggere un elenco di consigli che Borges e Bioy Casares rivolgevano ironicamente all’aspirante scrittore, indicando una serie di errori clamorosi, imperdonabili, che dovrebbero essere evitati da chiunque intenda scrivere un capolavoro. Ecco alcuni di questi errori: non coltivare progetti troppo ampi, ad esempio un viaggio dall’Inferno al Purgatorio al Paradiso, come accade nella Commedia di Dante; non proporre opposizioni troppo schematiche, ad esempio tra un personaggio alto e magro e un altro personaggio piccolo e grasso, come si constata nel Don Chisciotte di Cervantes; non smarrirsi nell’elencazione interminabile di dettagli quotidiani, come nell’Ulisse di Joyce; non scrivere frasi troppo lunghe, come Proust; ecc.3 Evitando errori di questo tipo, si potrà senz’altro scrivere un capolavoro.

Niente regole, e certamente nessuna regola rigida, tale che uno scrittore non possa prendersi gioco di essa. Tuttavia, se ci affidiamo ancora una volta all’intelligenza degli scrittori, dovremo convenire che l’estrema libertà di invenzione è sempre accompagnata dall’esigenza del rigore, e dalla consapevolezza che non ci si può abbandonare all’arbitrio. Per esempio, l’Ulisse può apparire come un testo “aperto”, infinitamente disponibile ad espansioni, all’inserimento di nuovi dettagli; quest’impressione è certamente giustificata, nuove frasi e anche nuove pagine avrebbero potuto aggiungersi a quelle che conosciamo nell’edizione del 1922. C’è però un aneddoto, nella vita di Joyce, che ci offre un punto di vista diverso – e irrinunciabile: “He once told Frank Budgen that he had been working all day at two sentences of Ulysses: «Perfume of embraces all him assailed. With hungered flesh obscurely, he mutely craved to adore.» When asked if he was seeking the mot juste, Joyce replied that he had the words already. What he wanted was a suitable order”. 4

Qualunque materiale può venir inserito in un libro, e si può progettare un testo la cui organizzazione sia così libera da poter accogliere sempre nuove integrazioni: un testo che si chiude solo perché l’autore ha deciso di porvi termine, ma la cui fine avrebbe potuto venire continuamente differita. Tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che ogni possibile espansione viene accettata, da scrittori come Joyce, solo a condizione di sottoporla a un’elaborazione stilistica. Chi non comprende questa necessità è destinato a comprendere ben poco della letteratura. 5

Abbiamo forse trovato il modo giusto per presentare la teoria: essa non mira a trovare leggi o vincoli rigidi, benché non escluda dai suoi obiettivi secondari il riconoscimento di determinate regolarità, privilegiate dallo sguardo tassonomico. E’ in base a tali regolarità che in passato sono stati distinti, ad esempio, i generi (epica, lirica, ecc.), e i sottogeneri (romanzo d’avventure, romanzo storico, ecc.). Le regolarità non sono leggi, come dovrebbe sapere chi abbia letto anche soltanto Hume: non vietano le irregolarità, le mescolanze, le ibridazioni. Alle vecchie tassonomie, appena menzionate, ne sono state aggiunte altre nel corso del Novecento: si pensi a quelle introdotte da Genette, nei suoi studi narratologici ecc. Strumenti non inutili, senza dubbio. Ma indirizzare la teoria alla costruzione di tassonomie significa privarla delle sue potenzialità maggiori. La teoria vuole rendere i testi più intelligibili, dunque vuole indagarli nella loro complessità: intende gettare luce sui meccanismi e sulle virtualità, e non su proprietà generali.

Perciò le domande dei Formalisti russi “com’è fatto un testo? Come funziona?” rimangono pienamente valide a condizione di subordinare la prima domanda alla seconda, diversamente da quanto è accaduto nell’ambito dello stesso Formalismo e in molti lavori degli strutturalisti: per rispondere alla seconda domanda occorre una teoria dell’interpretazione, la cui assenza è la grande lacuna degli studiosi appena menzionati. Ma bisogna essere giusti con questi autori, e con i loro studi pionieristici: accanirsi contro i loro limiti, contro le tesi più datate, sarebbe come disconoscere il valore delle teorie di Copernico e di Galileo in relazione agli sviluppi successivi della fisica. La teoria ha una storia, fatta di ipotesi e di correzioni, di intuizioni veritiere e di errori.

Nel momento in cui si afferma la necessità della teoria, è indispensabile focalizzare l’attenzione su quelle che possiamo considerare le conquiste irrinunciabili di un sapere ibrido, nel senso migliore della parola: la teoria della letteratura è uno spazio dove riflessioni più specifiche si incontrano con altri saperi e altre prospettive. Come si è anticipato, sono almeno tre i grandi flussi concettuali che confluiscono nella teoria letteraria: la linguistica, le teorie del desiderio, e la filosofia (non solo l’estetica).

E’ da questa confluenza che la teoria oggi può ripartire, per offrire nuove conoscenze e un rapporto emotivamente più ricco con i testi. Dall’intersezione di questi flussi – che esamineremo meglio tra poco – sono scaturite due tesi, che vanno considerate come progressi irrinunciabili:

(a) il testo letterario è una grandezza dinamica;

(b) il motore del suo dinamismo è il conflitto: un testo si espande grazie alla pluralità conflittuale delle interpretazioni. Esso esige un conflictual reading.

Le due tesi sono strettamente collegate. Cerchiamo di comprenderle meglio, a partire da un processo comunicativo elementare, ad esempio la richiesta “vorrei un caffè”; è assai improbabile che il barista replichi dicendo “in che senso?”. Ciò non accade perché comunicazioni di questo tipo sono pienamente articolate, cioè prive di densità: esse sono generate e comprese in base al medesimo insieme di regole. In tutti questi casi, comprendere equivale a decodificare. Colui che riceve il messaggio non compie alcun tipo di inferenza.

Quest’esempio illustra perfettamente il modello della comunicazione che risale a Jakobson, e che alcuni ritengono abbia una grande importanza per la teoria letteraria. Niente di più errato. Il modello del codice (così viene sovente chiamato) costituiva un passo indietro rispetto alla concezione di Saussure,6 e nel giro di pochi anni la sua inadeguatezza sarebbe stata sottolineata dall’affermarsi della pragmatica: dopo la pubblicazione del famoso articolo di Grice, Logic and conversation, è apparso evidente anche agli strutturalisti più rigidi che per comprendere un messaggio non basta decodificare: occorre fare delle inferenze. E ciò è necessario anche in moltissime situazioni della vita quotidiana. Questa precisazione è importante, perché l’interpretazione è senza dubbio un’attività inferenziale: è giusto chiedersi allora se vi siano operazioni mentali che si compiono esclusivamente quando si incontra un’opera d’arte.

Torneremo tra un istante sul concetto di interpretazione; adesso dobbiamo chiarire la differenza tra due concezioni del testo. Se il testo letterario fosse una grandezza costante, il modello del codice (o di Jakobson) sarebbe ancora sostanzialmente valido: l’autore comunicherebbe la sua intentio tramite le medesime regole, di cui il lettore si servirà per comprenderla. Nell’atto comunicativo la quantità di informazione rimane costante; una volta eliminati i possibili equivoci (operazione in linea di principio sempre realizzabile), il destinatario riceve ciò che il mittente gli ha inviato: il significato che ha inteso trasmettere, e “i riflessi involontari della situazione storico-culturale” (come li abbiamo chiamati), cioè i pregiudizi a cui non ha potuto (o voluto) sottrarsi. Ovviamente, se il significato di un testo è una grandezza costante, tali pregiudizi possono assumere un peso notevole, e condizionare l’approccio complessivo all’opera. Siamo giunti così a una scoperta per molti inaspettata: tra i seguaci più convinti di quella concezione desueta che attribuisce al testo letterario una stabilità semantica vi sono, oltre ai filologi più tradizionali, i rappresentanti dei cultural studies. Mentre, nell’ambito della teoria letteraria avanzata, il modello di Jakobson ha perso ogni credibilità, i contestualisti continuano a servirsene, e non potrebbero rinunciarvi: se il testo fosse un oggetto dinamico, che si espande grazie alle interpretazioni, quale importanza potrebbero avere i pregiudizi di un autore? Il loro peso diventerebbe irrilevante. Invece, una volta inchiodata un’opera al suo contesto, si potrà dar voce all’ideologia, a un astio punitivo che si compiace nel denigrare ciò che è grande. Dunque, la meschinità delle accuse rivolte a The Tempest oppure a Heart of Darkness deriva non solo dal ressentiment ma anche da un presupposto di carattere teorico, cioè dall’adesione alla vecchia concezione del testo come grandezza costante.

Per contro, coloro che conoscono i progressi della teoria letteraria (e dell’estetica) non avranno dubbi: ogni opera d’arte (degna di questo nome) è una grandezza dinamica. Si ricordi che questa definizione è stata introdotta già negli anni Trenta da Mukařovský: dopo aver affermato che “l’opera d’arte non è affatto una grandezza costante”,7 egli invita a distinguere tra l’opera come artefatto, così come l’ha composta l’autore (e comunque nella versione filologicamente più plausibile), e la componente virtuale, cioè l’oggetto estetico in quanto interpretabile.

È questo il paradosso dell’opera d’arte: per un verso, essa si presenta, ed è, una formazione linguistica non modificabile; per un altro verso, essa viene trasformata nel tempo dell’interpretazione. Non si tratta semplicemente di una temporalità empirica, in cui si susseguono le ricezioni (anche contrastanti) da parte del pubblico di periodi storici differenti, bensì di una temporalità costituita dalle buone interpretazioni, grazie alle quali soltanto un’opera entra nel “tempo grande”, come lo ha chiamato e definito Bachtin.8 Provo a illustrare questa concezione con uno schema, che potrebbe aiutare a prendere congedo definitivamente dal modello del codice e della stabilità semantica (e ci permetterà di evidenziare in seguito lo pseudo-dinamismo di Derrida):

atrefatto oggetto virtuale

La linea continua indica l’artefatto, cioè la stabilità del testo, in quanto creato “così e così” da un autore; quella tratteggiata indica la virtualità, l’elasticità del testo, la sua disponibilità ad espandersi grazie alle buone interpretazioni. Tuttavia ogni schematizzazione ha i suoi limiti, e può generare equivoci: in questo caso, sembra proporre una visione irenica, mentre la dimensione interpretativa è conflittuale. Ho preferito non complicare e appesantire lo schema, ma il lettore non dovrebbe dimenticare che l’interpretazione è anzitutto articolazione, vale a dire una segmentazione del testo che non si lascia condizionare da quella in cui si presenta l’artefatto: le frasi, i paragrafi, i capitoli, ecc. Si pensi a come Barthes analizza Sarrasine, scomponendolo in lessie, cioè in unità la cui dimensione è variabile (dalla singola parola a un gruppo di frasi, ma anche una parte soltanto di una frase).9 Propongo questa tesi: nessuna interpretazione senza articolazione, vale a dire che un’interpretazione, in senso eminente, nasce mediante un’attività articolatoria. In caso contrario l’interpretazione viene ricondotta alla sua accezione più banale, per cui essa consiste in una iniezione di senso. Le iniezioni di senso non dispiacciono affatto ai contestualisti: incapaci di compiere qualunque analisi, essi fanno ricorso a formulazioni generiche.

Cerchiamo allora di approfondire il concetto di interpretazione, la cui complessità è troppo sovente banalizzata. Alla tesi appena enunciata “nessuna interpretazione senza articolazione”, bisogna aggiungerne subito un’altra: nessuna interpretazione senza conflitto. Infatti l’interpretazione vive in uno spazio conflittuale, e questo spazio non va equiparato a una molteplicità. Si tratta di un punto assolutamente decisivo: l’idea di una molteplicità sempre aperta è solidale con il relativismo, e il relativismo è lo spazio della doxa; tutti hanno egualmente ragione. Ciascuno ha diritto a una propria lettura. Questa è la posizione adottata dalle teorie e dalle estetiche della ricezione, che a partire dagli anni Settanta del secolo scorso hanno criticato, e non senza validi motivi, la visione sostanzialmente statica del testo, in cui si erano arenati molti strutturalisti: lo strutturalismo “canonico” aveva dimenticato la seconda domanda dei Formalisti russi (“come funziona un testo?”), per limitarsi alla prima (“com’è fatto?”). Ma un testo non può funzionare senza un lettore, così come un’automobile non può compiere un percorso se nessuno accende il motore.

Le analisi di molti strutturalisti erano descrizioni, e non interpretazioni: basti pensare alla celebre lettura di Les chats di Baudelaire, compiuta da Jakobson e Lévi-Strauss.10 Queste descrizioni erano talvolta molto raffinate: ma si sarebbe potuto paragonarle alla mappatura di quartieri disabitati, senza vita. La vita inizia quando un quartiere viene popolato. E a quel punto, per continuare nella metafora, si apre la possibilità di differenti forme di vita, e differenti rapporti sociali.

Consideriamo dunque la differenza tra molteplicità e pluralità conflittuale. Nella molteplicità doxastica, tutti hanno ragione, anche i semplificatori, gli incompetenti, i faziosi; nella pluralità conflittuale, invece, si discute della ragione e del torto: verranno criticate le posizioni più semplici, che conducono alla sterilità, e sarà possibile proporre una visione più articolata e complessa di ogni problema. Vale la pena di aggiungere che a ciò corrisponde una concezione più matura della democrazia?

Lo spazio dell’interpretazione è conflittuale e selettivo: questa è la grande differenza con le teorie della ricezione, che si limitano a ratificare ogni opinione, individuale o collettiva, e dunque si schierano sul versante della molteplicità. In apparenza, la molteplicità è la forma più estesa di tolleranza: ad uno sguardo più attento, però, l’enfasi del molteplice rivela la sua essenza ideologica, cioè la sua vocazione egualitaria. E l’egualitarismo non è la giustizia, bensì la sua caricatura.11 Questa caricatura consiste nell’estensione del punto di vista giuridico a ogni dimensione intellettuale, esistenziale, politica: senza dubbio tutti gli esseri umani vanno considerati eguali per quanto riguardi i loro diritti fondamentali (la libertà di opinione, di voto, di orientamento sessuale, e così via). Ma non si può applicare meccanicamente il diritto alla vita, e all’intelligenza: in ogni campo di ricerca, si giunge ad affermazioni vere oppure ad affermazioni sbagliate. Non c’è eguaglianza tra il vero e il falso. Nessuno dubita che sia così per quanto riguarda le scienze “dure”, cioè i saperi in grado di sottoporsi a verifiche inequivocabili. Che tali verifiche siano molto più complesse e incerte nel campo delle discipline umanistiche, è del tutto evidente, ed è questa differenza a venir enfatizzata dai relativisti. Tuttavia, anche dove la conoscenza prende la forma delle interpretazioni, e non delle asserzioni, i tentativi di giungere a risultati validi possono venire distinti. Come è stato osservato più volte, se un medico sbaglia una diagnosi, il malato vede le sue condizioni peggiorare e può anche morire. Se un critico letterario sbaglia nell’interpretare un sonetto, una dramma, un romanzo, non succede nulla; tuttavia, dopo venti, trenta, quarant’anni, qualcosa è accaduto: l’impoverimento e il degrado diventano fenomeni di straordinaria gravità, e rischiano di essere irreversibili. Le devastazioni prodotte dal contestualismo dovrebbero essere combattute senza ulteriori ritardi.

Torniamo alla differenza tra molteplicità e pluralità conflittuale. Si è detto, citando Bachtin, che le opere letterarie vivono nel “tempo grande”, e che si espandono grazie alle buone interpretazioni. Ecco un primo, importante suggerimento metodologico: una buona interpretazione sarà riconoscibile in quanto rende un testo “più grande” di quanto era sino a quel momento. E ciò avviene senza forzature, bensì sviluppando alcune virtualità del testo.

Un’interpretazione differisce da una descrizione in quanto privilegia le possibilità. Si potrebbe dire, anzi, che un’interpretazione è sempre interpretazione di possibilità. Ma essa mira alle possibilità superiori. Il che non significa trascurare quell’insieme di dati che costituiscono l’artefatto: al contrario! Va rilevato che, di fronte a un artefatto rigido, cioè totalmente articolato (come l’enunciato “Vorrei un caffè), l’interprete dovrà limitarsi a svolgere il ruolo del decodificatore, salvo ipotizzare un contesto in cui quell’enunciato possa venire inteso ironicamente, o scherzosamente, e così via. Dunque, l’interpretazione è un processo che può venire innescato soltanto dalla densità semantica del testo: e la densità è ciò che viene articolato, o che è comunque suscettibile di diverse articolazioni.

5. Faust.

Credo sia utile proporre un esempio, che trarrò dal Faust di Goethe. Farò riferimento soprattutto a quest’opera anche in seguito, poiché mi pare vantaggioso privilegiare un singolo testo rispetto a una varietà di esempi, che sarei costretto a menzionare frettolosamente. Il Faust presenta un insieme di articolazioni lineari, o grandi segmenti, la Prima parte e la seconda Parte, ulteriormente suddivise in Atti e in episodi: una serie di differenze, in cui il lettore trova parallelismi e contrasti. Un altro livello di articolazione riguarda i personaggi, ciascuno dei quali costituisce una unità: che cos’è un personaggio? Non dovremmo già disporre di una teoria dell’identità personale per poter procedere? L’identità non si dice forse in diversi modi?12 Certamente sì: tra breve indicheremo la differenza tra il modo d’essere di Faust e quello di Mefistofele. Non ci sono dubbi, questa differenza è il cuore del Faust, e potrà venir chiarita solo mediante un conflictual reading.

In questo momento stiamo cercando di chiarire il nesso tra articolazione a interpretazione: in assenza dei “tagli” euristici introdotti mediante l’articolazione, l’interpretazione resta un tentativo di afferrare l’opera nel suo “significato globale”, e somiglia a una rete per catturare farfalle. Non è forse così che procedono gli studiosi di letteratura, indifferenti alla complessità del testo? Vorrebbero catturare il testo-farfalla con una reticella esterna, avvolgere il testo in un involucro definitivo, anziché indagare il labirinto di nessi, dunque l’insieme di relazioni, in cui esso consiste. Bisogna ammettere che è impossibile rinunciare del tutto a formule sintetizzanti (in un discorso didattico o divulgativo): ma per la teoria della letteratura esse non indicano il presunto “significato globale” del testo, e svolgono solo una funzione ausiliaria.

Si potrebbe dire che il Faust è la storia di un patto: perché rifiutare una descrizione così neutra nella sua genericità? Eppure, anche questa espressione apparentemente oggettiva è criticabile: ciò su cui Faust e Mefistofele si accordano è meno un patto che non una sfida, una scommessa. In cosa consiste esattamente? La risposta sembra facile: non è lo stesso Faust a dire che si dichiarerà vinto solo se verrà placata la sua inquietudine? “Se mai prenderò requie su un letto di pigrizia /sia per me la fine allora! … T’offro questa scommessa (Die Wette biet ich!).13 E ancora: “Dovessi dire all’attimo “Ma rimani! Tu sei così bello”, allora gettami in catene”.14

Il patto viene stipulato in due tempi, in due scene successive che recano il medesimo titolo: Studio (Studienzimmer). Non è curiosa la reticenza di Mefistofele? Faust è pronto a concludere, il diavolo è meno impaziente, sembra preoccupato di poter anzitutto lasciare lo spazio in cui si trova temporaneamente imprigionato a causa di un segno cabalistico. Tornerà nella scena seguente. Perché Goethe ha voluto differire l’accordo? Forse per creare una distanza tra due momenti di grande rilievo, la meditazione di Faust sul versetto “In principio era la parola”, con la possibilità di riscrivere la Scrittura (“Ecco che vedo chiaro e, ormai sicuro, scrivo: «In principio era l’Azione»”, Studio I, vv. 1236-1237), e poi, in Studio II, la definizione del patto. Per gli studiosi di Goethe, tuttavia, le due scene formano un tutto unico: in questo caso, un’articolazione voluta dall’autore viene ignorata e dissolta.

L’unità tra le due scene sarebbe garantita dallo Streben: colui che considera se stesso come inappagabile non sarà necessariamente un uomo che desidera più di tutto agire? In quale modo, se non compiendo azioni, l’eroe di quest’opera potrebbe giudicare la loro promessa di godimento? Dunque “In principio era l’azione” sarebbe l’arché, nel duplice senso di origine e di comando, che Faust si sente chiamato a personificare. A questo punto, però, cominciano a manifestarsi le perplessità dei lettori: perplessità di antica data, perché risalgono ai contemporanei di Goethe, e prima di tutto a Schiller, e sono state ribadite molte volte in seguito. 15 Perché Faust non agisce quasi mai? In realtà, più di quanto alcuni lettori credono, e con la piena responsabilità delle sue azioni: quando gli viene ordinato di salvare Margarethe, Mefistofele risponde “Non posso sciogliere i vincoli del vendicatore, né aprire la porta del suo carcere … «Salvala!» Chi è stato a precipitarla nella perdizione? Tu o io?”. A ciò Faust non può replicare né tenta di farlo. Egli “lancia sguardi d’ira tutt’intorno (blickt wild umher)”.16 Nella seconda parte, è Faust a voler scendere sino alle Madri.

Azione (die Tat) è un termine polisemico, cioè semanticamente denso. Come lo si debba intendere, è probabilmente lo stesso Goethe a spiegarlo quando esprime tutta la sua ammirazione per Napoleone Bonaparte, a cui attribuisce uno stato di continua “illuminazione” (Erleuchtung), uno stato di grazia che gli ha consentito di essere “uno degli uomini più produttivi che siano mai esistiti”. Produttività, ecco il significato di azione. Goethe aggiunge: “non basta scrivere poesie e drammi per essere produttivi, c’è anche una produttività dei fatti (Produktivität der Taten) che, in alcuni casi, può essere ritenuta assai più importante”.17 Niente come questa considerazione aiuta a comprendere perché Faust non agisca nel senso di compiere “grandi azioni”, come quelle sognate dall’eroe di Marlowe: ““By him, I’le be great Emperour of the world, / And make a bridge, thorough the moving Aire, / To passe the Ocean with a band of men, /I’le joyne the Hils that bind the Affrick shore”.18 Se le confronta con le imprese di un eroe cosmico-storico, che Goethe rievoca così “La sua vita fu quella di un semidio che avanza di battaglia in battaglia, di vittoria in vittoria”, i progetti del Faust marlowiano appaiono fantasie adolescenziali, se non addirittura infantili. Napoleone ha reso impossibile – o se si preferisce, esteticamente inverosimile - un eroe di fantasia, che si voti all’azione in senso storico-politico.

Faust dovrà sperimentare altre forme di produttività. Dovrà reinterpretare la volontà di potere (o di dominio) come volontà di potenza – il Wille zur Macht di Nietzsche. Ecco perché il patto viene stipulato in due tempi: Studio II sarà una interpretazione di Studio I. E, come ogni buona interpretazione, ne aumenterà la forza: il principio di azione viene reinterpretato come principio di non-coincidenza.

Questa è la prima decisiva metamorfosi nel testo di Goethe: essa illustra la differenza, o meglio l’antagonismo, tra due modi d’essere o modi di identità. Il più semplice consiste nella coincidenza con se stessi, e non viene smentito da nessun dinamismo o titanismo: il Dottor Faust di Marlowe esemplifica questo modo di identità, da cui il Faust goethiano si distacca quando introduce il dinamismo nella dimensione logico-ontologica. Non basta il desiderio di “diventare imperatore del mondo, lanciare ponti nell’aria, ecc.”, per oltrepassare la coincidenza con se stessi.

Il conflitto tra i due modi di identità caratterizza tutti i personaggi complessi nella letteratura – e ciascuno di noi, nella vita reale. Il Faust di Goethe ne offre una delle illustrazioni più alte, anzi, si potrebbe dire che solo in quest’opera il conflitto tra coincidenza e non-coincidenza viene pienamente tematizzato, diventa cioè il vero tema di un’opera. Esso si manifesta sia nella personalità di Faust, nella sua interiorità, per così dire, sia nel rapporto con Mefistofele. La sfida riguarda infatti i due principi, incarnati dai due avversari. Mefistofele è il principio di coincidenza: perciò Faust arriverà a chiamarlo “il padre di tutti gli ostacoli” (Der Vater bist du aller Hindernisse, v. 6205), l’ostacolo per eccellenza al desiderio di oltrepassamento. E’ alla luce di questo conflitto che va intesa l’espressione derisoria di Faust “E che vuoi darmi, povero diavolo? (Was willst du, armer Teufel, geben?” (v.1675). Lo Streben faustiano è desiderio di essere, e non di avere: è desiderio di non-coincidenza – quale dono essenziale potrebbe mai ricevere dal principio opposto?

Resta però la necessità di “appoggiarsi” ad esso.19 Non-coincidenza significa capacità di metamorfosi, dunque flessibilità. Solo in quanto è un “être flexible” (Montesquieu),20 il soggetto può trasformarsi, cioè cambiare il proprio modo d’essere, e non semplicemente espandere o rinnovare il modo della coincidenza. In questa sede non possiamo approfondire il rapporto tra Faust e Mefistofele. Non vi è dubbio, però, che Mefistofele rappresenti per Faust un sosia parodico (per riprendere un concetto di Bachtin).21 Il servo di Faust non è soltanto un servitore esterno, un esecutore pazientemente in attesa di ricevere il compenso pattuito: è anche l’ombra interna di Faust, corrisponde a quello che Nietzsche nello Zarathustra ha chiamato “spirito di gravità”, che non spinge tanto verso il basso quanto trattiene entro i propri confini.

6. Estetiche conflittuali e “conflictual reading” - La polifonia non è multifonia.

Ricapitoliamo, cercando di evidenziare l’impostazione metodologica qui adottata.

(i) per interpretare occorre articolare: introdurre “tagli” là dove il testo si presenta compatto, ma anche, in alcuni casi, potenziare suddivisioni già presenti, il cui valore non è stato compreso. Per quanto mi risulta, i lettori del Faust hanno sostanzialmente ignorato lo sdoppiamento del patto in due scene: il che è del tutto coerente con una visione riduttiva dello Streben, inteso come dinamismo inesauribile, e con una teoria ingenua dell’identità. Chi crede – ed è una convinzione molto diffusa - che l’identità si dia in un modo solo, come coincidenza (o relazione che un ente ha soltanto con se stesso), non scorgerà alcuna differenza tra Studio I e Studio II, cioè tra il principio di azione e il patto con il diavolo. Non avrà motivo di ipotizzare che la seconda scena riscriva la prima, proponendo un’interpretazione più precisa e più ricca del desiderio di agire, di quel desiderio che era nato in Faust dal disgusto verso un sapere inutile. Per giungere a questa ipotesi è necessario disporre di una teoria dell’identità e del desiderio: occorre un lettore che ha deciso di interrogarsi sullo statuto logico-ontologico dell’identità (nella vita reale e nella letteratura). Ecco perché la teoria della letteratura ha bisogno di ibridarsi con le teorie del desiderio e con la filosofia.

(ii) è stato presentato un esempio, sia pure rapido, di conflictual reading. Come si è già detto, lo statuto conflittuale dell’opera d’arte è una conquista irrinunciabile, e tuttavia è necessario ancora un grande lavoro per rafforzare le intuizioni di Nietzsche, di Heidegger, di Freud e di Bachtin. Per comprendere questa prospettiva può essere opportuno partire dalle estetiche “non conflittuali”, cioè dall’estetica tradizionale imperniata sulle nozioni di armonia, proporzione, ecc., e per la quale il conflitto può appartenere al contenuto dell’opera, ma non alla sua “forma”, cioè alla sua organizzazione testuale e stilistica (in senso ampio).

Introdotte dal dibattito settecentesco sul bello e il sublime, le estetiche conflittuali potrebbero riconoscere come data di nascita il 1872, cioè l’anno in cui viene pubblicata La nascita della tragedia: il principio che le ispira viene enunciato nel primo capoverso di quest’opera, ma, ancora una volta, rischia di non essere compreso in assenza di una prospettiva logica. Esistono due impulsi estetici, afferma Nietzsche, l’apollineo e il dionisiaco, e l’arte può nascere quasi soltanto da uno di essi, insomma dalla dominanza dell’uno o dell’altro, ma l’arte suprema – la tragedia attica - nascerà dalla loro congiunzione. Qui sta il problema: perché le relazioni oppositive formano un ventaglio, dove le differenze sono essenziali. Semplificando al massimo, ci sono tre possibilità: i contraddittori, che sono opposti totalmente incompatibili; i contrari, opposti compatibili, e suscettibili di casi misti; infine i correlativi, che rappresentano un tipo singolare di opposizione, in quanto sono opposti interdipendenti. Va rilevato che, a differenza dei contrari (ad esempio il bianco e il nero, che possono mescolarsi nel grigio), i correlativi non sono sintetizzabili (quale sintesi potrebbe esserci tra padrone e servo, tra medico e paziente?). Quest’ultimo caso, il più trascurato dalle logiche disgiuntive (da Aristotele a Frege, ecc.), è di enorme importanza per comprendere i linguaggi artistici.

Apollineo e dionisiaco sono contrari oppure correlativi? Nel primo caso, la tragedia attica nascerebbe da un atto di sintesi; nel secondo, invece, esprimerebbe un rapporto di antagonismo senza conciliazione. Nel primo caso avremmo ancora un’estetica dell’armonia, nel secondo avremmo finalmente un’estetica conflittuale, un’estetica dei correlativi, che sono opposti non sintetizzabili. Benché sia un’opera giovanile, e per diversi aspetti immatura, la Nascita della tragedia offre una risposta precisa: nessuna sintesi tra apollineo e dionisiaco, ma un antagonismo tanto più fecondo quanto più il conflitto non sfocia nel predominio di un impulso sull’altro. Nell’arte quasi soltanto apollinea è la rigidità a dominare (così avviene nell’arte dorica e nello stile egizio); Nietzsche nel 1872 è più indulgente per l’unilateralità del dionisiaco, ma dopo aver tracciato una frontiera netta tra il dionisiaco barbarico e quello ellenico, perché solo nei Greci l’amore per la forma non smette mai di esercitare la sua influenza. Sarà il Nietzsche più maturo ad affermare, nel concetto del Grande stile, l’antagonismo creativo tra gli opposti.22

Questo è il principio delle estetiche conflittuali, ed era necessario indicarlo. Lo si ritroverà successivamente, nel XX secolo, sotto altri nomi: per Heidegger è il conflitto tra Mondo e Terra, per Lacan l’intreccio dei tre registri, per Bachtin è il conflitto che si manifesta tra modi di identità (personaggi che coincidono con se stessi, come quelli di Racine, e personaggi che non coincidono mai con se stessi, quelli di Dostoevskij), ma anche negli stili e nel rapporto tra polifonico e monologico. Torniamo ancora una volta al Faust, e alle letture che lo impoveriscono.

(iii) la lunga storia della ricezione del Faust (così come quella di tante altre opere) non va confusa con la serie delle interpretazioni, cioè con il “tempo grande”. Ogni volta che incontra una nuova generazione, un testo viene inevitabilmente attualizzato, cioè percepito in maniera nuova: ma un’attualizzazione, anche quando è favorevole, non implica una comprensione feconda e non contribuisce necessariamente all’espansione di un testo. Può accadere invece che il testo venga rimpicciolito: i contestualisti non sono forse rimpicciolitori? Non è questo che accade, ad esempio, quando Conrad viene letto da Said?

Nell’ambito degli studi letterari, i miopi amano guardare da lontano: strizzano le palpebre fissando l’epoca a cui l’opera appartiene, e di quella sintesi sfocata che è diventato il testo fanno l’emblema di una fase storica. Dovrebbe essere superfluo sottolineare la povertà degli studi sociologici, che stabiliscono connessioni tra classi sociali e opere letterarie, benché sia giusto riconoscere che l’approccio sociologico ha iniziato ad essere meno disattento alla dimensione della forma. Così, dopo aver ripreso il giudizio di Lukács per cui il Faust è il poema dell’accumulazione originaria, dove il capitale gronda sangue,23 e dopo aver proposto un’analogia tra Faust e lo speculatore di Sombart, un individuo che “sogna cose gigantesche”,24 dimenticando che per i sociologi, e certamente per Lukács e Sombart, gli esseri umani sarebbero in grado di vivere solo nel modo della coincidenza (il che non impedisce di coltivare sogni giganteschi!), Franco Moretti sente l’esigenza di entrare nel testo di Goethe, almeno per una breve ricognizione: d’altronde, il suo obiettivo è “una storia materialistica delle forme letterarie ”.25 Il nuovo contestualismo non può permettersi di ignorare completamente la teoria della letteratura e la filosofia; alcuni stringono un’alleanza unilaterale con un solo autore (con Derrida oppure con Deleuze, ecc.), altri preferiscono attingere saltuariamente al campo della teoria. Ciò è del tutto legittimo, in linea di principio: a condizione, però, di utilizzare correttamente, e dopo un’attenta valutazione, i concetti e le distinzioni di cui ci si vuole servire. Per esempio, nel suo libro su Dostoevskij, Bachtin ha contrapposto nettamente polifonia e monologismo come differenti forme di organizzazione del romanzo. La polifonia non è semplicemente una molteplicità di voci, un accumularsi più o meno chiassoso secondo lo schema della contiguità, del nebeneinander. La vera polifonia, come la incontriamo in Dostoevskij, è una forma di pensiero tragica e scissionale: le voci si sfidano, si combattono, subiscono l’urto della parola altrui, si incrinano. Polifonica è ciascuna voce (almeno nei personaggi più complessi), in quanto alimenta un tormento interno. Dunque la polifonia non è multifonia. Il fatto che in Bachtin manchi questa precisazione terminologica non giustifica le banalizzazioni e i fraintendimenti.26

E’ vero che Bachtin sembra dimenticare la complessità della sua distinzione quando gli capita di confrontare non forme diverse di romanzo, ma il romanzo in generale e l’epica: in una comparazione contrastiva con l’epica classica, tutto il romanzo appare polifonico e centrifugo. Tuttavia, chi intende acquisire in maniera rigosa la sua teoria dovrebbe privilegiare la distinzione tra polifonico e monologico, gerarchicamente superiore alla tassonomia dei generi: ad un esame più attento, si potrebbe constatare la presenza di forze centrifughe nell’epica, così come si dovrebbe riconoscere che i personaggi di Racine sono meno compatti e indivisi di quanto Bachtin li ha giudicati. Come si è già detto, la teoria della letteratura è un cantiere aperto in cui si lavora di continuo a migliorare strumenti che hanno mostrato potenzialità euristiche, e che possono venire ulteriormente perfezionati. I treni su cui viaggiamo non sono più trainati da locomotive a vapore: dovremmo disprezzare l’invenzione del treno? Sia benvenuta, dunque, ogni critica che permette di fare progressi. Inaccettabili sono invece le critiche frettolose e volgari, che nascono da banalizzazioni e generano soltanto altre banalità.27

Se ne vuole una prova? Per Franco Moretti “la forma polifonica dell’Occidente moderno non è il romanzo, ma semmai proprio l’epica”;28 nella sua versione moderna, l’epica comprenderebbe il Faust, Moby Dick, l’Ulisse, ecc., opere assai eterogenee, dilatate da una vocazione enciclopedica. In questa sede non è possibile discutere l’utilità di questa proposta, che nasce comunque da un’impostazione tassonomica. Come altri contestualisti, Moretti si serve fondamentalmente di nozioni tassonomiche (e non analitiche), e questo è un enorme limite su cui si dovrà ritornare. Ma scendiamo più nei dettagli. Per Moretti il Faust presenterebbe alcune scene fortemente polifoniche, tra cui la “Notte di Valpurga”. Il fatto è che egli con polifonia intende “molte voci”: l’aspetto numerico risulta decisivo. Moretti non ha trascurato di contarle: “una trentina di voci nella prima «Notte di Valpurga»; altre trenta nel «Sogno»; e quaranta nella «Notte classica”;29 si è completamente dimenticato di chiedersi, invece, quale sia il rapporto tra le diverse voci in un’autentica polifonia. Non servono trenta o quaranta voci, ne bastano tre o quattro: ciò che conta è la relazione agonistica che s’instaura tra di esse, quel libero contatto in cui gli individui vengono “provocati” alla verità. Quanto più aumenta il numero delle voci, e tanto più improbabile è lo stabilirsi di un rapporto che non sia puramente contiguo, metonimico, cumulativo: un “effetto sorite”. La multifonia è polifonia indebolita, sino alla dissoluzione. Perciò le scene multifoniche citate da Moretti sono così noiose – come dare torto a Borges, che definisce la seconda parte del Faust “una delle più famose forme di tedio”? La grandezza di Goethe non sta in queste scene. Si è detto che non esistono leggi per la letteratura, e probabilmente neanche per le altre arti: però ci sono difficoltà con cui ogni artista deve fare i conti, il che giustifica alcune considerazioni di carattere generale. La molteplicità, quando tende ad essere nient’altro che molteplicità, indebolisce e annoia. Ne troviamo conferma anche nelle narrazioni che si rivolgono al grande pubblico, come i film di fantascienza horror, dove la presenza di un mostro può generare tensione e paura; ma quando i mostri si moltiplicano, ad esempio quando l’eroe non ha più a che fare con una terribile e gigantesca mummia vivente, ma con gruppi di mummie di cui si libera prendendole a calci, quando i vampiri vengono decapitati con la facilità con cui si schiacciano le mosche in un pomeriggio estivo, si verifica un’irrimediabile caduta di tensione.30 Neanche un regista come Tarantino riesce a mantenere il medesimo livello di tensione emotiva durante l’episodio di Kill Bill in cui Uma Thurman fa strage dei Crazy 88; con felice intuizione, il massacro si conclude in una tonalità comica, quasi a scusarsi con gli spettatori per l’inevitabile tedio causato dal molteplice.31

7. Freud e il desiderio di essere – L’identità come serie di identificazioni.

“Violenza e desiderio”, ha detto una volta Joyce “sono il respiro stesso della letteratura”.32 Lo sono sin dall’Iliade e dall’Odissea, evidentemente. Perciò abbiamo affermato (par. 4) che la teoria della letteratura nasce da una triplice confluenza, con la linguistica moderna, la filosofia, e le teorie del desiderio. In Occidente, il dibattito sul desiderio inizia con il Simposio di Platone, che, per l’appunto, è un’opera in cui si discute polifonicamente – e che non si conclude con il discorso di Socrate e nell’esortazione a salire verso il vasto mare della Bellezza, come per lo più si ritiene, perché ai discorsi dei simposiarchi si aggiunge l’irruzione di Alcibiade, e un’ultima performance in cui a venire elogiato è proprio Socrate, per i suoi agalmata, oggetti fascinosi ed enigmatici che egli racchiude nel suo interno, e che per Lacan illustrano la nozione di oggetto (a), l’oggetto causa del desiderio.33

Anche limitandosi al dibattito moderno, inaugurato da Freud, un tentativo di rendere conto delle principali concezioni del desiderio appare un’impresa ardua, che richiederebbe uno spazio molto superiore a quello disponibile in una rivista; tuttavia sto presentando un manifesto, dunque uno scritto a cui generalmente si concede il diritto a enunciazioni rapide. Ciò che conta è prendere posizione sui concetti fondamentali, e indicare alcune linee di ricerca. Si tratta inoltre di sviluppare la pars destruens del mio discorso, rimarcando i limiti e la povertà degli approcci “culturali”.

Non esiterò dunque a prendere posizione. Per quanto riguarda il dibattito sul desiderio, ritengo che la direzione di ricerca concettualmente più ricca, e che offre gli strumenti di analisi più precisi, sia quella di Freud e di Lacan. Ciò non implica alcuna adesione dogmatica, anzi: non posso non ribadire la mia convinzione, secondo cui è necessario riscrivere la principali tesi della psicoanalisi a partire dalla letteratura.34 E non escludo affatto il confronto con altre teorie, quelle di Bataille, Girard, Deleuze (senza dimenticare opere classiche come quella di de Rougemont, L’amore e l’Occidente). In ogni caso, non sarebbe possibile indicare i punti di forza della psicoanalisi senza respingere i pregiudizi più stereotipati, e senza riconoscere al tempo stesso ciò che risulta superato.

I tentativi di ridurre il pensiero di Freud e Lacan circoscrivendoli all’Edipo, e al fallocentrismo, nascono da incompetenza e malafede: bisogna riconoscere, d’altra parte, le gravi responsabilità dell’ortodossia freudiana e di quella lacaniana. Occorre ammettere che per un certo periodo, negli anni successivi alla pubblicazione degli Écrits, la comprensione della ricerca di Lacan era assai limitata; ostacolata dallo stile ermetico e barocco dell’opera che pure lo aveva reso famoso, era stata parcellizzata in pochi concetti:35 la fase dello specchio (una nozione che tutti erano in grado di capire, senza però accedere a una comprensione dell’Immaginario), e la tesi dell’inconscio strutturato come un linguaggio, filtrata dall’alleanza con Jakobson, e dall’accoppiamento tra i processi freudiani di spostamento e condensazione e i procedimenti retorici di metafora e metonimia. Quest’alleanza ha prodotto qualche effetto positivo, ma è ormai datata e improponibile.

Che cos’è il desiderio per Freud? In base agli stereotipi anti-psicoanalitici, viene inteso quasi soltanto come desiderio di avere, rivolto a un oggetto proibito (incestuoso). E benché il primo oggetto d’amore sia la madre anche per la bambina, si continua a considerare l’Edipo maschile come schema archetipico. La triangolazione “desiderio – Legge – oggetto proibito” sarebbe il nucleo fondamentale della psicoanalisi, anche quella lacaniana. In realtà, chi non capisce che “i 3 dell’Edipo” diventano in Lacan i tre registri (Immaginario, Simbolico, Reale) è destinato a capire poco o nulla della psicoanalisi. Ma restiamo a Freud. La concezione freudiana del desiderio trova la sua migliore enunciazione in un saggio del 1921, Psicologia delle masse e analisi dell’io, imperniato sulla distinzione tra desiderio di essere e desiderio di avere, cioè tra identificazione e investimento oggettuale. Questo saggio presenta in maniera sufficientemente articolata una novità straordinaria rispetto alla tradizione filosofica (novità che non è stata compresa a tutt’oggi dalla cosiddetta “filosofia analitica”, e neanche dalle scienze umane) per quanto riguarda il concetto di “identità”. L’identità è sempre una relazione: ma per la tradizione filosofica essa consiste nella relazione che un ente ha soltanto con se stesso. La grande lacuna, il grande errore, sta nel credere che l’identità si presenti solo nel modo della coincidenza. Invece, e lo abbiamo già anticipato, non esiste identità senza un modo d’identità (no identity without a mode of identity). E i modi sono anzitutto due: la coincidenza e la non-coincidenza con se stessi. Ulteriori articolazioni sono necessarie, ma non si dovrà mai rinunciare a questa distinzione.

Essa rappresenta una svolta decisiva, e la sua audacia pionieristica è tale, anche sul piano filosofico, che lo stesso Freud non l’ha rimarcata abbastanza. Dal punto di vista concettuale, però, il discorso freudiano è sufficientemente sviluppato: l’identità consiste in una serie di identificazioni, e l’identificazione è la relazione mediante cui un soggetto viene determinato da un altro soggetto. L’identità diventa tale solo grazie al rapporto con un’altra identità.

Sembra opportuno precisare subito questa definizione:

(a) per poter sperimentare un processo di identificazione, il soggetto deve essere flessibile, cioè plastico. La flessibilità degli esseri umani dipende dalla componente pulsionale: le pulsioni sono forze plastiche (plastische Kräfte) (Freud).36

(b) l’identificazione è un processo di trasformazione in larga misura inconscio, anche se ciò non esclude che il soggetto sia consapevole di quali siano i modelli che egli ammira, e dai quali si lascia trasformare. Don Chisciotte desidera essere Amadigi di Gaula, Emma Bovary desidera essere le eroine romantiche dei libri che ha letto in collegio. Bisogna distinguere tra l’identificazione in senso eminente, come la stiamo descrivendo, e le identificazioni effimere, che influiscono solo temporaneamente su un individuo, e non lasciano tracce rilevanti: sarebbe meglio indicare questo tipo con il termine immedesimazioni. L’intensa adesione emotiva di uno spettatore al protagonista di un film, per la durata di un paio d’ore, non dovrebbe venire chiamata “identificazione”, salvo mantenere una precisa distinzione tra i diversi processi.

(c) dunque, l’identificazione è un processo molto più complesso dell’empatia, a cui si limitano attualmente le scienze cognitive, e che ha ricevuto attenzione, ad esempio, negli importanti saggi di Martha Nussbaum;

(d) quante potrebbero essere le identificazioni, che, nel corso di una vita, modificano in misura determinante l’identità di un soggetto? Nei termini di Goethe e di Nietzsche: di quante metamorfosi è capace un uomo? La risposta di Freud è che possono essere molte, e che l’identificazione con un modello/rivale nel triangolo edipico è solo la prima tra di esse.

(e) l’attrazione irresistibile esercitata da un modello (Napoleone rispetto a Julien Sorel, per esempio) rappresenta la forma più intuitiva e facilmente afferrabile del processo di identificazione. Ma per Freud ci si può identificare anche con l’oggetto del desiderio, e questa “confusione” accompagna l’innamoramento e l’amore. Più raramente, e talora in maniera effimera, si può desiderare di essere un oggetto materiale. Un esempio: “O that I were a glove upon that hand, / That I might touch that cheeck”.37 Nella prospettiva di Lacan, l’identificazione può rivolgersi a das Ding, la Cosa. Ad esempio i personaggi di Sade desiderano essere assorbiti dalla Natura, assecondarne il movimento più forte (il crimine), svanire nel suo perenne impulso di distruzione e rinnovamento.

Non si dovrebbe perdere di vista questo insieme di possibilità: identificarsi con un modello, oppure con un oggetto, oppure con la Cosa.

(f) infine, occorre distinguere tra modi di identificazione: un soggetto (idem) può venir modellizzato da un altro soggetto (alter) sino al punto da subire una vera e propria alienazione: non è questo che accade a Don Chischiotte? Egli mantiene la sua precedente identità solo dal punto di vista numerico, e del contesto spaziotemporale in cui vive: ma la sua personalità si è dissolta, è scomparsa in un vortice che si chiama Amadigi di Gaula; ogni distanza con il modello è stata abolita – nel suo desiderio di essere, naturalmente. Chiamerò confusivo questo modo di identificazione. Si noti che la confusività non è semplicemente e banalmente una confusione (come quelle che ci accade di compiere nella quotidianità): con il termine alienazione si indica la radicalità del processo, senza però caricarlo di connotazioni patologiche.

In effetti, che cosa sarebbe stata la signora Bovary, senza i libri che esaltavano la passione romantica, cioè una passione non vincolata a scelte anteriori e socialmente ratificate? Sarebbe rimasta la moglie fedele di Charles (triste destino!). Il confusivo le apre le porte a una diversa esistenza. Rileggiamo il celebre passo in cui Emma scopre di essere diventata se stessa:

“Mais, en s’apercevant dans la glace, elle s’étonna de son visage. Jamais elle n’avait eu les yeux si grands, si noirs, ni d’une telle profondeur. Quelque chose de subtil épandu sur sa personne la transfigurait.

Elle se répétait: «J’ai un amant! un amant!» se délectant à cette idée comme à celle d’une autre puberté qui lui serait survenue. Elle allait donc posséder enfin ces joies de l’amour, cette fièvre du bonheur dont elle avait désespéré. Elle entrait dans quelque chose de merveilleux où tout serait passion, extase, délire; une immensité bleuâtre l’entourait, les sommets du sentiment étincelaient sous sa pensée, et l’existence ordinaire n’apparaissait qu’au loin, tout en bas, dans l’ombre, entre les intervalles de ces hauteurs.

Alors elle se rappela les héroïnes des livres qu’elle avait lus, et la légion lyrique de ces femmes adultères se mit à chanter dans sa mémoire avec des voix de soeurs qui la charmaient”.38

Questo passo meriterebbe un lungo commento, anche di carattere filosofico. C’è senza dubbio qualcosa di paradossale nell’affermazione secondo cui qualcuno diventa se stesso mediante il “diventare un altro”, e tuttavia a questa necessità nessuno può sottrarsi: la nostra condizione di esseri flessibili implica l’assenza di un nucleo originario a cui fare riferimento. Perciò la fedeltà al proprio desiderio (per Lacan l’unico precetto dell’etica psicoanalitica)39 non può venire attuata se non oltrepassando i modelli in cui abbiamo cercato inevitabilmente una forma – noi, esseri troppo plastici per entrare nel mondo avendone già una. Possiamo cercare la nostra autenticità solo muovendo in avanti, per così dire, cioè interpretando le nostre possibilità. E ogni interpretazione è rischiosa, aleatoria, mai interamente governabile.

Si è detto che anche il confusivo può accrescere le possibilità di un individuo, in quanto lo spinge oltre i limiti in cui la sua esistenza tendeva a chiudersi. E tuttavia forme estreme di “divenire un altro” tendono a irrigidire il soggetto: esso finisce con l’arenarsi nell’alterità – come negarlo? Dunque, il processo di non-coincidenza con se stesso può interrompersi, e sfociare nel suo contrario. Per evitare gli effetti di irrigidimento, per mantenere duttile la nostra identità, è necessario mantenere una certa distanza rispetto al modello: esso deve restare una fonte di ispirazione, e non funzionare come una restrizione mimetica. Chiamo distintivo questo modo di identificazione. Lo esemplificano personaggi come Julien Sorel e come Raskol’nikov; nell’eroe di Dostoevskij il desiderio di essere è tormentoso, crudele, in quanto egli non può disconoscere la distanza che lo separa dagli uomini superiori, e nello stesso tempo non conosce forme di attrazione diverse.

8. Oltre la mancanza e la produzione - Il desiderio di essere è un desiderio senza Legge.

In Freud il desiderio di essere non è meno importante del desiderio di avere: anzi, è più importante per la formazione dell’identità. Perché la sua importanza non è stata compresa, anche all’interno della psicoanalisi? Perché tanta diffidenza? Freud ha detto che se si comincia a cedere sulle parole si finisce con il cedere anche sulle cose.40 Perciò vorrei insistere su questa espressione, dopo averla precisata. Lasciamo subito da parte la banalità dell’essere contrapposto all’avere, e dunque inteso come superiorità della dimensione spirituale rispetto a quella materiale. Non è di questo, evidentemente, che stiamo parlando. Piuttosto, si può ipotizzare che a suscitare la diffidenza degli psicoanalisti sia stato l’atteggiamento di Freud, il quale riteneva che la filosofia fosse costantemente orientata verso una volontà di saturazione, nell’illusione che sia possibile fornire un’immagine del mondo coerente e priva di lacune. Quanto al verbo essere, la diffidenza è stata manifestata anche dai filosofi, per esempio da Nietzsche.41 Ma con Heidegger il significato dell’ontologia è radicalmente cambiato, ed è alla prospettiva heideggeriana, reinterpretata come ontologia modale, che farò riferimento.42

Dal punto di vista filosofico, le difficoltà potrebbero venir indicate così:

- la contrapposizione standardizzata tra essere e divenire, dove l’essere viene sempre pensato implicitamente come “staticità”.

- l’oblio della differenza ontologica, cioè la tendenza irresistibile a ridurre l’essere all’ente (su ciò Heidegger).43

- la visione dell’essere come pienezza: anche Sartre è caduto in questo errore, il suo desiderio di essere mira alla sintesi tra in-sé e per-sé. Forse è proprio l’elaborazione sartriana ad aver avuto un certo effetto inibitorio su Lacan.

Per la concezione qui proposta, invece, il desiderio di essere si dà dinamicamente come desiderio di non-coincidere con stessi: desiderio di oltrepassamento (e non di completamento!). Questa concezione si ispira a Nietzsche e a Freud, certamente: alla volontà di potenza, che non è volontà di potere (un equivoco ormai chiarito definitivamente), e alla teoria dell’identità come serie di identificazioni. La volontà di non-coincidenza ha trovato nella letteratura il luogo più eminente di elaborazione: il personaggio di Faust ne rappresenta uno degli esempi più espliciti.

Va osservato che il desiderio di un “oltre” non è necessariamente orientato verso un modello, ammirato in maniera incondizionata, o verso un modello/rivale, che suscita una passione ambivalente (è la differenza che René Girard indica tra mediatore esterno e mediatore interno): esso nasce dalla potenza stessa del soggetto, dalla sua sovrabbondanza vitale. Così è per Faust, e anche per Ulisse, il cui viaggio di ritorno inizia dall’isola di Ogigia, dove egli è prigioniero di una bellissima ninfa, che vuole fargli dono dell’immortalità: Ogigia è la possibilità della coincidenza, il restare eternamente presso di sé. E’ questo che Ulisse rifiuta – ed è questo che Dante ha compreso ed esaltato, attribuendogli un nuovo viaggio.

Mi sembra che la concezione di Girard meriti più di un cenno. La teoria del desiderio mimetico è infatti imperniata sul desiderio di essere, e più precisamente sulla tesi per cui c’è sempre un altro che presiede alla nascita del desiderio: c’è sempre un mediatore, ed è l’essere del mediatore, più che l’oggetto, ad assorbire la volontà del soggetto. Nessuna autonomia per il desiderio. Girard ha tentato di mostrarlo in Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), riferendosi a Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij, Proust, e in seguito nel saggio su Shakespeare.44 Le sue analisi sono stimolanti, ma troppo schematiche e viziate da molte forzature. Poiché qui non possiamo discuterle, cerchiamo di cogliere l’errore metodologico, iniziando a chiederci perché Girard abbia sostituito il termine identificazione con mimesis, e quale sia il prezzo pagato per questo occultamento.

All’accusa di aver nascosto il suo enorme debito con Freud, Girard potrebbe rispondere che in Freud il desiderio di essere viene costantemente schiacciato sulla scena edipica: l’Edipo sarebbe il triangolo originario, archetipico, rispetto a cui ogni triangolarità successiva risulterebbe una copia. In parte, questa critica è giustificata. Tuttavia la psicoanalisi, in Freud e dopo Freud – il silenzio di Girard su Lacan è del tutto inammissibile -, ha saputo proporre una concezione più ricca e più articolata. Il desiderio mimetico di Girard appartiene completamente alla dimensione che Lacan ha chiamato Immaginario: ma l’Immaginario è solo uno dei tre registri, e aver ignorato le differenze con il Simbolico e il Reale è il grande limite di Girard. Da ciò derivano le sue continue forzature dei testi.45

Adesso possiamo formulare una definizione più completa del desiderio di essere. Per la tradizione dell’Occidente, a partire dal Simposio di Platone, il desiderio è sempre relativo a una mancanza. D’altronde, questo è ciò che dice il senso comune: si desidera ciò che non si ha. Meno ingenuamente, la mancanza può venire intesa come mancanza d’essere (manque d’être, Sartre) o mancanza-a essere (manque à être, Lacan). Contro questa concezione, alcuni (tra di essi Deleuze) hanno affermato che il desiderio è produzione. L’obiettivo polemico è in particolare la psicoanalisi, che resterebbe subordinata alla maledizione del desiderio, inteso come mancanza, rincorsa infinita e frustrante di un oggetto perduto, di una completezza rispetto alla quale la Legge, il significante, agisce come un ostacolo insormontabile.46 Che il desiderio sia strutturalmente “castrato” dalla Legge, ecco ciò che l’energetismo deleuziano non può ammettere.

Alle critiche di Deleuze si può rispondere che egli confonde mancanza e privazione, e che, in una visione non caricaturale, il desiderio è forza generativa, e non semplicemente la rincorsa di un oggetto mancante; e che è possibile pensare a una versione non punitiva e sacrificale della legge.47 Ma non basta: bisogna che il desiderio sia pensato soprattutto come desiderio di essere. Allora il desiderio non si rivolge alla mancanza, bensì è alimentato dalla potenza: non è castrato (cioè parzialmente svuotato) dalla Legge, perché non è con la Legge che si confronta bensì con modelli, cioè con singolarità complesse, che egli ammira ma vuole superare. “Ti strapperò l’alloro dalla fronte” (Kleist), queste parole di uno scrittore meno vasto ma non meno grande di Goethe esprimono un’ambizione che non ha più nulla a che vedere con il desiderio mimetico di Girard: esprimono un desiderio di creatività, che sfocia nella produzione, o meglio nella produttività. Il “divenire artista” è certamente una delle forme più alte della volontà di conquistare se stessi. E poiché si manifesta nel confronto con altre singolarità, e non nella trasgressione di regole (se non come effetto inevitabile), si dovrà dire che il desiderio di essere è un desiderio senza Legge.

9. Lacan e la teoria dei registri.

Ciò non significa però che il desiderio di essere come desiderio di oltrepassamento aspiri alla pienezza, all’indiviso, all’Uno. Il rovesciamento del désir a favore della jouissance è stato teorizzato in questi ultimi anni da Jacques-Alain Miller, che ha interpretato in questa prospettiva gli ultimi seminari di Lacan, dove si registra uno spostamento d’accento dal Simbolico al Reale. Provo a indicare molto schematicamente i termini del problema.

Lacan si è ispirato sin dall’inizio a quella che possiamo considerare l’idea-guida dello strutturalismo, e cioè il primato delle relazioni rispetto ai termini, aggiungendo però alla dimensione organizzata quella non-organizzata: ha considerato non solo i rapporti, ma anche i non-rapporti, cioè la possibilità di un’assenza o di un collasso della relazione. Così è nata la teoria dei tre registri. Per Freud la psiche era divisa in luoghi (Es, Io e Super-io) e in movimenti (energia libera, energia legata): era divisa anche linguisticamente, perché l’inconscio è un linguaggio, diverso però dal linguaggio governato da regole sociali. Freud aveva pensato l’inconscio strutturato come un linguaggio, ma non l’aveva definito così. La novità di Lacan consiste in una riformulazione dei luoghi, dei movimenti e delle norme: i tre registri riuniscono queste tre aspetti.

Dunque, ogni individuo è una massa pulsionale, caotica, informe (il Reale), che può accedere a una forma entrando in luoghi più organizzati, l’Immaginario e il Simbolico. In entrambi i luoghi il caos viene sospeso, ma nell’Immaginario regna una logica confusiva: le forme donano l’identità, e la tolgono. Il mito di Narciso compendia queste oscillazioni distruttive: l’Io desidera l’Io ideale, l’immagine che è la sua perfezione narcisistica, e desidera vanamente congiungersi ad essa. Nella relazione con se stesso è penetrata sin dall’inizio una scissione. In altre versioni del narcisismo, la passione di sé diventerà ambivalente: Dorian Gray desidera coincidere con l’immagine nel ritratto, e la odia perché tale coincidenza è impossibile.

Non si può vivere soltanto nel Reale e nell’Immaginario: qui l’atmosfera è irrespirabile; e tuttavia, è l’atmosfera che noi stessi siamo, e che si mescola al nostro respiro. Attenuarla, spegnerne la veemenza, placarla, è compito del Simbolico, il registro del linguaggio e della Legge. Il Simbolico è la possibilità di vivere con altri, di porre fine alla rivalità interminabile con i doppi, di porre rimedio alla crisi del Degree, per riprendere un’espressione di Shakespeare. 48 Adesso gli individui hanno un nome, e non soltanto una forma. Lacan ha molto insistito sulla funzione pacificante del linguaggio, sottolineando però i suoi effetti alienanti. In ogni caso, le unità che per la semiotica sono segni diventano per Lacan significanti. Un significante lacaniano non è una metà del segno saussuriano, bensì un segno (una “unità”) che non ha in se stesso il proprio baricentro: scivola verso altri significanti, potenzialmente all’infinito. Ecco, di nuovo, il primato delle relazioni. Ma dalle relazioni occorre passare agli stili di pensiero, e al loro conflitto.

Ho cercato di presentare il nucleo fondamentale del pensiero di Lacan perché se ne comprenda la fecondità per l’analisi dei testi letterari: vale la pena di sottolineare che non ho fatto alcun riferimento all’Edipo o al Fallo? Dobbiamo continuare a dare ascolto agli stereotipi con cui il femminismo cerca di demonizzare le teorie con maggiori potenzialità euristiche? Dovremmo affidarci al nomadismo di Rosi Braidotti e al costruttivismo di Judith Butler?

Nello stesso tempo, qui non si propone alcuna ortodossia, ma si indicano direzioni di sviluppo. Come ho già anticipato, alcuni concetti di Lacan vanno ripensati e riformulati: e prima di tutto il Simbolico, che non può venire ridotto alla Legge, ma va inteso come la dimensione della complessità intellettuale. La barra che Lacan ha posto sulla “A” del Grande Altro dovrebbe venire interpretata come un indice del conflitto, che caratterizza questo registro.49 “Logos e polemos sono la stessa cosa”, ha detto Heidegger.50 Il Simbolico lacaniano dovrebbe venir interpretato heideggerianamente, come luogo di antagonismi tra stili di pensiero.

Questa è stata in certi momenti l’intuizione dello stesso Lacan, che però non ha saputo svilupparla e ha finito con lo smarrire la via feconda del polemos. Eppure, nel seminario sulla “Lettera rubata”, con cui si aprono gli Écrits, Lacan aveva presentato un’analisi raffinata del racconto di Poe, che potremmo collocare tra “i racconti dell’intelligenza” o del Simbolico, accanto a quelli del terrore, nei quali domina il Reale.51 Aveva distinto tre posizioni del soggetto, in quanto esso può incarnare tre differenti tipi di sguardo, e aveva descritto la possibilità di scivolare oppure di non scivolare da una posizione all’altra. Nella mia interpretazione del Seminario di Lacan, i tipi di sguardo diventano più esplicitamente stili di pensiero, stili logici: il che significa che LA logica non esiste.

Anzitutto occorre articolare il testo, introducendo dei “tagli” e delle scissioni. Dal punto di vista sintagmatico, verranno distinte tre scene: questa distinzione è piuttosto intuitiva, e non richiede alcuna tecnica particolare. La grande novità riguarda l’articolazione di quello che gli strutturalisti chiamavano l’asse paradigmatico, e il cui primato per Barthes rappresentava il punto di forza dello strutturalismo:52 non di quello “grammaticale”!, non quello di chi voleva ricostruire una o più langues. Propongo qui la mia interpretazione dell’interpretazione di Lacan, in uno schema immediatamente afferrabile:

  Prima scena Seconda scena Terza scena
 sguardo del cieco il Re la polizia  il Ministro
 sguardo del narcisista la Regina il Ministro Dupin
 sguardo dello stratega il Ministro Dupin la lettera

L’articolazione “verticale”, mediante tre sguardi ciascuno dei quali è governato da uno stile logico, va certamente al di là dello strutturalismo, come storicamente si è realizzato: gli strutturalisti non hanno saputo, se non raramente (soltanto in Barthes e in Lacan), comprendere che l’analisi del testo non dovrebbe privilegiare il rapporto tra parole e langue, dunque la ricostruzione di un sistema soggiacente a numerosi testi (questa è la via che ho chiamato grammaticale). Non hanno compreso che il linguaggio è linguaggio diviso, abitato da stili in conflitto.53

La genialità del racconto di Poe non consiste in un’astuzia abbastanza elementare, cioè nel situare in piena evidenza e visibilità ciò che si presume dover essere nascosto: se così fosse, questa sarebbe davvero “una favola per bambini”, sia pure raffinata.54 Il racconto illustra la differenza tra stili di pensiero, e anzitutto la cecità del modo di pensare separativo, quello della polizia, la quale procede scomponendo lo spazio della ricerca in quelle che Bergson avrebbe chiamato partes extra partes, cioè in porzioni contigue, da esaminare in maniera esaustiva. La lettera rimane invisibile, per due motivi: in quanto non è semplicemente un oggetto, bensì un significante, che produce effetti mentali; e in quanto la polizia si dimostra incapace, per citare le parole di Dupin, di identificarsi con la mente del ministro D., e ciò deriva “by ill-admeasurement, or rather through non-admeasurement, of the intellect with which they are engaged”.55 Si noti che qui stiamo parlando di una identificazione cognitiva, di una ricognizione nella mente altrui al fine di preparare le contromosse adeguate, e non di un’adesione mimetica (siamo nel Simbolico, e non nell’Immaginario).

Riprendiamo un momento dell’analisi di Lacan, relativamente a ciò che significa nascondere come operazione mentale e non materiale. Poiché non è una cosa, ma un significante, la lettera non appartiene all’ordine della realtà bensì a quello della verità, ed è per questo motivo che può venire nascosta in una accezione alethica:

“You do see, that only in the dimension of truth can something be hidden. In the real, the very idea of a hidden place is insane, however deep into the bowels of the earth someone may go bearing something, it isn’t hidden there, since is he went there, so can you. Only what belongs to the order of truth can be hidden. It is truth which is hidden, not the letter. For the policemen, the truth doesn’t matter, for them there is only reality, and that is why they do not find anything”.56

Sul piano epistemologico la polizia è dunque colpevole di una duplice fallacia modale, in quanto riduce le dimensioni modali della verità a una dimensione sola, l’effettualità (actuality), e in quanto crede nell’unitarietà della ragione, nella sua monotonia, e ignora che la ragione è divisa negli stili di pensiero che ne compongono l’identità instabile e multiforme. Niente potrebbe risultare nascosto per una razionalità separativa – Lacan ha perfettamente ragione, nella realtà, che è scomponibile e penetrabile, non esiste la possibilità né di celare né di velare qualcosa. La realtà effettuale non contiene barriere che non siano visibili e sormontabili. Se la polizia non trova la lettera, è perché il ministro D. l’ha nascosta nella scissione tra stili di pensiero, e lì la polizia non è in grado di trovarla.

A questo punto possiamo proporre una connessione tra la definizione di Tolstoj, l’opera d’arte come labirinto di nessi, e la concezione del linguaggio diviso. Ne risulta una nuova immagine del testo, come tessuto di stili, che zampillano dalle virtualità del linguaggio e della mente:

Rain 

Ho chiamato questo schema la pioggia degli stili.57 Esso delinea una visione del linguaggio come campo di virtualità: qui indica gli stili che scindono il Simbolico lacaniano (li abbiamo già incontrati: sono il separativo, il confusivo, e il distintivo), ma può indicare altre possibilità rivali (le scelte tra le figure retoriche, per esempio).

Adesso si può comprendere meglio il significato di un conflitto che è anche un intreccio. E’ dall’intreccio che dipende quell’effetto che l’estetica tradizionale chiamava “armonia” e che, bisogna ricordarlo, veniva talvolta inteso come concordia discors, dunque con la percezione delle dissonanze.58

Con gli sviluppi qui delineati andiamo oltre Lacan, e soprattutto oltre l’ortodossia lacaniana, di cui vorrei segnalare i principali dogmi:

- il linguaggio viene pensato nella sua azione prevalentemente negativa, meglio ancora privativa. Miller afferma che “La Legge del Nome-del-Padre non è in fondo altro che la legge del linguaggio”, per aggiungere subito dopo che la Legge “dice no, … dice no perché il campo del linguaggio è fatto di questo no”.59 Questo è un grande errore dei lacaniani; in realtà, il linguaggio non dice “no”; il linguaggio dice “non”, e il “non” è l’attività di articolazione, l’insieme delle relazioni negativo-differenziali (che lo strutturalismo ha ereditato da Saussure) e il conflitto tra gli stili.

- la metafora non è una sostituzione, se non nei casi più semplici e codificati: è un’interazione orizzontale (come ha mostrato Max Black), e non un avvicendamento verticale. La concezione sostitutiva della metafora, che Lacan ha ripreso da Jakobson, è un vero e proprio ostacolo epistemologico per quanto riguarda la teoria dell’identificazione. L’azione esercitata da alter su idem non è forse paragonabile a una metaforizzazione? Indubbiamente sì, ma bisognerebbe considerare anche altre possibilità.

10. Derrida e il nuovo contestualismo: l’intertestualità illimitata.

Prima di tornare al contestualismo dei cultural studies, è necessario esaminare un’altra posizione teorica, quella di Jacques Derrida, rispetto a cui la mia posizione presenta qualche affinità. C’è dunque il rischio che sorgano equivoci. In apparenza, la concezione di Derrida è anti-contestualista: la sua tesi più nota, Il n’y a pas de hors-texte, esprime in effetti il rifiuto di ogni tipo di critica letteraria che intenda vincolare un testo al suo contesto storico, o referenziale, all’intentio auctoris, e così via. Come va inteso questo slogan, così frequentemente frainteso dai suoi detrattori? Esso afferma che esiste solo il linguaggio? Certamente no. Intende decretare la superiorità delle parole rispetto alle cose che incontriamo nella vita quotidiana, o che vengono studiate dalla scienza? In parte sì, quantomeno nel senso di sottolineare il ruolo del linguaggio nella costruzione dell’esperienza. Ma per comprendere meglio il carattere metodologico di questa tesi, che non a caso viene enunciata in un paragrafo dal titolo L’exorbitant. Question de méthode, è opportuno rileggere un passo, tutto in corsivo, che probabilmente ne costituisce la principale chiave di lettura. Lo riporto nella sua interezza: “The security with which the commentary considers the self-identity of the text, the confidence with which it carves out its contour, goes hand in hand with the tranquil assurance that leaps over the text toward its presumed content, in the direction of the pure signified”.60

Dunque Derrida sta criticando alcune idee, ampiamente diffuse, secondo cui:

- un testo avrebbe un dentro e un fuori. La distinzione è creata dal contorno, empiricamente visibile e ingenuamente dogmatizzato; da ciò deriva anche la distinzione tra forma (come involucro) e contenuto;

- ogni testo avrebbe una sua autonomia, grazie alla rigidità dei confini che lo separano da altri testi; esso costituirebbe un’entità completa; nel caso delle opere d’arte, tale completezza andrebbe valorizzata come intransitività;

- il significato sarebbe contenuto nel testo come l’acqua in un bacino: statico, immobile, ma non sempre trasparente. Esiste infatti un tipo di critica che mira al senso nascosto, alle profondità non immediatamente visibili (e la critica psicoanalitica ne sarebbe la versione più palese). Ma la sicurezza di poter “scavalcare il testo verso il suo contenuto presunto, verso il puro significato” caratterizza tutta la tradizione del logocentrismo, il pensiero della presenza che Heidegger non avrebbe indagato abbastanza a fondo.

A queste convinzioni diffuse Derrida obietta che:

- non esistono confini rigidi tra dentro e fuori: ogni segno (ogni unità semiotica) esiste nei rapporti con altri segni, e non c’è ragione di limitare il gioco dei rapporti negativo-differenziali all’interno del testo. Strutturalisti, ancora uno sforzo! (parafrasando il titolo del libello di Sade), e potrete ammettere il principio del débordement, lo straripamento che distrugge tutti i confini, e consente di pensare il “testo” (tra virgolette) immerso in un campo più vasto, “un reticolo differenziale, un tessuto di tracce che rinviano indefinitamente ad altro, riferite ad altre tracce differenziali”. 61

- l’autonomia di un testo è illusoria: ogni testo è un intertesto, è la trasformazione di altri testi. Dunque, un testo è sempre incompleto, in quanto preso in relazioni di rinvio;

- un testo è fatto di tracce. Questo termine indica non un tessuto, bensì una tessitura, un divenire che nega la nozione di origine, e può ammetterla solo come effetto retroattivo. La traccia (pura) è la différance, che non è “una differenza tra” (due o più entità già date): “It is not the question of a constituted difference here, but rather, before all determination of the content, of the pure movement which produces difference”. 62

Gli obiettivi di Derrida sono chiari: liberare il testo da ogni rigidità, e dunque da ogni contorno, secondo la concezione tradizionale che anche lo strutturalismo avrebbe condiviso; farla finita con la distinzione “forma/contenuto”; respingere ogni ermeneutica del senso; gettare il testo in un dinamismo permanente, svincolandolo dalle restrizioni del contesto. Questi obiettivi possono apparire simili a quelli che ispirano il mio manifesto: in realtà, sono molto diversi. Quanto più possono sembrare simili, tanto più vanno compresi in modo differente.

Non è mia intenzione riproporre critiche che si indirizzavano ai presunti “eccessi” del decostruzionismo: vorrei invece indicarne i limiti, i difetti, gli errori, anzitutto sul piano filosofico (e politico). C’è qualcosa di irrimediabilmente datato nelle filosofie della differenza (Derrida, Deleuze, Lyotard, Foucault) che tanta influenza hanno avuto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, e cioè la convinzione che il logocentrismo sia un pensiero orientato verso l’Uno, la presenza, e dunque la staticità. Se così fosse, ogni pensiero del molteplice, della differenza, e del divenire, avrebbe una forza sovversiva, e contribuirebbe alla lotta contro i dispositivi del potere. Non è così. La società capitalista è strutturalmente una società dinamica, è una società in cui, per riprendere le parole di Marx, “All that is solid melts into air”.63 Anche la metafisica dell’Uno si è dissolta da tempo: già nell’Ottocento, tutte le principali filosofie enfatizzano il divenire in quanto evoluzione o come energia imprevedibile, esplosiva. Il capitalismo è diventato sempre di più la società del molteplice, sino a presentarsi come una “società liquida”, secondo l’espressione di Bauman, discutibile ma non priva di forza descrittiva. Senza dubbio si potrebbe obiettare che questa è una cattiva molteplicità, e che la produzione di possibilità e di differenze, alimentata dal capitalismo, si riduce all’offerta di optional, cioè di scelte precostituite dal mercato. Tutto ciò è vero: ma è plausibile che una cattiva molteplicità possa venire redenta da quella buona, intesa come un incremento del divenire? In questa sede non si può approfondire il discorso politico: torniamo dunque alla letteratura.

Consideriamo un’altra apparente somiglianza. Per Derrida esistono due tipi di testo, quelli che coincidono (i testi rigidamente articolati, nella vita quotidiana (“vorrei un caffè”) o nei linguaggi formalizzati) e i testi che non coincidono con se stessi: sono questi ultimi a dire la verità latente in ogni testo, la sua propensione al rinvio, al gioco delle differenze. Il testo débordant è fatto delle relazioni con l’alterità testuale: perciò è sempre incompleto. La sua identità è differenza, e i rapporti differenziali sono infiniti. A rigore, per Derrida non esiste un non-rapporto, e se un messaggio può perdersi – se è possibile che una lettera non arrivi a destinazione -, ciò si spiega con il proliferare dei rapporti, e non con l’esistenza di limiti.

Ci troviamo di fronte, con una certa sorpresa, a una nuova forma di contestualismo, per cui il testo si dissolve nell’intertestualità. Sbaglia chi crede che il decostruzionismo sia affine al close reading: lo sguardo derridiano prende spunto da un elemento o da una porzione del testo, ma per scivolare rapidamente verso altri testi.64 Diversamente dal contestualismo dei cultural studies, esso prescinde dalla situazione storica in cui il testo è stato prodotto ma solo per inserirlo in un contesto sterminato, in un orizzonte che si dilata continuamente.

Si rinuncia così alla visione offerta dalle estetiche conflittuali: si torna a un’estetica irenica e pre-nietzscheana. Si rinuncia all’analisi degli “anelli necessari dello stile” (Proust). Il testo non è più un labirinto di nessi, composti da forze agoniste, ma è un campo di associazioni. Questa è la pratica della decostruzione: l’esaltazione dei rinvii e delle differenze conduce, di fatto, a un’inflazione delle somiglianze.

Mi limito a un esempio, relativo a un testo breve e quindi facilmente verificabile: in Le facteur de la vérité, un autentico sottisier antilacaniano in cui viene sferrato un attacco a dir poco maligno contro la psicoanalisi, Derrida propone la sua interpretazione di The Purloined Letter. O meglio, propone un’analisi intertestuale dei tre racconti che formano la trilogia di Dupin, valorizzando punti di passaggio e similarità. Così i racconti dell’intelligenza, come li abbiamo chiamati, dove si manifesta l’antagonismo (o se si vuole, la “differenza” tra stili di pensiero eterogenei), diventano un luogo dove i doppi si rincorrono e si sfidano: uno spazio omogeneo, infine riportato all’Edipo e al Fallo. E il conflitto tra registri, e anche tra regimi all’interno del Simbolico, che caratterizza The Purloined Letter, ma assai meno gli altri due racconti, viene totalmente cancellato.

Ho affermato che Le facteur de la vérité è un contenitore di sciocchezze: il giudizio può suonare troppo severo. E tuttavia qui siamo di fronte a un radicale conflitto tra interpretazioni: non si può dare ragione contemporaneamente a Lacan e a Derrida. In questo duello metodologico, occorre rendersi conto che le principali critiche formulate da Derrida sono false, cioè prive di qualsiasi sostegno sul piano filologico, sia nei riguardi di Poe sia nei riguardi di Lacan. Consideriamo almeno la tesi decisiva: secondo Derrida, il personaggio di Dupin “come tutti i personaggi, nella e al di fuori della narrazione, occupa via via tutti i posti”.65 Egli aggiunge subito dopo: “Abbiamo visto che tutti i personaggi della Lettera rubata, in particolare quelli del «dramma reale”, compreso Dupin, occupavano successivamente e strutturalmente tutte le posizioni (…). Ogni posizione si identifica con l’altra (…) Ne risulta quindi compromessa la distinzione tra i tre sguardi proposta nel Seminario”.66 E’ sufficiente tornare per un attimo allo schema delineato nel par. 9 per rendersi conto che queste affermazioni sono prive di fondamento: ci sono personaggi incollati al loro posto, cioè a uno soltanto dei registri (e più precisamente a uno dei regimi del Simbolico), come il Re e la polizia (chiusi nel separativo) ma anche la Regina (che appartiene al confusivo, alla logica dell’Immaginario);67 questi sono personaggi semplici. Semplici e rigidi, portatori di un solo modo di guardare e di pensare. Per contro, il ministro D. e Dupin sono personaggi complessi, in quanto flessibili, in grado di scivolare da un registro all’altro: l’articolazione dei registri che essi sanno interpretare, o da cui sono catturati, determina l’ampiezza del loro destino. Infine, Dupin non occupa mai la posizione del cieco, diversamente dal Narratore, la cui inferiorità intellettuale non ha bisogno di essere sottolineata, e che per Derrida invece sarebbe un doppio di Dupin.68

Che questo saggio di Derrida abbia potuto incontrare notevole successo è la prova di quanto incerta e fallibile sia la ricerca e la costruzione di modelli per l’analisi. Vale la pena di ricordare che questo saggio ha suscitato l’entusiasmo della critica femminista soprattutto per l’attacco al fallologocentrismo, cioè al primato del Fallo come presunto principio-guida del Seminario lacaniano. Secondo Derrida infatti – e qui la sua cecità e il suo intento mistificatorio raggiungono il culmine -, per Lacan (come per Marie Bonaparte!) “la castrazione della donna (della madre) è il senso ultimo, ciò che vuol dire La lettera rubata”.69 Dovrebbe essere evidente che per le estetiche conflittuali, e per ogni conflictual reading, non esiste il senso ultimo di un testo, ma solo l’intreccio agonistico degli stili.

Non intendo proporre una liquidazione dell’intero pensiero di Derrida.70 Tuttavia, dopo aver indicato alcune conquiste irrinunciabili per la teoria della letteratura, non posso non ribadire i limiti delle sue proposte, gli errori che non andrebbero più ripetuti:

- il logocentrismo va inteso non semplicemente come il primato dell’Uno, bensì come il primato della coppia “uno/molteplice”. Perciò il rovesciamento della prima categoria a favore della seconda non cambia la cornice di riferimento, ripropone il medesimo spazio logico;

- subordinare l’analisi di un testo all’analisi intertestuale equivale a dissolvere non solo l’autonomia e la chiusura, ma anche la complessità. Dal punto di vista metodologico, questo è il grande errore di Derrida. Perciò il suo slogan andrebbe rovesciato. Si dovrebbe dire che “c’è sempre un fuori testo”, il che non implica alcun primato del contesto storico, bensì il rapporto tra artefatto e oggetto virtuale (l’attività dell’interpretazione);

- le interpretazioni di un testo sono infinite? No, infinita è la doxa, non l’interpretazione.

11. L’incontro con i classiciFemminilità e flessibilità.

A ciascuno di noi è capitato di leggere alcuni classici della letteratura durante la propria adolescenza, e al fuori dei programmi scolastici; e ciascuno di noi ricorderà facilmente le emozioni che alcune opere hanno suscitato in lui. In effetti leggere Dante, Shakespeare o Dostoevskij quando si è ancora quasi dei ragazzini è un’esperienza indimenticabile. In nessuno di questi casi le conoscenze contestuali hanno svolto un ruolo importante: nel caso di Dante ci si aiuta con le note, certamente; ma si tratta di un sussidio minimo, che svanisce non appena si leggono i versi meravigliosi del canto di Paolo e Francesca, ecc. Quanto a Dostoevskij, che cosa sa un adolescente della Russia zarista? E che cosa sapevamo dell’Argentina quando abbiamo scoperto Borges? Credo che tra le definizioni della letteratura, dell’arte – e più in generale della bellezza – dovrebbe trovare posto anche questa formulazione: l’arte è ciò che piace senza contesto.

Dunque la letteratura è la maggiore smentita al contestualismo, proprio perché è possibile, in linea di principio, incontrare un’opera, e comprendere molto di essa sin dalla prima lettura, vivere un’esperienza emotiva e intellettuale profonda, senza conoscere quasi per nulla il contesto genetico (e neanche quello della ricezione, vale a dire le reazioni di altri lettori reali).

Si potrebbe senza dubbio obiettare che non c’è bisogno neanche della teoria, per apprezzare la bellezza di un’opera. In effetti è così: la teoria non è una porta d’ingresso obbligata. D’altronde l’umanità ha vissuto per molti secoli ignorando le leggi fondamentali della fisica e della biologia: negheremo allora il valore conoscitivo di queste scienze, e i progressi che hanno fatto compiere?

La teoria della letteratura offre conoscenze irrinunciabili, per diversi motivi:

- rende possibile un’esperienza estetica nuova e più ricca di quella spontanea. Offre agli adulti la possibilità di non avere la medesima esperienza che hanno avuto quand’erano adolescenti. Per contro, gli studi contestuali possono svolgere solo un ruolo ausiliario. Aggiungono informazioni, anche preziose, ma non sono in grado di provocare una nuova esperienza mentale.

- elimina le barriere che impedivano di comprendere opere meno facilmente accessibili: nella nostra adolescenza, non eravamo in grado di amare tutti i classici; solamente con alcuni di essi si stabiliva un’immediata sintonia. La teoria ci permette di entrare nel “labirinto di nessi” di ogni testo, e di provare piacere;

- quando l’ostacolo all’esperienza estetica consiste in differenze culturali molto marcate, la teoria consente di superare una distanza a prima vista invalicabile. Ad esempio, perché dovremmo leggere un romanzo che racconta la storia di una donna condannata per adulterio, esposta alla pubblica riprovazione, e costretta a portare cucita sul petto una lettera, una “A”, come emblema della sua colpa? La società in cui questa vicenda è ambientata non è forse lontanissima dalla nostra? Come immedesimarsi nei tormenti di un giovane ecclesiastico, che ha avuto una relazione con questa donna? Oggi i rapporti sessuali tra adulti consenzienti sono totalmente decolpevolizzati: e la vicenda narrata in The Scarlet Letter, se giudicata dal punto di vista dei nostri costumi, sembra appartenere a un altro pianeta.

Eppure il romanzo di Hawthorne viene considerato un classico, e dunque un’opera con un significato e un valore “universali”, se vogliamo utilizzare il linguaggio della vecchia critica e della vecchia estetica. In che cosa consisterebbe l’universalità della letteratura? Nella proposta di valori che tutti dovrebbero condividere? Forse sì, in alcuni casi: per esempio Antigone, se interpretata come portatrice di una legge superiore al diritto positivo, insomma di quelli che oggi chiamiamo “diritti umani”. Né Hegel né Lacan sarebbero però d’accordo su questa interpretazione. Inoltre: era necessario un personaggio come Antigone per enunciare principi etici molto semplici, come il diritto di ciascuno a ricevere i riti funebri? Abbiamo ancora bisogno di questo personaggio? Non basterebbe oggi l’eroe di un telefilm? Se la funzione della letteratura fosse quella di suscitare empatia, in particolare con personaggi che soffrono ingiustamente, come ritiene Marta Nussbaum,71 non si vede perché non limitarsi a narrazioni più semplici e più vicine alla società attuale. In che consisterebbe l’universalità di Amleto? Nella necessità di vendicare un delitto impunito? Tuttavia, come ha osservato Harold Bloom, per vendicare un padre basterebbe un Fortebraccio qualsiasi: “Ci chiediamo dunque che cosa possa aver spinto Shakespeare a istituire una tale sproporzione (this amazing disproportion) tra personaggio e impresa”.72 Infine, dovremmo forse considerare come modelli positivi altri eroi della tragedia greca, come Medea, o del romanzo europeo, come Lucien de Rubempré?73

C’è un ultimo e fondamentale motivo per abbandonare la nozione di “universalità”, anche in relazione ai personaggi più nobili. In quanto portatore di valori, un personaggio viene inevitabilmente inteso come qualcuno che esemplifica e incarna proprietà coerenti con quei valori. Il punto è questo: è possibile definire in maniera soddisfacente un’identità complessa (non importa se reale o finzionale), mettendo l’accento sulle sue proprietà? La filosofia tradizionale (che alcuni chiamano logocentrismo) affidava un ruolo privilegiato alle definizioni essenzialiste: per Aristotele, l’uomo è un animale razionale, in ciò risiede la sua differenza specifica. Dovrebbe essere evidente la povertà delle definizioni di questo tipo quando si tenta di utilizzarle per i personaggi della letteratura – ma anche per gli esseri umani reali.

Gli esseri umani non sono enti “proprietari”, cioè non sono definibili in maniera adeguata mediante un elenco più o meno ampio di proprietà. La loro identità dipende principalmente dalle relazioni e dai modi. Per Heidegger, gli esseri umani vanno pensati dal punto di vista delle possibilità.74 Ritengo che questa sia una tesi irrinunciabile, che va estesa senza dubbio alla letteratura: le identità che incontriamo nelle opere letterarie appartenenti al tempo grande sono interpretazioni di possibilità esistenziali.

La letteratura offre conoscenze, e non lezioncine di etica e inviti all’empatia. La letteratura indaga e raffigura quel conflitto che noi stessi siamo, nelle molte versioni che può assumere. Ma il nucleo fondamentale del conflitto vede impegnati sempre le stesse forze, la rigidità e la flessibilità. Se fossimo enti rigidi, le definizioni essenzialiste basterebbero a caratterizzarci; poiché siamo flessibili, nessuna definizione ci può definire, a meno che non assuma la forma del paradosso, del legame tra gli opposti. Talvolta il paradosso viene concentrato in un aggettivo: così per Sofocle “niente è più deinòs dell’uomo”.75 Non lasciamoci ingannare dalle apparenze grammaticali: deinòs non indica una proprietà, ma una condizione instabile e lacerata, un’inquietudine che spinge verso gli estremi, e talvolta verso entrambi gli estremi.

L’essere più flessibile è anche il più inquietante. Non ci sono garanzie per la sua identità, non ci sono vie di salvezza prestabilite. Se la rigidità fosse sempre cattiva e la flessibilità sempre buona, se potessimo irrigidire il conflitto in un’antitesi, la nostra esistenza sarebbe infinitamente più semplice. Basterebbe affidarsi alla fluidità della differenza, promuovere l’alterità. Differenza e alterità sono diventate tra l’altro parole d’ordine del femminismo, e qui le vorrei considerare anzitutto come indicazioni metodologiche. Le donne sono - le più differenti? Ecco una definizione non essenzialista, che contiene certamente un po’ di verità. Nella prospettiva di questo saggio, esse sono le più flessibili (“Flessibilità, il tuo nome è donna”, potremmo dire parafrasando Shakespeare). Sarebbe semplicistico opporre la rigidità maschile alla flessibilità femminile, perché il conflitto caratterizza senza distinzioni la condizione umana. Nondimeno, la vocazione alla flessibilità è più accentuata sul versante femminile: con tutti i pericoli che essa comporta, perché il modo d’essere “oltrepassante” è il più nobile, ma anche il più esposto al fallimento. Come si è già detto, la spinta a non-coincidere può sfociare in alterità definitive, o in molteplicità che disperdono e paralizzano la volontà di costruire se stessi. Un rapporto confusivo con un modello può condurre il singolo oltre i confini limitati della sua esistenza: è quanto avviene nel caso di Emma Bovary. Ma le influencer di Emma erano figure femminili che sognavano l’assoluto e, per quanto stereotipate, hanno saputo trasmetterle il sogno di una vita superiore. Per contro, le influencer oggi più popolari sul web sono entità mimetiche che banalizzano l’esistenza: ciò non impedisce a molte donne di identificarsi con loro, e di sperimentare il desiderio di essere nella maniera più conformista.

Quando la realtà in cui viviamo produce senza sosta effetti di inaridimento, quando la vita viene rimpicciolita – a dispetto delle tecnologie che ci promettono una “realtà aumentata” -, a quali forze, a quali possibilità ci possiamo affidare? La letteratura è una di queste forze: essa immerge la realtà effettuale nelle acque del possibile, dilata gli orizzonti del presente, ci fa penetrare in “possibilità aumentate” in quanto mostra il conflitto tra possibilità inferiori e superiori.

Sceglierò come ultimo esempio The Scarlet Letter, un romanzo (come si è osservato poco fa) ambientato in una cultura molto diversa dalla nostra, tanto da far pensare che esso appartenga irrimediabilmente al passato. Questa può essere la sensazione immediata di molti lettori: e non saranno certo gli studi culturali a contrastare la pigrizia, e ad eliminare le difficoltà, di chi vorrebbe ritrovarsi in mondi più familiari. Eppure il romanzo di Hawthorne è più vivo di mille romanzi contemporanei, ambientati nella contemporaneità.

Come è possibile operare una trasposizione di mondi, tale da farci comprendere la densità e la ricchezza di quest’opera? Non basta empatizzare con la povera Hester Prynne: bisogna interpretare. E una buona interpretazione può scaturire solo da un conflictual reading. Con questa espressione non si indica semplicemente la percezione di conflitti vistosi, come quelli tra generazioni (tra padri e figli, ecc.) o tra classi sociali, quei conflitti che anche il critico meno raffinato è in grado di cogliere e di commentare. L’oggetto di indagine non sono i conflitti a cui si limita il senso comune, e che vengono privilegiati da uno sguardo sociologico o “culturale”.

Ovviamente non posso proporre qui un’interpretazione adeguata, ma credo di poter indicare una prospettiva, da sviluppare in altra sede. C’è una domanda ineludibile, e non meno importante di quelle dei Formalisti russi: il protagonista del testo che intendiamo analizzare è stato fedele al suo desiderio? 76 Per non fraintendere questa domanda, è necessario ricordare che (a) il desiderio nasce dalla nostra plasticità, perciò non esiste un nucleo originario a cui ritornare, non esiste una zavorra che potrebbe stabilizzare in modo permanente la nostra identità; (b) Il desiderio è sempre enigmatico: è una “x” da interpretare; di conseguenza, la fedeltà al proprio desiderio non va intesa banalmente come la giustificazione di ogni impulso immediato. Piuttosto, questo principio invita a riflettere sulle proprie possibilità, nella consapevolezza di dover guardare al futuro e non al passato: come nel caso di un’opera d’arte, è soltanto alla fine che si può giudicare della sua nobiltà e della sua bellezza.

Hester Prynne è stata fedele al suo desiderio? La sua identità corrisponde a un modo d’essere oltrepassante? Questa seconda formulazione chiarisce la prima. Il romanzo di Hawthorne mette in scena il conflitto tra la volontà di una comunità puritana, che intende inchiodare Hester alla sua colpa, sino a farne un emblema allegorico, e la resistenza vittoriosamente esercitata da una donna condannata alla solitudine, ma che nella solitudine ha trovato le risorse per andare al di là degli stereotipi del suo tempo: “For years past she had looked from this estranged point of view at human institutions, and whatever priests or legislators had established; criticizing all with hardly more reverence than the Indian would feel for the clerical band, the judicial robe, the pillory, the gallows, the fireside, or the church … The scarlet letter was her passport into regions where other women dared not tread”.77 Tuttavia, se si limitasse a respingere la severità della concezione puritana per rivendicare una libertà che oggi è del tutto normale, Hester esemplificherebbe la seconda delle “tre metamorfosi dello spirito”, indicate da Nietzsche all’inizio dello Zarathustra: avrebbe superato la condizione del cammello, portatore di valori prestabiliti (nel suo caso, essere la portatrice della lettera “A”), esprimerebbe la ribellione e nuovi valori (la figura del leone). A ben vedere, il personaggio di Hawthorne è molto più complesso perché non propone una nuova etica della Legge, più tollerante, bensì un’etica della forma: e da questo punto di vista è un personaggio nietzscheano. L’etica della forma non può fondarsi su regole impersonali, ma soltanto sull’interpretazione delle possibilità a cui un individuo è stato oscuramente consegnato, in cui è stato gettato (direbbe Heidegger), e analizzando le quali potrà conquistare la propria singolarità.

 

Il primo fondamentale conflitto in The Scarlet letter oppone due concezioni dell’etica. Il secondo conflitto si svolge nella dimensione dell’allegoria, e dunque del linguaggio. A questo proposito, che cosa impariamo dalla letteratura se non, più di tutto, che il linguaggio è diviso? Si ricordi lo schema del par. 9, la pioggia degli stili: grazie alle scissioni e al conflitto, siamo in grado di comprendere meglio anche gli intrecci. Comunque, se il linguaggio è diviso, potrebbe l’allegoria restare indivisa? Certamente no. Ma qual è la vera alternativa, che dobbiamo esaminare? La differenza tra un’allegoria rigida e univoca, basata su convenzioni e stereotipi (poco importa se tramandati o meno), e un’allegoria polisemica, eventualmente doxastica, che si offre cioè a qualunque decodifica? Ancora una volta, rifiutiamo l’enfatizzazione ingenua del molteplice, da cui consegue la moltiplicazione del rigido (e non la flessibilità !), e il proliferare di opinioni non selezionate.

I puritani vorrebbero ridurre Hester all’emblema di una colpa: vorrebbero imporle una restrizione sineddochica, come quelle che riscontriamo nelle raffigurazioni dei Vizi e delle Virtù. Poiché non si può modificare Hester fisicamente, far corrispondere una donna a un concetto, come avrebbe potuto fare un pittore medioevale, la si costringe a cucire sul suo vestito un significante che non ha nulla di misterioso. E’ a questa restrizione che Hester si ribella. La sua lotta riguarda la dimensione linguistica, e il potere, che il linguaggio detiene, di incidersi sulla carne. La lettera brucia come un marchio. E tuttavia, pur accettando l’identificazione con la lettera, Hester ne modifica il senso e la funzione: da quel significante codificato fa scaturire nuove energie, nuove possibilità. Riesce a fare della sua psiche un campo di battaglia tra due atteggiamenti allegorici.

Si noti l’intreccio tra problema dell’identità e linguaggio. Hester rifiuta un’identificazione rigida e sineddochica, non semplicemente a favore della polisemia (la “A” significherà Able, ecc.), bensì della metafora. Abbiamo detto più volte che un’identità complessa non è riducibile a un elenco di proprietà (e neanche a un insieme di parti: concezione mereologica), ma va analizzata nelle relazioni che la costituiscono. Dobbiamo tralasciare i rapporti con Dimmesdale e con Chillingworth: consideriamo quello con Pearl. Madre e figlia si metaforizzano reciprocamente, in un rapporto di alleanza che è la principale fonte di salvezza per Hester Prynne. Pearl è un’identità instabile, che oscilla tra forma e assenza di forma: questa bambina, che è una pluralità di bambine,78 esprime l’energia inquieta del principio di metamorfosi, e dunque la necessità di identificarsi con un’alterità. L’instabilità assoluta sarebbe insostenibile, siamo condannati ad assumere qualche forma. La prima a offrirsi allo sguardo di Pearl è la lettera scarlatta sul petto di Hester.79 Questa prima identificazione è seguita da numerose altre: la bambina è attratta dagli specchi e dai riflessi, da superfici lucide che le rinviano la sua immagine: un’armatura lucente, il ruscello nella foresta, e sempre, inesorabilmente, la lettera che dà un’identità alla madre, tanto che, quando Hester se la toglie, Pearl esige che la “A” torni al suo posto. Poiché appartiene più all’Immaginario che al Simbolico, Pearl è disobbediente e irriverente. Più ancora di lei lo è Hester, che ribellandosi ha l’occasione di muovere la sua mente in spazi sconosciuti; ma l’alleanza con la figlia è decisiva. Identificandosi con lei, Hester ne assorbe la disordinata forza vitale. Pearl è la lettera stessa: “See ye not, she is the scarlet letter, only capable of being loved, and so endowed with a million-fold the power of retribution for my sin?”.80 La bambina rovescia la direzione dell’allegoria e la sua univocità: se lo sguardo dell’allegorismo ufficiale legge Pearl attraverso la lettera scarlatta, noi possiamo leggere la lettera attraverso Pearl, e i suoi tratti: mobilità, polimorfismo, mescolanza di innocenza e perversità, ecc.

Ma c’è ancora un conflitto da far emergere, quello tra intelligenza e stupidità. Mentre i filosofi hanno quasi sempre aggirato il problema della bêtise, la letteratura non ha forse mai potuto ignorarlo. Gli errori e le loro cause – come disconoscerne l’importanza nelle narrazioni letterarie? Nella tragedia greca, il termine amartìa indica non tanto la colpa etica quanto una cecità intellettuale. Mentre siamo restii a giudicare l’errore dell’eroe tragico come la conseguenza di un deficit intellettuale, poiché il suo errore è sovente “necessario” (in un senso che bisognerebbe precisare), non abbiamo dubbi nel riconoscere la stupidità nella commedia o nel romanzo. La letteratura del tempo grande offre conoscenze extramorali: non s’inchina mai al dispositivo etico, alle sue ovvietà e alla sua rigidità, e non esita a denunciare la stupidità del Bene. In The Scarlet Letter non incontriamo solo l’audacia mentale di Hester, ma anche l’intelletto perverso di Chillingworth. Sappiamo a quali torture egli sottopone Dimmesdale, in cui intuisce la persona amata da Hester, e che già soffre per il senso di colpa. Il romanzo di Hawthorne mostra la sconfortante propensione alla bêtise, che caratterizza la condizione umana. E’ la società stessa che ha condannato l’adultera, sono gli amici del sacerdote ammirato da tutti per la sapienza teologica e il fervore ascetico, che lo consegnano a Chillingworth. Il continuo peggioramento della sua salute fa sì che venga accettato questo suggerimento: “After a time, at a hint from Roger Chllingworth, the friends of Mr. Dimmesdale effected an arrangement by which the two were lodged in the same house; so that every ebb and flow of the minister’s life-tide might pass under the eye of his anxious and attached physician. There was much joy throughout the town, when this great desirable object was attained”.81 La cecità del bene – ma è davvero il bene? – raggiunge il suo apice. Adesso la tigre deve soltanto allungare i suoi artigli. Lo farà solo dopo aver rovistato a lungo, spinta da una terribile bramosia, nella psiche della sua vittima.

 

12. Breve conclusione.

Il mio manifesto si rivolge non solo ai colleghi ma anche agli studenti: spero di aver offerto qualcosa di utile per chi inizia il proprio percorso di formazione, e per chiunque inizi a rendersi conto di quanto inadeguato sia l’insegnamento universitario che privilegia gli studi contestuali, e comunque non li colloca nella posizione di “studi ausiliari”. Non vorrei però che la critica al contestualismo venisse intesa come una svalutazione totale dell’approccio storico: più precisamente, credo che il punto di vista storico sia legittimo quando non si contrappone alla teoria; e viceversa, la teoria come viene qui intesa tende a includere, e certamente non a escludere, la storia.

Inoltre, il primato del conflictual reading non mira a sminuire i risultati del close reading: l’attenzione allo stile stata già elogiata. Quanto alle varie forme di distant reading, rimangono sicuramente apprezzabili le ricostruzioni di sistemi soggiacenti, tentate dalla semiotica (si pensi ad esempio alla semiotica della cultura proposta da Lotman). La distanza rispetto al testo può variare, così come la distanza fisica dello spettatore che osserva un quadro: ma soltanto lo sguardo in grado di penetrare nell’intreccio conflittuale degli stili potrà introdurre alla ricchezza del testo, alle sue virtualità.

Infine, e per quanto la mia affermazione possa risultare sorprendente in un manifesto a favore della teoria, vorrei esprimere ancora una volta tutta la mia ammirazione agli autori che hanno saputo proporre letture raffinate dei testi senza appoggiarsi a una strumentazione esplicita. Si tratta di casi rari, la cui possibilità nasce peraltro da una scelta implicita, il primato dello stile, e dalla fascinazione per ciò che è essenziale nell’esperienza estetica, vale a dire, per citare Wilde, dalla consapevolezza che “Books are well written, or badly written. That is all”.82

Non c’è nulla di rigidamente cartesiano nella nozione di “metodo” che è stata sin qui utilizzata. Vi è però la proposta di un percorso di formazione che l’Università dovrebbe offrire, e che riconosce l’importanza della teoria e delle tecniche, dei problemi e degli strumenti di analisi.

Ho cercato di formulare le mie tesi nella maniera più chiara possibile, e non solo per renderle più facilmente accessibili. Oggi una scrittura ermetica e allusiva, come quella che è stata praticata nel secolo scorso, non è proponibile a lettori in genere assai più impazienti; ma questo non è l’unico motivo. Bisogna riconoscere i limiti di una scrittura ermetica, anche di quella più fascinosa, destinata a diventare un ostacolo per un’analisi più rigorosa e anche più creativa. Persino i grandi autori del Novecento sono incespicati più volte a causa delle stringhe che allacciavano senza distinzione le loro calzature. La precisione e l’arte delle distinzioni sembrano perciò scelte necessarie, e feconde.

Sono consapevole della sinteticità del mio discorso: mi auguro tuttavia di aver trovato la giusta misura per far comprendere quanto preziosa e appassionante sia la teoria della letteratura. Nessuna delle tesi che ho enunciato mi sembra trascurabile.

 

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1 Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, a cura di P. Clarac e Y. Sandre, 1971.

2 Cit. in V. Erlich, Russian Formalism, Mouton – The Hague – Paris – New York, 1955; Second, revised Edition 1965, p. 241. Trad. it. Bompiani, Milano, p. 261.

3 Cito a memoria.

4 “Un giorno Joyce disse a Frank Budgen che aveva lavorato tutto il giorno intorno a una frase di Ulysses: “Profumo di abbracci tutto lo assalì. Con affamata carne oscuramente, egli muto bramava adorare”. Quando gli fu chiesto se cercasse il mot juste, Joyce rispose che già aveva trovato le parole. Quello che cercava era l’adatta successione delle parole”. W. Y. Tindall, James Joyce. His way of interpreting the modern world, 1950, p.96 (trad. it. Bompiani, Milano 1964, p. 156).

5 Proust ha detto che la verità in letteratura inizia quando lo scrittore prende due oggetti diversi e li unisce tramite “les anneaux nécessaires d’un beau style” (Le temps retrouvé, in Marcel Proust, A la recherche du temps perdu, a cura di P. Clarac e A. Ferré, Gallimard, Paris 1954, vol. III, p. 889). Trad. it. “gli anelli necessari dello stile”, Il tempo ritrovato, Einaudi, Torino 1978, p. 221.

6 Per Saussure la langue era un sistema virtuale e non solo un insieme di abitudini collettive: soltanto questa seconda definizione giustifica il concetto di codice. E soprattutto la langue è “il regno delle articolazioni”: questa è la più innovativa tra le definizioni di Saussure (Cfr. Corso di linguistica generale, 1917, p. 137).

7 “La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali” (1936), in J. Mukařovský, Il significato dell’estetica, trad. it. Einaudi, Torino 1973, p. 96.

8 M. Bachtin, Reply to a question by ‘Noyvj mir’ (1970); trad. it. Risposta a una domanda del ‘Novyj Mir’ (1970) in L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988.

9 R. Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1970.

10 R. Jakobson e C. Lévi-Strauss, «Les chats» de Charles Baudelaire, 1962 (ora in Questions de poétique, Seuil, Paris 1973).

11 Questa deformazione ideologica accompagna da sempre i movimenti politici e la cultura di sinistra. Eppure, già nel Manifesto del 1848 Marx ed Engels criticavano “la rozza tendenza a tutto eguagliare” (“eine rohe Gleichmacherei”, cap. 3).

 

12 Per un’introduzione a questa prospettiva mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, “Identity exists only in its modes The flexible subject and the interpretative mind against semi-cognitive “sciences”, in “Comparatismi” (rivista online), 1, 2016.

13 Wolfgang Goethe, Faust (Studio, vv. 1692-1698).

14Verweile doch! du bist so schön!” (W. Goethe, Faust, I, v. 1699).

15 “a parer mio Faust dovrebbe essere condotto nella vita attiva…” (Schiller a Goethe, 26 giugno 1797).

16 Wolfgang Goethe, Faust, Prima Parte (Giornata cupa – campagna).

17 J. P. Eckermann, Colloqui con il Goethe (martedì, 11 marzo 1828), Utet, volume primo, pp. 499-500.

18 Christopher Marlowe, Doctor Faustus, I, 3. Trad.it. “Con lui [Mefistofele] sarò imperatore del mondo, lancerò un ponte sull’aria e passerò l’oceano con il mio esercito, salderò i monti intorno al mare d’Africa …”, Mondadori, p. 53.

19 Mi riferisco al concetto di “appoggio” (Anlehnung) nel senso utilizzato da Freud: ad esempio, le pulsioni sessuali, più elastiche, si appoggiano alle pulsioni di autoconservazione, più rigide. La vera flessibilità non è mai “pura”: essa si serve della rigidità a proprio vantaggio.

20 “l’homme, cet être flexible” (Montesquieu, Prefazione a De l’esprit des lois, 1748).

21 M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, 1963; trad. it. Einaudi, Torino 1968, pp. 166-167.

22 In proposito si rinvia alle straordinarie lezioni di Heidegger, nel corso universitario “La volontà di potenza come arte”. Cfr. M. Heidegger, Nietzsche (1961).

23 G. Lukács, Goethe e il suo tempo, in F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994, p. 25.

24 W. Sombart, Il borghese (1913), cit. a p. 29.

25 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, cit., p. 7.

26 Mi permetto di rinviare al capitolo “Il principio di non-coincidenza in Michail Bakhtin” in Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, 2006.

27 Oltre alla confusione tra polifonia e multifonia, il saggio di Franco Moretti contiene affermazioni a dir poco sconcertanti. Ad esempio: “Impossibile decidere se Mefisto sia l’alleato di Faust, o il suo peggior avversario” (Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, p. 24), il che equivale a dichiarare che non si può capire nulla del Faust. E ancora: “duplicità costitutiva dell’opera, e che permette a Faust di riversare sul suo triste compagno la responsabilità ultima delle proprie azioni […] Geniale, terribile trovata goethiana: la retorica dell’innocenza” (ibidem). Una tesi gratuita e insostenibile, come si è avuto modo di accennare.

28 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, cit., p.53.

29 Ibid., p. 56.

30 Si pensi ad Alien (1979), a La mummia (1999), a Blade (1998), e ai rispettivi sequel.

31 Questo è l’esempio più evidente dell’indebolimento causato dal molteplice: ci sono casi meglio mascherati, come nel caso di Derrida, che mortifica la complessità dei singoli testi facendo proliferare le somiglianze intertestuali (cfr. il par. 10). Quanto a Mahler, citato da Moretti come auctoritas, il suo entusiasmo per un effetto di polifonia involontaria (Opere mondo, p. 55) si riferisce a interazioni sincroniche, esattamente ciò che manca nelle scene multifoniche e cumulative del Faust. Lo scrittore che mira alla polifonia deve introdurre tensioni sincroniche nel flusso narrativo.

32 Riporto per intero il passo da cui ho tratto la citazione: “Dostoevskij è l’uomo che più di chiunque altro ha creato la prosa moderna e l’ha sviluppata fino ai risultati di oggi. E’ stata la sua potenzialità esplosiva a distruggere il romanzo vittoriano con le sue fanciulle smorfiose e i suoi ben ordinati luoghi comuni: libri che erano senza immaginazione e senza violenza. So che qualcuno pensa che fosse bizzarro e persino folle, ma i motivi della sua opera, violenza e desiderio, sono il respiro stesso della letteratura” (cfr. A. Power, Conversations with James Joyce, 1974; trad. it. J. Joyce, Scrivere pericolosamente, Minimum fax, 2011, p. 161).

33 Cfr. J. Lacan, Seminario VIII. Il transfert (1960-1961).

34 Mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Perché bisogna riscrivere Lacan. A partire dalla letteratura (cioè dalla flessibilità), in Enthymema (rivista online), 15, 2016, pp. 134-162.

35 Oggi disponiamo non soltanto della maggior parte dei Seminari – i primi 8 sono certamente più accessibili degli Écrits -, ma anche di testi che presentano il pensiero di Lacan con notevole chiarezza: vanno elogiati in particolare The Lacanian Subject: Between Language and Jouissance e A Clinical Introduction to Lacanian Psychoanalysis di Bruce Fink, e la monografia di Massimo Recalcati, Jacques Lacan (in due volumi), Cortina, Milano 2012 e 2016.

36 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17.

37 William Shakespeare, Romeo and Juliet, II, 2, vv. 23-24. Trad. it. “potessi essere il guanto di quella mano, e poter così toccare quella guancia” (Garzanti, Milano 1991).

38 Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1857 (ed. Claudine Gothot-Mersch), Paris: Garnier, 1990, p. 167.

Ma, vedendosi nello specchio, si stupì del suo viso. Mai aveva avuto occhi così grandi, così neri e profondi. Qualcosa d’inafferrabile, diffuso sulla sua persona, la trasfigurava. Si ripeteva: “Ho un amante! Un amante!”, deliziandosi a questo pensiero come a quello di una nuova pubertà sopravvenuta. Avrebbe finalmente posseduto quelle gioie dell’amore, quella febbre di felicità di cui aveva disperato. Entrava in qualche cosa di meraviglioso, dove tutto sarebbe stato passione, estasi, delirio; un’immensità azzurra la circondava, le cime del sentimento brillavano nel suo pensiero, l’esistenza comune le appariva ormai lontana, in basso, nell’ombra, tra i vuoti di quelle alture. Allora ricordò le eroine dei libri che aveva letto, e la legione lirica delle adultere si mise a cantare nella sua memoria con voci di sorelle che l’ammaliavano” (Rizzoli, Milano, p. 157).

39 J. Lacan, Seminario VII. L‘etica della psicoanalisi (1959-1960).

40 S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921).

41 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, 1889.

42 Per un’introduzione all’ontologia heideggeriana, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, The possibility di non-coincidere con se stessi: una lettura di Heidegger come pensatore modale, in Rivista di Psicoanalisi 2015/4, pp. 963-981.

43 Ma è riduttivo considerare Heidegger come il pensatore della differenza ontologica. L’essere per Heidegger è polemos.

44 R. Girard, A Theatre of Envy. William Shakespeare, 1991.

45 Cfr. G. Bottiroli, Shakespeare e il teatro dell’intelligenza. Dagli errori di Bruto a quelli di René Girard, in Metodo. International Studies in Phenomenology and Philosophy", Vol. 6, n. 1 (2018).

46 G. Deleuze, Dualismo, monismo e molteplicità (lezione a Vincennes, 26 marzo 1973).

47 Cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., e Contro il sacrificio, Cortina 2017.

48 Il riferimento è al discorso di Ulisse in Troilus and Cressida (I, 3, 101), valorizzato da Girard (1991, in particolare alle pp. 260-263).

49 E non semplicemente come un indice di incompletezza.

50 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, 1953.

51 Rispetto alle lezioni del Seminario II (1954-1955) in cui si analizza il racconto di Poe, il testo del 1966 è più suggestivo, ma sacrifica alcune osservazioni di grande importanza.

52 R. Barthes, L’activité structuraliste (1963), ora in Essais critiques, 1964.

53 Anche il dibattito successivo all’attacco di Derrida è risultato estremamente povero. Si veda The Purloined Poe. Lacan, Derrida, and Psychoanalytic Reading (edited by J. P. Muller e W. J. Richardson), Johns Hopkins U.P.1988. Nessuno ha capito che il registro del Simbolico va scisso in regimi di senso, o stili di pensiero.

54 Così la definisce Jacques-Alain Miller, uno studioso che ha enormi meriti per quanto riguarda il commento dei testi lacaniani, ma che non hai mai saputo mettere in discussione i limiti di Lacan: al contrario, li ha accentuati. Cfr. Cfr. Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII “Il sinthomo”, trad, it. Astrolabio - Ubaldini, Roma 2006, p. 98. I testi derivano da un corso di Miller (Pièces détachées) tenuto a Parigi nel 2004-2005 e pubblicati in La cause freudienne, nn. 60-61.

55 Edgar A. Poe, The Murders in the Rue Morgue and Other Tales, Penguin, p. 261. Trad. it. “una valutazione inesatta, o meglio nella non-valutazione dell’intelligenza con cui stavano misurandosi” (La lettera rubata, in Racconti, Garzanti, Milano 1972, p. 407).

56 J. Lacan, The Ego in Freud’s Theory and in the Technique of Psychoanalysis. The Seminar, book II (1954-1955), Norton, New York – London 1991, pp. 201-202. Trad.it. “Vedete bene che non può esserci qualcosa di nascosto se non nella dimensione della verità. Nel reale, l’idea stessa di un nascondiglio è delirante – per quanto uno scenda nelle viscere della terra a portare qualcosa, non lo nasconde, poiché se c’è andato lui potete andarci anche voi. Non può essere nascosto che ciò che appartiene all’ordine della verità. E’ la verità che è nascosta, non la lettera. Per i poliziotti, la verità non è importante, per loro c’è solo realtà, ed è per questa ragione che non la trovano” (Seminario II, Einaudi, p. 256).

57 Cfr. G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 261.

58 L’intreccio conflittuale è condizione indispensabile per poter affrontare i problemi dell’ibridazione. Nella mia prospettiva occorre distinguere l’ibridazione tra generi (tra i generi letterari, ma anche tra i sessi, le razze, ecc.) e l’ibridazione tra stili. Quest’ultima è riscontrabile anche in testi che non sono eterogenei dal punto di vista lessicale; dunque in Petrarca, in Racine – e ovviamente nel racconto di Poe che è stato analizzato. Ne consegue una profonda revisione della distinzione, di cui si serve Auerbach, tra Stiltrennung e Stilmischung: anche gli autori della Stiltrennung conoscono (o possono conoscere) l’eterogeneità degli stili di pensiero. Per contro, un’ibridazione che punta soprattutto su differenze di genere offrirà esiti modesti dal punto di vista estetico.

59 J.-A. Miller, L’Essere e l’Uno, corso del 2010-2011, trad.it. in “La psicoanalisi”, 52, 2012, p. 130.

60 J. Derrida, Of Grammatology, trans. by Gayatri Ch. Spivak, Johns Hopkins U.P., Baltimore and London 1974, p. 159. “La sicurezza con la quale il commento considera l’identità a sé del testo, la fiducia con la quale ne ritaglia il contorno, va di pari passo con la tranquilla sicurezza che scavalca il testo verso il suo contenuto presunto, verso il puro significato”; trad. it. Della grammatologia, trad. it. Jaca Book, p. 183.

61 J. Derrida, Parages, 1986; trad. it. Paraggi, Milano 2000, Jaca Book, p.185.

62 “Qui dunque non si tratta di una differenza costituita ma, prima di ogni determinazione di contenuto, del movimento puro che produce la differenza. La traccia (pura) è la dif-ferenza” (Della grammatologia, cit., p. 70).

63 “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” (K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Mursia, Milano 1973, cap. 1).

64 E quando rimane all’interno di un singolo testo, è per compiere movimenti erratici o nomadici, una sorta di “andirivieni”, che non tenta mai – e non è in grado - di cogliere la dimensione strategica dell’opera, la sua flessibilità permanente.

65 J. Derrida, Il fattore della verità, Adelphi, p. 117.

66 Ibid., p. 118.

67 Il confusivo è la logica dell’Immaginario, ed è anche – in quanto regime e non registro – l’Immaginario nel Simbolico.

68 Quanto al ministro D., egli occupa questa posizione solo virtualmente, nel caso in cui, sfidato ad esibire il documento di cui si crede ancora in possesso, egli dovesse insistere nel ricatto. “Thus will he inevitably commit himself, at once, to his political destruction” (p. 269). “Egli dunque andrà incontro, da se stesso, alla sua rovina politica, e in un colpo solo” (p. 416)

69 J. Derrida, Il fattore della verità, cit., p. 60. Per Derrida, la lettura di Marie Bonaparte sarebbe addirittura superiore a quella di Lacan in quanto “mette in rapporto La lettera rubata con altri testi di Poe” (ibidem). Qui il discorso di Derrida raggiunge la soglia della comicità involontaria.

70 Per quanto riguarda gli aspetti più validi del pensiero di Derrida ritengo di dover indicare i saggi di Jonathan Culler, On Deconstruction e di Silvano Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile (con una Prefazione di Derrida). Silvano Petrosino è anche autore di Contro la cultura. La letteratura, per fortuna (Vita e pensiero, Milano 2017).

71 M. Nussbaum, Not for Profit. Why Democracy Needs the Humanities, Princeton U.P., Princeton 2010. Trad. it. Il Mulino, Bologna 2011, pp. 116-117.

72 H. Bloom, “Introduction” a Hamlet (a cura dello stesso Bloom), Chelsea House Publishers, New York – Philadelphia 1990, p. 4.

73 Ciò non ha impedito a Wilde di affermare, tramite un suo personaggio, che “One of the greatest tragedies of my life is the death of Lucien de Rubempré” in Splendeurs et misères des courtisanes (Oscar Wilde, The Decay of Lying, 1891) (“Una delle più grandi tragedie della mia vita è la morte di Lucien de Rubempré”; La decadenza della menzogna, 1891, in Saggi, Mondadori, p. 144).

74 La tesi “Più in alto della realtà (Wirklichkeit) si trova la possibilità” va riferita in maniera eminente agli esseri umani. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, p. 54.

75 Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει”, Sophocle, Antigone, vv. 332-333. Deinós: terrificante, meraviglioso, inquietante.

76 Cfr. J. Lacan, Seminario VII(1959-1960).

77 Nathaniel Hawthorne, The Scarlet Letter, Penguin Classics, 2016, p. 186; trad. it. “Da anni ormai osservava le istituzioni umane, e tutto ciò che preti e legislatori avevano stabilito, da questo remoto punto di osservazione, criticando tutto con un rispetto di poco superiore (…) La lettera scarlatta era stata il suo passaporto per regioni nelle quali altre donne non osavano avventurarsi”,

78 “in this one child there were many children” (cit., p. 84).

79 Ibid., pp. 89-90.

80 Ibid., p. 104. Trad. it. “Non vedete che lei è la lettera scarlatta, che ha in più la capacità di farsi amare, accrescendo la punizione del mio peccato di un milione di volte?”.

81 Ibid., p. 115; trad. it. “gli amici di Mr Dimmesdale si adoperarono perché i due andassero a vivere nella stessa dimora, cosicché l’andirivieni della vita del reverendo potesse passare, come la marea, sotto gli occhi ansiosi e incollati su di lui del medico. Vi fu grande gioia in città quando questo obiettivo desiderato fu infine raggiunto”.

  82 Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, Prefazione.