L’identità esiste soltanto nei suoi modi
Il soggetto flessibile e la mente interpretativa contro le “scienze” semi-cognitive
1. Il gap interpretativo del cognitivismo.
Il dibattito sul Sé, e in particolare sul Sé narrativo, è ampio e variegato; tuttavia – spero di giustificare tra poco un giudizio così perentorio – è per molti aspetti un dibattito lacunoso, incatenato a schematismi antichi e resistenti, che si presentano sovente in forme rinnovate. Come liberarsi da queste limitazioni? Come sviluppare un programma di ricerca realmente nuovo, e adeguato alla complessità dei suoi oggetti? Ecco una prima opzione, di cruciale importanza: una teoria deve spiegare la normalità o anche la ribellione alla normalità, insomma l’eccezione? Qui con il termine eccezione vogliamo indicare entità complesse, e perciò statisticamente rare: entità che, nel campo delle arti, suscitano ammirazione dal punto di vista estetico.
Vale la pena di osservare che molti studiosi ignorano questa opzione, o si illudono di poterla aggirare. Che cosa ne risulta? Una banalizzazione per lo più inconsapevole di tutti i testi che non si lasciano analizzare soltanto da un punto di vista “standardizzante”, e che esigono quell’insieme di operazioni mentali chiamato “interpretazione”. In effetti, uno dei principali limiti del cognitivismo (e degli studi cognitivisti sulla narrazione) va individuato in un vero e proprio gap interpretativo, cioè in una teoria della mente troppo ristretta e in grado di compiere solo operazioni grammaticali o pragmatiche (e comunque soltanto atti di comprensione).
Per quanto riguarda la distinzione tra comprendere e interpretare, prenderò spunto da una riflessione di Wittgenstein. «Se mi si chiede “che ora è?”, in me non ha luogo nessun lavoro di interpretazione (keine Arbeit des Deutens), semplicemente reagisco a quel che vedo e odo. Se uno mi sguaina un coltello in faccia non gli dico: “L’interpreto come una minaccia”» 1. Ciò non esclude però che si possano immaginare contesti in cui lo sguainare un coltello potrebbe essere interpretato come uno scherzo ecc. Non dobbiamo pensare che vi siano enunciati (simboli, immagini) che impongono il modo in cui devono essere intesi, sottraendosi così a ogni ulteriore semantizzazione. «Non che questo simbolo non si possa più interpretare: sono io che non interpreto. Non interpreto perché mi sento perfettamente a mio agio (heimisch) nell’immagine attuale». 2
Propongo alcune considerazioni a partire da questi passi:
- diversamente da quanto sostenuto da alcuni autori (Gadamer, ma anche Davidson), l’interpretazione non è pervasiva. Noi non interpretiamo sempre: in molti casi, anzi, nella maggior parte dei casi, ci appropriamo dei significati secondo la modalità del comprendere. Dunque, l’interpretazione è statisticamente rara: ciò autorizza una teoria della mente a ignorare i processi interpretativi?
- rimarcare la peculiarità dell’interpretazione non implica una visione semplicistica della comprensione. Grazie allo sviluppo della pragmatica, è ormai acquisito che comprendere non è sinonimo di decodificare. In moltissimi casi comprendere è fare inferenze, inferire intenzioni, ecc.;
- ritengo che la distinzione proposta da Wittgenstein vada mantenuta, ma anche rielaborata, distinguendo tra inferenze relativamente semplici, che si esauriscono rapidamente in un contesto, le inferenze pragmatiche (potremmo chiamarle, per intenderci, le inferenze “alla Grice”), e inferenze difficili, che richiedono tempo, che aprono nuove prospettive, ecc. Soltanto queste ultime sono inferenze interpretative: esse si dirigono a un implicito problematico, e tendenzialmente non esauribile.
Facciamo qualche esempio. In un episodio televisivo, un personaggio di nome George Costanza si sente chiedere dalla ragazza con cui è uscito, e con la quale ha trascorso una serata assai piacevole, se vuole salire a prendere un caffè. Egli declina l’invito spiegando che la caffeina non lo fa dormire. Più tardi, tornato a casa, si batte la fronte: “Caffè non voleva dire caffè. Caffè voleva dire sesso!”.3 Insomma, il protagonista di quest’episodio si rende conto tardivamente che la lingua non è soltanto un codice, e che per capire un enunciato non basta decodificare (secondo il modello della comunicazione di Jakobson): occorre fare delle inferenze. Il protagonista di questo aneddoto si rende conto che, limitandosi a intendere la lingua come un codice, si può fare la figura dell’imbecille. Mi pare che questo sia un buon esempio di implicito esauribile.
Consideriamo adesso un altro tipo di implicito, generato da una tecnica che conosciamo come ellissi. Quando leggiamo il King Lear, non possiamo fare a meno – beninteso: se decidiamo di utilizzare tutte le risorse della nostra mente -, di porre a noi stessi queste domande: “perché Lear decide di abdicare? Come interpretare la sua decisione? Come interpretare il comportamento di Cordelia? Che relazione c’è tra la trama principale, che vede come protagonista Lear, e la trama secondaria, che vede come protagonista Gloucester? Perché Edgar tarda a svelare la sua identità al padre? Perché Gloucester se ne va a Dover? Perché il re di Francia non accompagna Cordelia al suo ritorno? Per quale ragione Cordelia deve morire?”.4 Sarebbe impossibile affrontare queste domande senza una grande attenzione al testo in quanto oggetto-di-linguaggio. Ad esempio, nella scena dell’abdicazione, lo strano comportamento di Cordelia non può venire interpretato – ma neanche compreso ! – se si trascura la dimensione retorica.5
Il narrative turn ci sta offrendo novità interessanti: ma contrapporre il narrative turn al linguistic turn, svalutare l’essenzialità della forma linguistica, equivale, almeno nel caso delle opere letterarie, a un regresso imperdonabile. La letteratura ha saputo elaborare trame affascinanti: ma la letteratura non è lo storytelling. Le trame linguisticamente elaborate diventano insipide, se ci si occupa soltanto della costruzione narrativa in senso stretto.
Perciò la mente interpretativa, che analizza l’implicito inesauribile delle opere d’arte – inesauribile in quanto genera nuove interpretazioni che espandono l’opera (una precisazione forse necessaria perché esiste anche l’inesauribilità della vaghezza, della chiacchiera e della noia) -, è molto di più che non la mente cognitiva (e anche della mente fenomenologica). E’ una mente più estesa perché non rinuncia a nessuna delle procedure descritte dalla logica tradizionale, ma si avventura nel territorio del pluralismo logico. Senza dubbio la mente interpretativa si serve di abduzioni: la sua superiorità consiste nell’attingere a una concettualità logica più ampia, e ad una cassetta degli attrezzi più ricca. Un esempio, riprendendo Peirce (e passando dall’ellissi retorica all’ellisse geometrica): l’abduzione di Keplero non sarebbe stata possibile se tra le forme geometriche a disposizione dello scienziato non si fosse trovata quella ellittica, oltre a quella del cerchio. Analogamente, l’analisi dell’identità risulta fortemente impoverita se si percepisce soltanto uno dei suoi modi, quello della coincidenza.
Dobbiamo dunque passare dalla teoria della mente all’ontologia e alla logica.
2. Dall’identità ai modi di identità.
Per discutere a proposito del Sé – scrivono Gallagher e Zahavi -, occorre anzitutto sapere che cos’è il Sé, o almeno che cosa intendono coloro che fanno uso di questo termine:6 un termine ambiguo (la persona? l’Io? Il soggetto?), oggi assai diffuso negli studi sulla narrazione. Io preferisco parlare dell’identità, o del soggetto.
La teoria logico-ontologica dell’identità da me elaborata si fonda su alcune tesi, che, per ovvie ragioni di spazio, dovrò esporre con estrema sinteticità:7
(a) diversamente da quanto ritiene una lunga tradizione, ancor oggi dominante, non esiste “la” logica: l’attività del pensiero è sempre “modalizzata” da uno stile. Dunque, non esiste “la” logica, esistono soltanto stili di pensiero;
(b) bisogna distinguere anzitutto tra due vie – e questa distinzione ci viene mostrata non dalla dea di Parmenide (un filosofo della rigidità), bensì da un’altra dea, Metis, colei che rappresenta la ragione flessibile. Bisogna distinguere la famiglia delle logiche disgiuntive (o separative) da quella delle logiche congiuntive: nell’ambito di queste ultime, si dovrà porre la differenza tra lo stile distintivo e quello confusivo. 8
(c) le differenze tra stili di pensiero possono venire presentate da più punti di vista: qui vorrei indicare anzitutto le conseguenze del pluralismo logico sul concetto di identità. Per le logiche disgiuntive (da Aristotele a Frege, alle logiche post-classiche), l’identità è la relazione che un ente può avere soltanto con se stesso: dunque, A = A. Per le logiche congiuntive, invece, un’identità esiste soltanto grazie alla relazione con almeno un’altra identità: dunque, A = A e non-A. Più esplicitamente: l’identità di A (o del soggetto idem) non esiste anteriormente alla relazione con un soggetto alter.
Non si potrà più parlare di “identità” in generale, cioè da un punto di vista zerostilistico. Siamo passati dall’identità ai modi identità. Coerentemente con (a), (b), (c), distinguiamo tra l’identità nel modo della coincidenza (A = A) e l’identità nel modo della non-coincidenza (A = A e non-A).
3. Quattro punti di vista sull’identità.
La differenza tra modi va tuttavia precisata e ulteriormente sviluppata. La coincidenza con se stessi è stata descritta prevalentemente per mezzo di due concezioni, proprietaria e mereologica:
- concezione proprietaria: un ente (un individuo, non importa se reale o finzionale) è definito da una serie più o meno ampia di proprietà. Questa è la concezione di Aristotele (ad esempio, l’uomo come ‘animale razionale’), e di moltissimi altri autori. Corrisponde al senso comune. Il numero delle proprietà può restare indeterminato – dipende dal grado di accuratezza della nostra descrizione.
Un eccesso di accuratezza può produrre effetti di comicità (volontari o involontari). E’ ciò che avviene, intenzionalmente, nel Portrait of the Artist as a Young Man (1916) di Joyce, quando Stephen elenca così le proprietà di suo padre:
A medical student, an oarsman, a tenor, an amateur actor, a shouting politician, a small landlord, a small investor, a drinker, a good fellow, a story-teller, somebody's secretary, something in a distillery, a tax-gatherer, a bankrupt and at present a praiser of his own past". 9
Quest’elencazione ha un evidente intento derisorio, o scoronante (per usare un termine della concezione carnevalesca del mondo, come Bachtin l’ha formulata). Vale la pena di notare la rilevanza del modo di contare, perché essa cambia la nostra percezione di un oggetto, ma non i limiti logici (logico-formali) di ogni elenco di proprietà. Per quante proprietà io possa nominare, l’individuo di cui sto parlando continua a coincidere con se stesso, cioè resta nello spazio logico della coincidenza (A = A): il padre di Stephen, nella sua molteplicità proprietaria ancora prolungabile, infinitamente prolungabile, è un individuo che non varca i propri confini. Non ha nulla a che vedere con i personaggi che Bachtin aveva in mente – in particolare quelli di Dostoevskij - quando parlava di non-coincidenza.
- concezione mereologica: un individuo è definito dalle parti che lo compongono (e che risulteranno più o meno numerose in base alla nostra volontà di enumerarle). E’ la concezione di Hume, per esempio. Anche questa concezione – sobriamente intesa - corrisponde al senso comune. Ancora una volta, il numero degli elementi dipende da scelte soggettive: ci si può limitare alle zone principali (sistemi, moduli, ecc.) oppure si può adottare uno sguardo micrologico, che enfatizza il molteplice. Possiamo incontrare una versione centripeta, che mantiene l’unità del soggetto, oppure una versione centrifuga, che tende a dissolverlo (tra gli studiosi contemporanei, Dennett e Metzinger).
In ogni caso, va osservato che, anche quando la molteplicità dissolve l’unità (o, se si vuole, anche quando l’unità è soltanto il nome di una molteplicità), si resta nello spazio logico di “A = A”.
Passiamo ora alla dimensione della non-coincidenza:
- concezione relazionale: anche se l’identità è sempre una relazione (e non una proprietà), mi pare legittimo chiamare relazionale soltanto la concezione secondo cui la relazione tra idem e alter è costitutiva dell’identità (di almeno uno dei due soggetti).10 Ciò implica che il soggetto idem sia essenzialmente “plastico”, cioè in grado di assumere una configurazione morfologica solo tramite una forma che egli introietta, e dalla quale viene quindi modellizzato. La plasticità del soggetto è stata affermata da Nietzsche (“L’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato”),11 da Freud, e da altri pensatori (ad esempio Heidegger).
E’ nella psicoanalisi, tuttavia, che troviamo per la prima volta un’elaborazione sufficientemente sistematica della concezione relazionale. Per Freud – o meglio per l’autore della Psicologia delle masse e dell’analisi dell’io (1921) -,12 l’identità è identificazione: più precisamente, l’identità consiste in un insieme di identificazioni.
Propongo questa definizione come punto di partenza: in senso eminente, l’identificazione è un processo in cui un soggetto viene modificato in misura e in maniera decisiva, e in modo solo parzialmente controllabile dalla coscienza, dalla relazione con un altro soggetto. L’altro svolge un ruolo modellizzante. Grazie all’identificazione, un soggetto acquista per la prima volta una forma, oppure si trasforma radicalmente, subisce una metamorfosi. Un esempio nietzscheano: come lo spirito divenne cammello, e poi leone, e poi fanciullo.13
Bisogna distinguere i processi di identificazione in base a diversi tipi e a diversi modi. In questa sede devo limitarmi a qualche precisazione, per evitare gli equivoci più grossolani. Ho parlato di identificazione in senso eminente, perché esistono identificazioni effimere (“usa e getta”), che, anche quando catturano totalmente il soggetto (nella mia terminologia, si tratta di identificazioni confusive), non modificano la sua identità. A ciascuno di noi capita ogni giorno di indentificarsi con personaggi di finzione (il protagonista di un fatto di cronaca, di uno spot, di un film), o con persone reali, senza che questi processi lascino tracce rilevanti sulla nostra personalità: probabilmente confermano – e non mettono minimamente in discussione – ciò che siamo. Niente ci impedisce di usare il termine identificazione anche per questi processi, brevi e inessenziali. Ciò che conta è saper differenziare i tipi e i modi. Credo però che sarebbe opportuno trasporre le distinzioni concettuali in differenze terminologiche, e indicare le identificazioni effimere (e irrilevanti sul piano esistenziale) con il termine immedesimazioni. Esemplificano l’immedesimazione i fenomeni di empatia; e l’empatia non ha conseguenze metamorfiche;14
- concezione modale: il punto di vista modale ispira e governa tutta la teoria che sto presentando, in quanto l’identità risulta sempre modalizzata. Il quarto punto di vista offre però degli sviluppi di fondamentale importanza, che si ripercuotono su quelli precedenti, e con maggiore immediatezza sul terzo.
Torniamo alla psicoanalisi: Freud aveva distinto i processi che modificano la zona dell’Io e quelli che modificano la zona dell’Ideale dell’Io. Qualche esempio: l’identificazione con le eroine romantiche trasforma l’Io di Emma Bovary, quella di Don Chisciotte con gli eroi della cavalleria modifica il suo Ideale dell’Io. Entrambe le identificazioni sono però confusive, e differiscono dall’identificazione di Julien Sorel con Napoleone, oppure da quella di Raskol’nikov con gli uomini superiori, che sono invece distintive. Dunque, una relazione congiuntiva può assumere diversi modi.15 I modi qui indicati possono venire intesi anche come un’articolazione del Simbolico lacaniano, che non è soltanto il registro della Legge ma anzitutto quello della complessità intellettuale.
Ecco i modi, per il quarto punto di vista: i registri di Lacan (Immaginario, Simbolico, Reale) e gli stili di pensiero che li caratterizzano. Nell’Immaginario domina il regime confusivo; il Reale è la dimensione in cui l’articolazione tra registri collassa; il Simbolico è il registro del linguaggio-pensiero, il più complesso. 16
Nel Simbolico agisce però anche lo stile separativo, lo stile della rigidità: dunque, nella mia interpretazione di Lacan, il Simbolico è il luogo di conflitti interminabili tra rigidità e flessibilità.
Le quattro concezioni dell’identità possono venire indicate mediante questo schema:
Vorrei ribadire, per evitare almeno in parte gli equivoci inevitabilmente prodotti da una visualizzazione grafica, che il punto di vista modale non si pone semplicemente accanto agli altri: oltre a rendere più precisa e articolata la concezione relazionale, esso mostra i limiti – e il dogmatismo – delle concezioni proprietaria e mereologica, cioè dell’identità come coincidenza. Ma sarebbe sbagliato pensare il rapporto tra i due modi fondamentali dell’identità come un’opposizione frontale. Le logiche disgiuntive tendono a disconoscere la legittimità di quelle congiuntive, in quanto le giudicano bizzarre e incomprensibili. Invece le logiche congiuntive non mirano a cancellare quelle disgiuntive, bensì a includerle, a farle lavorare a proprio vantaggio.
Le logiche congiuntive si appoggiano – quella di Anlehnung è una fondamentale nozione freudiana – su quelle disgiuntive, non come il mio computer è appoggiato al piano della scrivania (questa è una relazione separativa), ma come le pulsioni sessuali, più flessibili, si appoggiano inventivamente a quelle autoconservative, più rigide.17 Se così non fosse, se la flessibilità mirasse a distruggere la rigidità (obiettivo comunque non realizzabile), ne risulterebbe una cattiva duttilità, la forma inferiore della polutropìa.
4. Flessibilità minore e maggiore – La differenza logica tra Spielberg e Shakespeare.
Siamo passati dall’identità ai modi di identità. Questo passaggio implica una rivoluzione logica, la fine del monopolio delle logiche rigide: un’impresa tentata più volte, da Eraclito, Montaigne, Hegel, Nietzsche, Heidegger, ecc, ma quasi mai in maniera esplicita. Ciascuno di questi pensatori ha cercato una via per spezzare il dominio della rigidità sullo spirito umano.
Perché questa impresa è così difficile? Perché la nozione di “flessibilità” è così difficile da elaborare? Essa possiede un’evidenza empirica: ci sono oggetti flessibili, comportamenti flessibili, ecc. Ci si trova con una certa frequenza in situazioni nella quali si invita un’altra persona a essere meno rigida, cioè più flessibile. Nella società contemporanea, la flessibilità appare sovente come qualcosa di positivo, un bene, una risorsa. Il campo di applicazione del termine flessibilità risulta ancora più ampio se si tiene conto dei sinonimi: duttilità, elasticità, plasticità. Da qualche decennio è stata riconosciuta la plasticità cerebrale.
Sembra essere giunto il tempo di un nuovo paradigma filosofico: le vecchie categorie (ad esempio l’uno e il molteplice, il proprietario e il mereologico) non scompaiono, ma scendono di rango. Il primato della flessibilità implica l’ascesa di nuove categorie, come “diviso/indiviso”, “denso/articolato”. Tuttavia il paradigma della flessibilità non potrà nascere e affermarsi se non verrà attuata una rivoluzione modale, di cui il pluralismo logico – e la distinzione conflittuale tra i modi della coincidenza e della non-coincidenza – rappresenta un aspetto decisivo.18
Proverò adesso a delineare la necessità di questa svolta. Che cos’è la flessibilità, esaminata dal punto di vista concettuale? Una proprietà? Non una proprietà come il giallo o pesare 2 kg, piuttosto una proprietà disposizionale. Secondo Ryle “possedere una tale proprietà non vuol dire trovarsi in un certo stato o essere soggetto a un particolare cambiamento; ma dover o poter assumere un certo stato o cambiamento, qualora si realizzi una certa condizione”.19 Ad esempio, la fragilità non è una proprietà che il vetro possiede indipendentemente dalle circostanze in cui effettivamente si manifesta, bensì la disposizione a rompersi in determinate circostanze. Quanto alla flessibilità, possiamo definirla come una disposizione che si manifesta solo nel momento in cui le circostanze lo impongono? La nostra descrizione è costretta a ramificarsi: possiamo calcolare la forza mediante la quale un oggetto solido (ad esempio un proiettile) perforerà o infrangerà il finestrino di un’automobile, ma sarà necessaria un’analisi molto più complessa, e in parte aleatoria, per valutare se un essere umano persisterà in un dato atteggiamento oppure si dimostrerà duttile, disposto a modifiche, a negoziazioni, ecc. Dovremmo ancora distinguere tra una duttilità prevalentemente difensiva, o adattiva, in cui un soggetto si trova comunque a subire le iniziative di un altro, e una duttilità attiva, che mira a trasformare una situazione.
La flessibilità risulta quindi connessa con la dimensione del possibile: e poiché la possibilità è una categoria modale, ne consegue che la flessibilità dovrebbe venire esaminata nella medesima prospettiva. Tuttavia la teoria classica delle modalità, come viene presentata ad esempio nella Critica della ragion pura, non sembra concedere spazio alla flessibilità. A meno di non pensare che ci sia un’equivalenza tra flessibilità e possibilità: il che è falso, perché possiamo moltiplicare le possibilità del rigido senza uscire dalla rigidità. Si immagini, per fare un esempio semplice e immediato, che si conceda a un prigioniero la possibilità di cambiare la propria cella ogni giorno. Questo individuo vivrà in 365 celle diverse nel corso di un anno: è forse diventato libero?
Dunque, le variazioni del molteplice non offrono alcuna garanzia a favore della flessibilità. Analogamente, e questa considerazione riguarda l’esperienza, estetica, possiamo variare all’infinito uno stereotipo senza che esso perda la sua durezza, la sua schematicità, e la sua povertà semantica. Resterà uno stereotipo, cioè un potenziale conduttore di bêtise.
Siamo in grado di capire adesso perché la teoria dei mondi possibili non abbia rappresentato una novità autentica sul piano concettuale, e anche perché, dopo qualche entusiasmo effimero, abbia offerto pochissimi stimoli all’analisi letteraria: questa teoria enfatizza la moltiplicazione del rigido – e non si apre alla flessibilità. E ciò accade perché la nozione di “possibilità” rimane quella tradizionale, cioè subordinata all’effettualità e alla logica separativa.
La rivoluzione modale è un programma filosofico (in grado di avere straordinarie conseguenze nella dimensione estetica e dell’analisi testuale) che potrebbe senza dubbio adottare, tra i propri slogan, l’affermazione di Heidegger “Più in alto della realtà (Wirklichkeit) sta la possibilità”. 20 Ma sarebbe errato credere che il rovesciamento heideggeriano consista semplicemente in una inversione di gerarchia, mantenendo il vecchio concetto di possibilità.
Mi pare opportuno fare degli esempi. Li scelgo da un testo neurocognitivista abbastanza recente, Embodied Visions, e la mia scelta è motivata dal fatto che qui (ma anche altrove, più volte) l’autore richiama esplicitamente la nozione di flessibilità. “Di fronte allo spadaccino arabo nei Predatori dell’arca perduta di Steven Spielberg (1981), se Indiana Jones fosse disarmato proverebbe paura, se fosse armato di spada e in grado di usarla, probabilmente, proverebbe spirito competitivo e attenzione. Invece, finisce col dare spettacolo con la sua calma superiorità, dal momento che è armato di pistola e può dunque semplicemente sparare al nemico. La sua valutazione cognitiva delle possibili azioni offre flessibilità, influenzando la sua emotività in senso top-down, e quindi determinando la scelta finale. (…) Romeo e Giulietta si trovano a dover scegliere tra il proprio amore e i legami con le rispettive famiglie e casate, due sentimenti egualmente supportati da predisposizioni innate: la scelta dell’amore è dunque una scelta top-down”.21 Ovviamente si tratta di esempi con valore didascalico, perciò non sarebbe corretto ironizzare sulla evidente differenza di complessità. Senza dubbio Grodal non la negherebbe. Ma, accanto a questa, c’è un’altra certezza, e cioè che a me non verrebbe mai in mente di accostare questi due esempi, e di proporre la loro convergenza. Perché? Forse perché sono ancora affezionato alla differenza tra letteratura “alta” e narrazioni popolari? Oppure, e vorrei giustificare questa ipotesi, perché questo accostamento è plausibile solo per chi si muove all’interno di quella distorsione semplificante che ho chiamato semi-cognitivismo?
Ciò su cui vorrei richiamare l’attenzione in questa sede non è la palese differenza estetica tra il film di Spielberg e il dramma di Shakespeare, bensì la differenza logica. I due testi si ispirano a diversi stili di pensiero: dominanza del separativo nel primo caso, dominanza della logica congiuntiva nel secondo. La logica congiuntiva può essere definita un “pensiero dei legami” che si manifesta in molti procedimenti, tra cui quelli della retorica: la metafora non è forse una relazione nella quale un termine trova la sua identità solamente grazie a un altro termine? Ora, se dovessimo riconoscere in Shakespeare la messa in scena della logica congiuntiva nella costruzione dei personaggi principali, la nostra valutazione del ruolo svolto dai procedimenti retorici risulterebbe diametralmente opposta quello di Grodal. Lungi dal rallentare e dal bloccare la linearità narrativa, con presunte digressioni lirico-associative, le tecniche retoriche darebbero alle azioni la giusta velocità.
In seguito cercheremo di sviluppare queste considerazioni. Adesso vorrei focalizzare l’attenzione sulla differenza nello statuto logico (o logico-ontologico) dei personaggi: quelli che popolano il film di Spielberg sono tutti personaggi proprietari, vale a dire descrivibili in maniera soddisfacente tramite l’indicazione di proprietà; i protagonisti del dramma di Shakespeare, invece, esigono il punto di vista relazionale e quello modale per essere compresi adeguatamente. Senza dubbio, nulla ci impedisce di descrivere l’identità di Romeo e di Juliet elencando le loro proprietà (giovani, belli, veronesi, innamorati, ecc.): il risultato non equivarrebbe a una menzogna, ma certamente a una fallacia – intendendo per fallacia una verità impoverita oppure parzialmente distorta (o entrambe le cose).
Se il modello proprietario e quello mereologico mancano di forza euristica nei riguardi di alcune identità, è per motivi logici: perché sono stati pensati in funzione dell’identità nel modo della coincidenza. Una differenza fondamentale tra i due testi che stiamo esaminando va dunque riconosciuta nel fatto che soltanto in Shakespeare troviamo delle identità oltrepassanti, cioè personaggi che non coincidono con se stessi.
Questa è la flessibilità vera o, se si preferisce, maggiore: non semplicemente la flessibilità adattiva, la scelta della risposta migliore in un ventaglio di possibilità fattuali. Come reagirà Indiana Jones all’arabo tracotante? Lo sfoggio eccessivo di abilità marziali, il sapore citazionale (film di kung fu, Bruce Lee), preparano una replica con effetti comici: la scena è molto divertente, come negarlo? Ma Indiana Jones è un personaggio che coincide con se stesso, ignora la flessibilità superiore (cioè la “disposizione” a non coincidere).
5. Identità oltrepassanti: i molti modi del desiderio di essere
Il quadro si sta arricchendo. Abbiamo iniziato ad analizzare i processi di identificazione a partire dalla relazione tra due soggetti: grazie alla sua plasticità, idem si lascia trasformare da alter. Questa è l’identificazione con un modello. Agli esempi canonici prima ricordati, se ne possono aggiungere molti altri, come quello di Play it again, Sam (il personaggio interpretato da Woody Allen in rapporto ad Humphrey Bogart). Ma il saggio di Freud del 1921 conferiva eguale importanza a un altro tipo di identificazione, quella con un oggetto desiderato. L’amore è il misterioso intreccio tra desiderio di avere e desiderio di essere. Tutte le grandi storie d’amore raccontano una passione sconfinante, l’abolizione – l’impossibile-possibile abolizione - del separativo.
Esiste un terzo tipo di oltrepassamento, che riguarda apparentemente un personaggio singolo, e quindi meno facile da mettere a fuoco. Lo si incontra continuamente nella tragedia greca, e in tutti quei testi in cui l’identità dell’eroe è definita da una relazione tra gli estremi. Edipo, per esempio, è stato giustamente descritto come un personaggio privo di essenza, che oscilla tra un vertice superiore (è un eroe della conoscenza, colui che ha risolto l’enigma della Sfinge, ecc: per i suoi concittadini, quando inizia la vicenda narrata da Sofocle, è il migliore degli uomini) e un vertice inferiore (è colpevole di parricidio e di incesto, è un essere la cui presenza contamina la città, da cui deve essere espulso: è il peggiore degli uomini).22 In quanto costituito da questa oscillazione tra gli estremi, Edipo è un personaggio oltrepassante: egli varca la medietà in due direzioni opposte, che non si escludono, ma si annodano. E che cos’è la medietà, cioè la vita dei cittadini nella polis, dal punto di vista logico, se non il regime dell’identità come coincidenza?23
Il duplice oltrepassamento da cui è formata l’identità di Edipo può venir visualizzato in questo schema:
Una descrizione proprietaria di Edipo (tebano, figlio di Laio e di Giocasta, parricida, incestuoso) non appare soddisfacente in quanto non permette di cogliere lo statuto paradossale della sua identità, che è congiuntiva. Edipo avrebbe potuto vivere nella medietà, a Corinto, come figlio adottivo di Polibo e Merope; ha scelto di condurre un’indagine sulle proprie possibilità, ha scoperto che, per usare la terminologia heideggeriana, non siamo fatti di proprietà bensì di modi d’essere (Weisen zu Sein), dunque di possibilità. Più in alto delle proprietà (Eigenschaften) stanno le possibilità (Möglichkeiten). Edipo, personaggio modale.
Oltrepassare se stessi significa attuare una metamorfosi. Ma, alla luce del pluralismo logico, non possiamo più usare questo termine ingenuamente: la metamorfosi avviene in molti modi, e non è detto che conduca un individuo a realizzare le sue possibilità superiori.
Dobbiamo approfondire adesso un aspetto importante della nostra teoria, che è rimasto implicito. Riprendiamo la distinzione tra identificazioni confusive e distintive. Queste ultime contribuiscono sempre alla crescita del soggetto, che si appropria di alcuni tratti del modello, e anche della sua prospettiva, della sua miscela stilistica, ma non si limita all’imitazione e all’assimilazione: oltrepassa il modello, inventando se stesso. Si pensi a come i grandi artisti del Rinascimento frequentavano la bottega di un maestro: ciò avveniva solo per il periodo di tempo necessario all’emergere della loro personalità.
Probabilmente, nei processi distintivi anche il confusivo offre un contributo, restando però subordinato al manifestarsi di articolazioni identitarie complesse. Che cosa accade, invece, quando prevale il confusivo? Non c’è dubbio, si tratta di un processo di alienazione: idem viene assorbito da alter. Nel primo tipo di identificazione (soggetto – modello) constatiamo come il modello eserciti un dominio dispotico. Ciò rappresenta una difficoltà per la nostra teoria? Un processo di alienazione dovrebbe implicare un impoverimento: come si spiega allora la nascita di personaggi complessi, ad esempio Emma Bovary? E non soltanto un impoverimento, ma anche un irrigidimento: in una relazione confusiva, l’individuo che oltrepassa se stesso finisce con il coincidere con un altro. Potremmo dire che va ad arenarsi nell’identità altrui.
In effetti è così. Ma questa non è un’obiezione alla concezione relazionale, anzi: è una conferma della necessità di una concezione in grado di descrivere tutte le forme di soggettività non semplicemente proprietarie o mereologiche. Risulta confermata anche la necessità del punto di vista modale, con le distinzioni tra regimi (separativo, distintivo, confusivo). Quanto alla domanda prima formulata, relativa alla creazione di personaggi complessi, imperniati su relazioni confusive e dunque destinati alla coincidenza – e sia pure la coincidenza con alter -, non vi sono dubbi su quale sia la risposta corretta: tutto dipende dallo stile, cioè dall’elaborazione di cui è capace uno scrittore. Un autore con meno talento stilistico di Flaubert ci avrebbe proposto una vicenda forse in grado di appassionarci, ma con pregi estetici assai inferiori, e con un personaggio semplice. Si pensi a Misery non deve morire, in particolare alla versione filmica di Bob Reiner (1990), decisamente superiore al romanzo di Stephen King, anche grazie alla splendida interpretazione di Kathy Bates. Va osservato, en passant, che il carisma di un attore è un ingrediente fondamentale delle storie, e va considerato anch’esso nelle sue valenze stilistiche. Come sarebbero certi film con Clint Eastwood se l’attore protagonista fosse diverso? Riuscirebbero a reggersi unicamente sul plot? Un’ipotesi da approfondire: il carisma di un attore (nel cinema, a teatro) è un fattore di non-coincidenza? La personalità dell’attore non è forse in grado di oltrepassare i limiti del personaggio?
Altre precisazioni. La letteratura è una forma di conoscenza; è un’indagine sulle possibilità degli esseri umani, su quella che mi piace chiamare, con Montaigne, l’humaine condition. In una prospettiva modale, la condizione umana va pensata come un conflitto tra possibilità, quelle in cui tende a imporsi la rigidità e quelle in cui emerge la flessibilità. L’interpretazione – adesso quest’affermazione dovrebbe essere del tutto perspicua – è un’indagine sulle possibilità, al fine di stabilire quali siano, per un soggetto (reale o finzionale) le sue possibilità superiori o necessarie. Questa ricerca conferisce una forma alla spinta verso gli estremi, prefigurando azioni concrete.
Perciò, da Euripide a Von Trier, incontriamo personaggi che oltrepassano la medietà, compiendo gesti che non possono non suscitare immediatamente la nostra spontanea riprovazione. Non possiamo approvare l’uccisione dei figli da parte di una madre, tanto più in quanto tale gesto esprime la volontà di vendetta per un narcisismo ferito (così accade nella Medea di Euripide). Non possiamo approvare il comportamento di una moglie, che accetta di avere rapporti sessuali con altri uomini per narrarli dettagliatamente al marito, paralizzato e in grado di vivere l’eros soltanto nella sua immaginazione (cfr. Le onde del destino, 1996, di Von Trier). Queste opere ci portano al di là della Legge, intesa come imperativo. Tuttavia siamo indotti a riconoscere la necessità delle scelte compiute da queste donne,24 perché da un’etica della Legge passiamo – seguendo gli auspici di Nietzsche e di Lacan – a un’etica della forma.
Per compiere questo passaggio occorre una mente interpretativa, in grado di utilizzare diverse teorie della soggettività e del desiderio, e che dispone di una ricca cassetta degli attrezzi. La mente interpretativa sa distinguere i diversi modi dell’identità, e anche i diversi modi della coincidenza e della non-coincidenza.
6. Il polutropos Ulisse non somiglia a un coltellino svizzero – Da Omero a Zelig.
La mente interpretativa distingue tra flessibilità maggiore e minore, e anche tra buona e cattiva flessibilità. Le due distinzioni si incrociano. Ci sono evidentemente buone forme di flessibilità minore, adattiva: la si può esemplificare con certi oggetti, come il coltellino svizzero menzionato da Grodal, in grado di venir usato per molteplici funzioni. Tuttavia, un coltellino svizzero coinciderà sempre con se stesso. Non è così per i soggetti oltrepassanti (nella realtà sociale o nella finzione).
Abbiamo considerato finora tre tipi di identità oltrepassante, che riguardano la relazione tra un soggetto e un modello, quella tra un soggetto e un oggetto di desiderio, e quella del duplice sconfinamento verso gli estremi. E’ implicito nella mia prospettiva teorica che solo i personaggi oltrepassanti sono complessi – e lo sono grazie alla loro flessibilità (benché nell’eroe tragico la flessibilità sia congiunta all’altro estremo, lo spazio delle decisioni irreversibili).
Esistono altri tipi? Non stiamo forse dimenticando - una distrazione davvero clamorosa – uno dei personaggi che meglio incarnano la flessibilità e l’intelligenza strategica? Ulisse, l’eroe della metis. E’ stato necessario cominciare con gli altri tipi, più adatti a mostrare con immediatezza il funzionamento della logica congiuntiva: ma la nostra teoria rimarrebbe incompleta se non sapesse rendere conto del “multiforme ingegno” di Ulisse. Occorre quantomeno impostare il problema.
Si potrebbe sostenere che anche Ulisse ha un modello, e cioè la dea che gli è più vicina nelle sue avventure; gli uomini sono “divini” nella misura in cui tentano di somigliare agli dèi.25 Però sarebbe restrittivo confinare Ulisse nel primo tipo. Ma sarebbe restrittivo anche insistere unicamente sulle astuzie di Ulisse. La metis non è semplicemente la ragione astuta (la ruse des Grecs, secondo la traduzione di Detienne e Vernant),26 bensì la ragione flessibile. Non è soltanto un’intelligenza strumentale, o comportamentale, benché si esprima anche in azioni estremamente efficaci.
Senza dubbio l’agire dei grandi strateghi esprime una delle forme più alte di intelligenza. La flessibilità della mente non è una proprietà disposizionale come la fragilità del vetro, o la solubilità dello zucchero: non è una proprietà semplice. La miscelazione di molte capacità nella mente strategica è stata presentata così da Clausewitz: “Quando, dalle particolari condizioni dello Stato, si è dedotto ciò che la guerra deve e può essere, la via da seguire è agevolmente trovata; ma il perseverare tenacemente su questa via, l’attuare il piano concepito, senza esserne mille volte distratto da mille contingenze, esige, oltre ad una grande forza di carattere, una grande sicurezza, una grande lucidità di vedute e sicurezza dello spirito. Fra mille personalità che possono emergere nella vita, quale per prontezza di mente, quale per acutezza di penetrazione, quale per audacia e forza di volontà, non ve n’è forse una sola che riunisca in sé quel complesso di qualità personali che può innalzarla al di sopra della mediocrità quando le incomba il comando di un esercito”. 27
Un complesso di qualità personali – una eterogeneità, una miscelazione felice e irripetibile: una virtù che periodicamente si disimpara; accade ai più grandi strateghi.28 Senza dubbio, troviamo questa miscelazione nella mente di Ulisse, in particolare nell’episodio di Polifemo e nell’attuazione della vendetta contro i Proci. L’ingegnosità con cui l’eroe greco trova una via per uscire dalla caverna in cui si trova rinchiuso, insieme i suoi compagni, in balia del Ciclope, è stata valorizzata alcuni anni fa da Brian Boyd; non si può che concordare con lui nel giudicare la mente omerica più complessa di quanto ritenuto da altri studiosi, come Bruno Snell;29 ma quale lettore dell’Odissea non ha ammirato la lucidità con cui l’eroe rinuncia a uccidere Polifemo, e decide invece di accecarlo, perché occorre la forza del Ciclope per riaprire la grotta ? E, naturalmente, l’idea di legare i compagni al ventre dei montoni, riuniti in gruppi di tre, così da sfuggire al controllo del feroce avversario. Ma tutte queste astuzie sarebbero inutili, se non si trovasse il modo di eludere la ritorsione degli altri Ciclopi, che accorreranno richiamati dalle urla di Polifemo. Strategicamente, è questa l’astuzia decisiva. Essa ha una natura linguistica – ma Boyd si limita ad aggiungere questa trovata ingegnosa a quelle precedenti. Eppure qui abbiamo un’occasione per renderci conto che sarebbe sciocco contrapporre la svolta mentalista al linguistic turn, perché il linguaggio consente un formidabile salto di complessità alla mente umana.30 Esaminiamo dunque i segmenti narrativi, in cui si esplica l’astuzia più raffinata di Ulisse.
Interrogato su quale sia il suo nome, l’eroe risponde, con prodigiosa intuizione, quasi che l’intero piano di vendetta sia già elaborato nella sua mente, che il suo nome è nessuno (Outis). 31 In seguito, quando gli altri Ciclopi accorrono presso la grotta, avendo udito le grida di Polifemo, questo è il dialogo che si svolge:
“Perché, Polifemo, sei così afflitto e hai gridato così
nella notte divina, e ci fai senza sonno?
Forse un mortale porta via le tue greggi. E non vuoi?
Forse qualcuno ti uccide con l’inganno o la forza?”.
Ad essi il forte Polifemo rispose dall’antro:
“Nessuno (Outis), amici, mi uccide con l’inganno, non con la forza”.
Ed essi rispondendo dissero alate parole:
“Se dunque nessuno (mé tis) ti fa violenza e sei solo,
non puoi certo evitare il morbo del grande Zeus:
allora tu prega tuo padre, Poseidone signore”.
Dicevano così, e rise il mio cuore,
perché il nome mio e l’astuzia perfetta (metis) l’aveva ingannato.
L’intelligenza di Ulisse è la metis: egli la incarna. Qui, come ha osservato Derrida, egli è Metis di Outis. Omero gioca più di una volta con queste parole (outis, mé tis, metis). Un piccolo, grazioso esercizio di estetica intransitiva? No, o meglio: non soltanto - in effetti, non esiste bellezza artistica senza intransitività.32 Ma ciò che più conta, in questo caso, è l’aspetto strategico. “Presentandosi come nessuno, egli si nomina e si cancella nello stesso tempo”.33 Nell’astuzia di Ulisse vi è dunque qualcosa di paradossale, e i paradossi (non incatenati) sono espressioni della logica congiuntiva nella sua fecondità; e anche della non-coincidenza in senso eminentemente strategico, cioè la capacità di non essere dove si è.
Ecco le due forme superiori di flessibilità, in quanto non-coincidenza: il non essere là dove si è, l’abilità a schivare i colpi dell’avversario facendo sì egli che si avventi nel vuoto, che esaurisca vanamente la propria forza o addirittura la ritorca contro di sé – e questa è la versione strategica; e il non essere ciò che si è, la vocazione (e non solo la disposizione!) a non coincidere con se stessi – e questa è la non-coincidenza in senso esistenziale.
La flessibilità maggiore non è una cosa semplice. Inoltre, come si è notato prima, è una virtù che si tende a perdere, a disimparare, a dimenticare periodicamente. Ne troviamo una conferma nell’imprudenza manifestata da Ulisse, quando cede all’impulso di “lasciare la sua firma”, per così dire, a impresa ultimata, mettendo a repentaglio la sua vita e quella dei compagni. Per due volte egli deride il Ciclope, e per due volte la sua nave rischia di essere colpita dagli enormi macigni scagliati da Polifemo nella direzione da cui proviene la sua voce. L’amore per il proprio nome, per la propria identità, è più forte del pericolo: “Ciclope, se qualche uomo mortale ti chiede dello sconcio accecamento dell’occhio, digli che ad accecarti fu Odisseo, distruttore di rocche, il figlio di Laerte che abita ad Itaca”.34 In queste parole emerge l’identità come oggetto di desiderio.
Ma Ulisse è soltanto l’eroe della flessibilità strategica? Sembra proprio di no: la sua polutropia si estende alla dimensione esistenziale, ed è questo che spiega il fascino inesauribile del personaggio, le virtualità che saranno dispiegate da altri scrittori, da Dante a Joyce. Che l’Odissea sia un viaggio di ritorno, non sarebbe possibile negarlo: ma non si tratta di un viaggio “restaurativo”, come alcuni tendono affrettatamente a credere. Il viaggio inizia dall’isola di Ogigia, dove Ulisse è prigioniero di una bellissima ninfa, che vuole fargli dono dell’immortalità: Ogigia è la possibilità della coincidenza, il restare eternamente presso di sé. Dunque la vera trama dell’Odissea, dal punto di vista logico, è il rovescio di ciò che appare da un punto di vista ingenuamente narrativo: Ulisse rinuncia alla jouissance della coincidenza definitiva e sceglie il rischio di perdersi, ma anche di mettere nuovamente alla prova la sua mente flessibile: rinuncia all’immortalità per non rinunciare alla metis.
Il nostos non è soltanto ispirato dalla nostalgia. Naturalmente Ulisse non sa quale situazione lo attende a Itaca, ma noi – per come l’Odissea è stata costruita dal suo autore – sappiamo, dopo aver letto i primi canti, che il talento agonistico dell’eroe dovrà emergere ancora una volta; e, giunti al canto XXI, comprendiamo che egli sta per tendere l’arco della sua mente, e non solamente quello che i Proci non riescono a piegare.
Elogiare la flessibilità, esaltare la miscela delle sue componenti intellettuali ed emotive, non ci deve indurre a minimizzare la possibilità delle sue forme inferiori: non la modalità minore, e comunque positiva, bensì la modalità inferiore, quella che fu condannata da Socrate e da Platone. La cattiva polutropia ha trascinato con sé, per molti secoli, anche quella buona. Che gli eccessi di flessibilità siano da condannare, in quanto alimentano il cinismo, l’opportunismo, la sterilità dell’arte verbale, ecc., su questo non si dovrebbe neanche discutere; ma che cos’è esattamente un eccesso di flessibilità? Non dovremmo forse considerarlo un difetto? Una forma di flessibilità impoverita? Una versione della rigidità, sotto il segno del molteplice?
Il legame tra rigidità e comicità è stato acutamente analizzato da Bergson, nel suo saggio Le rire. Secondo Bergson, il riso va a colpire l’irrigidimento degli individui, a cui la società, man mano che si perfeziona, chiede “una souplesse d’adaptation sempre crescente”.35 Una tesi in cui non si può non rilevare una forte ambiguità, almeno dal nostro punto di vista: dovremmo credere che la società è interamente dalla parte della fluidità, dell’élan vital, e dunque della flessibilità maggiore, della non-coincidenza? Oppure la società, che peraltro ha bisogno anche del rigido (educazione disciplinare, ecc.), esige soltanto una flessibilità minore? Quando Bergson afferma che la funzione del riso è quella “de corriger la raideur en souplesse, de réadapter chacun à tous, enfin d’arrondir les angles”, 36 come non percepire il rischio di un predominio della medietà? In ogni caso, la comicità non caratterizza solo la rigidità, ma anche l’eccesso di flessibilità: e tra le prove più convincenti, va sicuramente menzionato Zelig, il film di Woody Allen. Il protagonista è un individuo-camaleonte, che assume con stupefacente rapidità le idee, la mentalità, e persino l’aspetto fisico della persona vicino a cui gli capita di trovarsi: si tratta dunque di un soggetto reattivo, nell’accezione nietzscheana del termine. Il rapporto di Zelig con l’alterità consiste in un’alienazione permanente: egli è costantemente aspirato dall’altro, è la confusività portata all’estremo. La sua identità consiste quasi unicamente in identificazioni.
Un personaggio relazionale per eccellenza. La versione comica della tesi heideggeriana “più in alto della realtà effettuale sta la possibilità”. In effetti, la spinta verso il possibile – Zelig può diventare chiunque altro – trova la propria némesi nella contingenza della realtà effettuale, in una vera e propria coazione all’alterità: egli deve diventare chiunque altro. Il più flessibile degli individui si rivela come il più rigido – e questo rilancia, o invita ad approfondire e a riformulare, la tesi di Bergson. Per noi, il film di Woody Allen è comunque un invito a distinguere tra la buona e la cattiva flessibilità.
7. Conclusioni.
Il programma di ricerca qui presentato richiede senza dubbio molti sviluppi. In questa sede, dovendo avviarmi alle conclusioni, mi limito ad alcune puntualizzazioni:
- in assenza di una concezione modale dell’identità, i dibattiti sul Self narrativo continueranno a svolgersi in uno spazio ristretto, e potranno rendere conto solo delle forme di soggettività più semplici (proprietarie e mereologiche);
- impossibile analizzare le identità complesse, e le più complesse sono le identità oltrepassanti, senza una logica della flessibilità;
- non esiste una narrazione complessa senza personaggi complessi. Ciò non implica che ogni tecnica apparentemente proprietaria o mereologica debba generare esiti di modesta qualità estetica. Tutto dipende dallo stile. I modi di ritrarre un personaggio devono ancora venire studiati seriamente;
- la distinzione tra soggetti semplici e complessi (nella realtà e nella finzione) presenta un grado assai elevato di plausibilità, e si può dire sia universalmente condivisa: per contro, sono sempre apparsi poco plausibili, imprecisi e inadeguati, i tentativi di renderne conto. Senza dubbio da Forster (personaggi flat e round) a Ricoeur (idem e ipse) qualche progresso è stato fatto; ma anche la proposta di Ricoeur è troppo vaga, perché – pur ispirandosi ad Heidegger: il medesimo (das Gleiche) e lo stesso (das Selbe) – egli non sa sviluppare adeguatamente il punto di vista modale. E neanche quello relazionale: l’interdipendenza tra i soggetti (Sé come altro è il titolo del suo libro del 19 ..) viene considerata come una indispensabile interazione, senza alcuna indagine sui processi di identificazione, di sconfinamento.
Uno degli errori ricorrenti nella costruzione di una tipologia deriva da una nozione caricaturale della rigidità, che viene confusa con la staticità, e comunque ridotta ad essa. I personaggi che Forster chiamava flat e Ricoeur definisce idem sono in effetti personaggi “totalmente dati” sin dall’inizio (in senso logico-ontologico, non in senso cognitivo); privi di evoluzione, incapaci di trasformazione. Ma, come si è visto, se corrisponde solo a una sostituzione di proprietà o di parti, una trasformazione non implica alcun oltrepassamento di sé.
Ipse sarebbe invece colui che rimane fedele alla promessa. Quale? Non rinunciare alla proprie possibilità superiori? Ma ciò non significa forse desiderare la non-coincidenza? Ricoeur non indica la via delle modalità, benché in qualche misura la auspichi.. Perciò idem e ipse restano due versioni dell’identità-coincidenza.
- la teoria degli stili di pensiero ci permette di lasciarci alle spalle sia i dibattitti che contrappongono spregiativamente la letteratura “alta” a quella “popolare”, sia i tentativi di annullare questa distinzione:37 e ci permettono anche di capire perché la narrativa tradizionale non è stata distrutta dalle straordinarie sperimentazioni del XX secolo, e continua a produrre storie accattivanti. Il primo passo per impostare correttamente il problema consiste nell’ammettere che il nostro Io (o il nostro Sé) è fatto di numerosi Io (o Sé): e l’Io che trae piacere da narrazioni lineari e mainstream non è lo stesso Io che si entusiasma leggendo Proust, Joyce o Kafka. Niente ci impedisce di cambiare Io, cioè di lasciar emergere un Io anziché un altro, in quella pluralità che noi stessi siamo.
- perché le narrazioni lineari continuano a ottenere un grande successo di pubblico, e possono piacere in determinati momenti anche a chi non rinuncerebbe mai alla dimensione della non-coincidenza? Perché i personaggi semplici – gli eroi di Dumas e i supereroi della Marvel – ci piacciono? Eppure la loro identità è povera, e notevolmente rigida. Perché amiamo la semplicità e la rigidità più della complessità e della flessibilità?
Sarebbe come chiedere: perché la nostra mente è in prevalenza separativa? Perché la nostra vita è così raramente creativa?
- la nostra esperienza è un flusso, e per dominarla dobbiamo anzitutto introdurre articolazioni (suddivisioni, segmentazioni, ecc.): e poiché il fine è quello di stabilizzare una realtà instabile, di governare una mutevolezza insostenibile, gli esseri umani fanno ricorso “innanzitutto e per lo più” (è uno dei modi con Heidegger indica la quotidianità) alle articolazioni separative, cioè rigide. Scelgono il principio di coincidenza: è necessario che qualunque entità sia identica a se stessa. Con ciò non si esclude che possa evolvere e trasformarsi, ma si esige la sudditanza a uno stile logico. Gli uomini, per poter vivere, hanno dovuto imporre al flusso dell’esperienza il regime dell’identità-coincidenza.
Questa è una genealogia della mente di ispirazione nietzscheana.
Che cos’è una narrazione separativa? È una forma di racconto lineare, segmentabile, riposante. Corrisponde a uno soltanto dei nostri stili di pensiero (ed è l’unico studiato dal cognitivisti – perciò li abbiamo ribattezzati semi-cognitivisti): ma è lo stile che usiamo di più, dal punto di vista statistico. Lo si è detto all’inizio: noi non interpretiamo sempre, anzi, la maggior parte delle nostre operazioni mentali sono standardizzate.
La mente interpretativa è anche la mente standard, miscelata però con altri stili di pensiero.
NOTE
1 L. Wittgenstein, Grammatica filosofica (1969); trad. it. La Nuova Italia, 1990, p. 13.
2 L. Wittgenstein, Zettel (1930-1948); trad. it. Einaudi, Torino 1986, par. 234.
3 Riprendo questo esempio da Steven Pinker, Fatti di parole (2007); trad. it. Mondadori, Milano 2009, pp. 29-30.
4 S. Cavell, Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nel teatro di Shakespeare, 1967, trad. it. Einaudi, Torino 2004, p. 51.
5 Cfr. l’acuta interpretazione di Paolo Valesio in Ascoltare il silenzio, Il Mulino, Bologna 1986.
6 S. Gallagher – D. Zahavi, La mente fenomenologica (2008), trad. it. Cortina, Milano .
7 Per un’esposizione più ampia, mi permetto di rinviare i lettori di lingua inglese ad alcuni miei saggi, disponibili nel sito www.giovannibottiroli.it: An Introduction to (Conjunctive) Scissional Logic, in Paradoxes (edited by Stefano Arduini), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011; Bakhtin: the richness of theory. Against the poverty of ‘contextual studies’ (cultural studies etc.), (Fourteenth International Mikhail Bakhtin Conference: Bakhtin: Through the Test of Great Time, July 4-8, 2011).
In lingua italiana, il mio programma di ricerca è accessibile nella versione più sistematica in La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013. Mi permetto di indicare anche un articolo: Identità come identificazione: nei film (e non negli spettatori), in Imago, 2, 2010.
8 Due famiglie, e non solo due stili: all’interno di ogni famiglia esistono differenze. Per quanto riguarda le logiche congiuntive, è fondamentale una differenza che Heidegger ha contribuito a far emergere, e che è uno dei principi che guidano la mia ricerca: il legame tra gli opposti non conduce necessariamente alla sintesi, come nella logica di Hegel. Non è necessariamente una relazione tra contrari (opposti sintetizzabili), e può essere una relazione tra correlativi, cioè opposti non sintetizzabili. La nozione di co-appartenenza (Zusammengehörigkeit) in Heidegger corrisponde a una logica dei correlativi.
9 «Studente in medicina, rematore, tenore, filodrammatico, politicante di quelli che gridano, signorotto di campagna, benestante, bevitore, grand'amicone, barzellettiere, segretario di qualcuno, qualcosa in una distilleria, esattore, bancarottiere e attualmente elogiatore del proprio passato»” (J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man (1916), Penguin, 1971, p. 241).
10 Per la logica (e per l’ontologia) disgiuntiva, qualsiasi ente è definito dalla sua autonomia rispetto alle relazioni che può contrarre. Perciò la concezione proprietaria e quella mereologica vanno considerate “non-relazionali”.
11 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), trad. it. Adelphi, Milano
12 La seconda topica, presentata da Freud nel 1922 (L’Io e L’Es) è ancora un modello mereologico, e concettualmente va considerata un passo indietro rispetto al saggio pubblicato l’anno precedente. Oscillazioni di questo genere non sono inspiegabili nel caso dei grandi innovatori.
13 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883-85, trad. it. Adelphi, Milano.
14 Non posso approfondire questo punto, perciò mi limito a ricordare alcuni critici dell’empatia: Bachtin, Heidegger, e Lacan. In particolare, il Seminario III dichiara assurda la pretesa di comprendere la psicosi mediante l’empatia. Non meno assurda è questa pretesa, potremmo aggiungere, nei riguardi dei nevrotici e dei perversi. Ma poiché non esiste (almeno per la psicoanalisi) una frontiera netta tra salute e patologia, risulta velleitaria la pretesa di penetrare nella mente di altri essere umani con una immedesimazione semplice. Ancora una volta, per una vera conoscenza occorre l’interpretazione.
15 E non solo differenze di grado: la nozione di “modo” è più complessa, e invita ad analisi ulteriori. Non si accontenta di un banale giudizio empirico.
La cronaca ci offre continuamente esempi di identificazione confusiva, con valori assai diversi. Alcuni mesi fa (2015) una donna svedese, Pixee Fox, si è sottoposta all’ennesima operazione chirurgica, facendosi togliere sei costole, con l’obiettivo di somigliare a Jessica Rabbitt perfino nell’improbabile vitino di vespa. Qualche settimana fa (giugno 2016) abbiamo appreso che l’autore di una strage negli USA si ispirava a un modello. Identificazioni criminose di questo tipo appartengono anche all’universo della fiction (penso alla trama del film Copycat (1995, regia di Jon Amiel).
16 Passando da Freud a Lacan, l’accento cade non più sulla zone della psiche bensì sui registri, che sono modi dell’esperienza (e nel caso dell’Immaginario e del Simbolico, modi di pensare e modi di guardare).
17 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (1915-17), trad. it. in Opere, vol.
18 Per questo programma di ricerca sono costretto a rinviare nuovamente a G. Bottiroli, La ragione flessibile, cit.
19 G. Ryle, The Concept of Mind (1949), trad. it. Torino, Einaudi, 1955, p. 41.
20 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Introduzione; trad. it. Longanesi,
21 T. Grodal, Embofied Visions, Oxford U.P., 2009 (trad. it. Immagini-Corpo, Diabasis, Parma 2014, pp. 200-201).
22 Cfr, J.-P. Vernant, Ambiguità e paradosso nell’Edipo re, in Mito e tragedia nell’antica Grecia, 1972; trad. it. Einaudi, 1976.
23 Per questa interpretazione della tragedia greca, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Liberatore e incatenato: le aporie di Dioniso (e del dionisiaco) da Euripide a Nietzsche, in Enthymema, 15 (2016).
24 Per un’interpretazione orientata alle possibilità del personaggio, rinvio alla tesi di laurea di Eleonora Fracalanza, "Il paradosso di Medea: una lettura modale della tragedia di Euripide" (Università di Bergamo, 2016).
25 “Atena è una sorta di doppio divino di Odisseo” – “La gemellarità di dea e uomo”, G. Paduano, La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale, Rizzoli, Milano 2008. pp.61-62.
26 M. Detienne e J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, 1974.
27 K. Von Clausewitz, Della guerra, (1832-34); trad. it. Mondadori, p. 175.
28 Mi ha sempre colpito questo episodio, narrato da Plutarco nella Vita di Cesare, e relativo alla guerra contro Pompeo: in una scaramuccia davanti alle fortificazioni del nemico, i soldati di Cesare hanno la peggio e il loro comandante rischia di perdere la vita. "Cesare quella volta disperò di poter salvare la sua causa; tanto che quando Pompeo, ispirato forse dalla cautela o forse dalla fortuna del nemico, non sfruttò fino in fondo un'azione che poteva essere decisiva, e si ritirò, pago di aver fatto rinchiudere i fuggiaschi dentro alla palizzata, Cesare, allontanandosi dal campo di battaglia, disse agli amici: 'Oggi i nemici avrebbero colto la vittoria definitiva, se avessero avuto dalla loro parte il vincitore". E si ritirò nella tenda. Si coricò, ma passò la notte più desolata che si possa immaginare, sprofondato in vane elucubrazioni. Si disse di aver condotto male la campagna ...". Com'è possibile aver commesso una simile imprudenza? E' questo pensiero a tormentare Cesare.
Va ribadito che, diversamente da tecniche che una volta apprese non si cancellano, l'arte militare - come ogni arte strategica - è un sapere che continuamente si disimpara. Nessun soggetto è padrone della strategia. La rarità degli errori, nei grandi strateghi, è il frutto di una miscela di capacità, che una personalità superiore riesce con relativa facilità a rinnovare. Ma l'errore, anche grave, non risparmia il soggetto più dotato e ricco di esperienza.
29 B. Boyd, On the Origin of Stories. Evolution, Cognition and Fiction, The Belk/Harvard U. P., Cambridge Ma. –London 2009.
30 I cognitivisti più lucidi non mancano di riconoscerlo, beninteso. Uno dei loro maggiori limiti, però, rimane quello di concepire il linguaggio come “indiviso”.
31 Omero, Odissea, libro IX, vv. 364-367.
32 Kant parlava di “piacere senza interesse” (Critica della facoltà del giudizio, 1790).
33 J. Derrida, Mémoires d’aveugle, 1990 (trad. it. Abscondita, 2003, pp. 100 e 104.
34 Omero, Odissea, libro IX, vv.502-505.
35 H. Bergson, Le rire, 1900, in Oeuvres, p. 482; trad. it. P. 115.
36 Ibid, p. 472.
37 Distinzione irrinunciabile, e che non è affatto legata a pregiudizi classisti. Naturalmente, oggi siamo in grado di elaborarla in modo nuovo, dal punto di vista logico (cfr. il par. 4 ) e dal punto di vista estetico. Mi pare molto positivo che anche in autori vicini al cognitivismo ci sia chi è disposto a riconoscere la differenze di complessità tra le narrazioni: riferendo una conversazione con Brian Boyd, Jonathan Gottschal esprime preoccupazione per il futuro di un mondo “inondato da storie-spazzatura” (L’istinto di narrare, 2012, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2014, p. 210-211, pp. 210-211).