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Note a margine de “Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica” di Massimo Recalcati

In “Psicoterapia psicoanalitica”, n. 2, luglio-dicembre 2007, pp.143-149

1. Non sono molti i libri che sanno parlare contemporaneamente il linguaggio dei concetti e quello dei dettagli: questa 'contemporaneità' è problematica - e non casualmente si è scelto, per indicarla, un avverbio che rinvia alla dimensione del tempo anziché a quella dello spazio. I discorsi attualmente più in voga sono articolati su un doppio livello: al piano superiore, nozioni vaghe (come postmoderno, ibridazione, vita liquida, ecc.), e al piano inferiore un elenco di fenomeni che non possono fare a meno di confermare la vaghezza dei termini-ombrello. Nel libro di Recalcati, invece, i concetti sono autenticamente concetti, dunque svolgono una funzione non prevalentemente tassonomica bensì analitica, e i dettagli sono autenticamente dettagli, cioè zone di densità che stimolano la teoria e le chiedono di perfezionarsi. Ecco perché Il miracolo della forma è un libro importante, di grande ricchezza, solido, ma anche aperto e fecondo.

Ancora un'osservazione preliminare: il rapporto orizzontale tra concetti e dettagli, così come è stato appena indicato, non è forse il medesimo rapporto introdotto e auspicato da Freud? La psicoanalisi non è un sapere 'verticale', in cui i concetti sono orientati verso una crescente universalità (che risulterebbe generica e vuota); senza dubbio essa propone alcuni tesi, e alcuni modelli, che assumono la tradizionale forma universalizzante ("tutti gli uomini sono così e così"), e tuttavia la psicoanalisi può essere detta, con buone ragioni, una scienza del particolare. Ciò significa che essa utilizza nello stesso tempo concetti di diverso tipo: e soprattutto che i concetti più generali sono il punto di partenza, e non il punto di arrivo. Cercherò di mostrare come il libro di Recalcati risponda a questa impostazione, e riesca così a giungere a risultati del più grande interesse.

 

2. Che cos'è arte ? e che cosa non lo è ? Queste domande sfidano la doxa del nostro tempo, il relativismo diffuso che si presenta in molte forme; e che può essere criticato - sia chiaro ! - da punti di vista totalmente diversi. Peraltro, il relativismo vorrebbe essere criticato da un solo punto di vista, quello contro cui esso ritiene di poter muovere le obiezioni più radicali: l'essenzialismo, la fiducia in verità universali e atemporali. La domanda "che cos'è un'opera d'arte?" sarebbe una tipica domanda essenzialista, una richiesta di essenza, cioè di proprietà universalmente e necessariamente riscontrabili in qualunque oggetto che si ritiene faccia parte dell'insieme 'opere d'arte'. La definizione essenzialista sarebbe circolare e dogmatica, in quanto ammette nel proprio dominio soltanto gli enti che rispondono a criteri già fissati in precedenza. Tuttavia la pratica delle avanguardie, nel corso del XX secolo, ci ha insegnato che i confini dell'arte non sono rigidi, anzi, vengono costantemente messi in discussione: l'essenzialismo non dovrebbe dunque cedere il posto al convenzionalismo? Arte è semplicemente ciò che chiamiamo arte. Secondo Nelson Goodman, la domanda "che cos'è arte" dovrebbe lasciare il posto alla domanda "quando è arte".

Riprendendo il Seminario VII di Lacan, Recalcati afferma la legittimità di domande che, almeno esteriormente, cioè nella loro veste grammaticale, si presentano come 'essenzialiste': tuttavia la loro vera legittimità deriva dalla possibilità di eludere l'opposizione stereotipata tra essenzialismo e relativismo. Per comprendere l'impostazione di questa ricerca sono dunque necessari alcuni chiarimenti. In primo luogo, occorre non farsi ingannare dalle apparenze grammaticali: come ha spiegato Kant, il giudizio "questa rosa è bella" è profondamente diverso da "questa rosa è rossa". Vale a dire che la bellezza non è una proprietà, una proprietà empirica: essa nasce nel rapporto tra un soggetto e un oggetto, che non è un oggetto 'proprietario'. In secondo luogo, occorre comprendere la differenza tra proprietà e modo d'essere (adesso la nostra auctoritas non è più Kant, ma Heidegger); l'opera d'arte non è una specie che rientra nel più vasto genere degli artefatti, così come le mele di Cézanne non sono un tipo di mele (sarebbe come dire che i vedenti sono un sottoinsieme dell'insieme dei ciechi, in base alla proprietà comune 'avere gli occhi'). Seguendo l'indicazione di Essere e tempo, il modello categoriale genere/specie va abbandonato; e una volta assimilata la distinzione heideggeriana tra proprietà (Eigenschaft) e modo d'essere (Seinsart, Seinsweise, Modus), si dovrà sviluppare questa differenza ontologica portandola nell'ambito del linguaggio: infatti le opere d'arte sono oggetti-di-linguaggio.

Adesso siamo in grado di comprendere che la domanda "che cos'è arte?" può essere intesa in un senso non essenzialista. Essa non ci invita a menzionare le proprietà universali e necessarie di un tipo di oggetti, bensì a indagarne il funzionamento; al di là dell'apparenza grammaticale, la domanda assume questo significato: come funziona un'opera d'arte?come è organizzata? Non "che cos'è" e neanche "quando è", ma come è: indagine sul modo d'essere, sul funzionamento linguistico, sull'intreccio e il conflitto degli stili.

Non ci si meravigli, allora, per il fatto che un'indagine non-relativista si configuri in uno spazio plurale. E che l'estetica psicoanalitica, di cui Recalcati ritrova i fondamenti negli scritti di Freud e soprattutto di Lacan, si presenti in una triplice versione: l'arte come organizzazione del vuoto (Seminario VII), come incontro con il reale (estetica anamorfica del Seminario XI), come singolarità della lettera che, per riprendere un'espressione di Lacan "annienta l'universale" (Lituraterre). Secondo Recalcati queste tre estetiche sono "tre modi diversi di provare a definire psicoanaliticamente l'essenza dell'arte; modi che non si escludono, né si cancellano in un movimento di sostituzione progressiva, ma convivono simultaneamente in una tensione costante" (MF, 37).

Modi per definire un'essenza: dunque in relazione all'essenza è possibile una concezione modale, che si allontana dalla tradizionale concezione cosale, o proprietaria (per cui si pensi al classico esempio aristotelico di definizione essenziale: uomo significa “animale razionale”). Ma come delineare questa concezione, sia pure schematicamente? Inoltre: questa concezione è del tutto nuova?

Sì e no. No, perché l'estetica modale, che è anche un'estetica conflittuale, trova la sua prima decisiva formulazione nella Nascita della tragedia di Nietzsche, un testo che Recalcati non manca di citare. Qui l'opera d'arte, in particolare la tragedia greca, non viene pensata come l'unità di un contenuto e di una forma, bensì mediante il nobile agonismo di due forze, l'apollineo e il dionisiaco, che sono anche due modalità linguistiche: la vocazione all'informe è contrastata dalla volontà di articolazione. Qualcosa di analogo verrà affermato da Heidegger nel suo saggio del 1936 sull'opera d'arte, come messa-in-opera del conflitto tra Mondo e Terra. E la psicoanalisi? Il sapere inaugurato da Freud presenta, rispetto alla linea Nietzsche-Heidegger, affinità che sono già state rilevate molte volte, e che vanno però riesaminate in una nuova prospettiva. Prima affinità: una visione conflittuale del soggetto (il soggetto diviso) ma anche dell'opera d'arte come oggetto diviso. Perciò la domanda "cos'è l'arte?" non ha una meta essenzialista, non è una richiesta di proprietà, non equivale a "quali sono le proprietà che la definiscono", e va intesa piuttosto in questo senso: "di quale pluralità l'opera è fatta?". Dell'apollineo e del dionisiaco, rispondeva Nietzsche; dell'intreccio e del conflitto tra registri (immaginario, simbolico, reale), risponde Lacan. Questo è il modo d'essere dell'opera d'arte.

Seconda affinità: cambia radicalmente il concetto di 'forma'. La forma non è più involucro, contorno, configurazione, ecc. che fissa e rende percepibile e trasmissibile un contenuto, in qualche modo preesistente (nel mondo reale, per l'arte mimetica, o in un mondo possibile fantasiosamente rielaborato). Il miracolo della forma è anche il paradosso di una forma che è il motore dell'opera, che è attività e potenza, che lotta contro l'informe e circoscrive il vuoto. Questa lotta non consiste però in una soppressione della potenza antagonista - ciò può accadere, in effetti, solo nell'arte mediocre e definitivamente pacificata. Nell'autentica opera d'arte, il linguaggio non abolisce ma include il non-linguaggio (potremmo chiamare così la dimensione dell'informe, del caos, del reale lacaniano): ed è questa necessità di inclusione a generare le divisioni dell'opera.

Questo è uno dei punti più problematici e più difficili da chiarire, ma credo che Recalcati proceda in questa direzione quando non rinuncia a precisare una nozione così immediatamente suggestiva come quella di 'vuoto'. L'arte è organizzazione del vuoto - questa è la prima delle tre estetiche lacaniane. Ebbene, il vuoto elaborato dall'opera non è semplicemente il vuoto taoista (e, almeno in parte, heideggeriano) che modella una brocca dall'interno o determina tra i raggi gli spazi, grazie a cui gira una ruota. Così inteso, il vuoto è ancora compatibile con il monostilismo della forma. Ma per la psicoanalisi, osserva Recalcati, il vuoto coincide con un 'troppo pieno', con un eccesso ingovernabile. E' questo il paradosso che l'opera d'arte deve saper includere, e a causa del quale, probabilmente, assume una modalità divisa.

Se l'opera d'arte potesse consistere nella riproduzione di un oggetto, essa non avrebbe uno statuto conflittuale: invece gli oggetti messi-in-opera dall'arte sono oggetti abitati dalla Cosa, das Ding. Una dimensione che i registri dell'immaginario e del simbolico non possono escludere né espellere, se non con risultati deludenti o patologici: il simbolico, ma anche l'immaginario, trovano la loro ragion d'essere, e di funzionare, come elaborazioni del reale (l'analogia con il lavoro del lutto viene sottolineata da Recalcati in riferimento alla teoria della Klein).

 

3. Dunque l'opera d'arte, diversamente da oggetti dell'esperienza quotidiana come un paio di scarpe o un telefonino, è un oggetto diviso: il suo statuto ontologico è determinato dalla pluralità dei registri; gli elementi che l'arte espone, e per indicare i quali utilizziamo nomi della quotidianità - parliamo delle scarpe di Van Gogh, delle bottiglie di Morandi, dei sacchi di Burri, ecc. - non sono oggetti, ma 'oggetti elevati alla dignità della Cosa'. Questo lavoro di elevazione è ciò che la psicoanalisi chiama sublimazione.

Il libro di Recalcati inizia con una rivisitazione di questo concetto, che viene frequentemente equivocato e semplificato; ciò accade, come vedremo tra un attimo, anche nell'ambito dell'estetica e della critica d'arte. Ebbene, la sublimazione è una possibilità, una possibile trasformazione della pulsione. Ciò che resta enigmatico è che possa esistere una soddisfazione pulsionale non vincolata direttamente a una soddisfazione sessuale. Per quanto riguarda il tipo di soddisfazione che la sublimazione rende accessibile, Recalcati farà riferimento a Winnicott e alla nozione di godimento "senza acme" (MF, 21-22), in un quadro differenziale che contempla diversi modi di godimento. Ma con questo chiarimento non si esauriscono, evidentemente, gli enigmi della pulsione. Di fondamentale importanza è la doppia tendenza della pulsione, il conflitto forse più originario: una tendenza alla fissazione del godimento (alla ripetizione) e una tendenza plastica (alla trasformazione) (MF, 15). La plasticità delle pulsioni, fortemente sottolineata da Freud in riferimento alle pulsioni sessuali, non è forse il 'fondamento' - non la base statica, ma il motore - di ciò che possiamo chiamare la 'natura umana'? Se l'uomo è l'animale non stabilmente determinato (Nietzsche), non è forse a causa di ciò che l'attraversa, intimamente, come un soffio pervasivo e vitale, ma anche paradossalmente, nel modo dell'estimità? Extimité, termine che Lacan introduce nel Seminario VII, indica un'esteriorità intima; Freud parlava di un "territorio straniero interno".

La sublimazione è dunque un conflitto tra due tendenze: nell'arte, la tendenza plastica si accentua, senza però che si giunga mai a eliminare un resto, un residuo di fissazione. Di qui il ruolo dell'informe anche nell'opera più perfettamente 'formata': "la tendenza della sublimazione artistica a realizzarsi in una forma non potrà mai pretendere di cancellare il reale assillante dell'informe" (MF, 16). In ogni caso la sublimazione è una possibilità, e non una neutralizzazione della pulsione. Recalcati sottolinea la differenza tra sublimazione, rimozione, idealizzazione. La sublimazione è metamorfosi, non negazione. Non è il 'no' che si esprime nella rimozione, e neanche il 'no' idealizzante, che dirige sull'oggetto una certa quantità di libido narcisista. Nell'idealizzazione non si realizza un cambiamento di oggetto e di meta: piuttosto, le qualità dell'oggetto vengono intensificate, glorificate, e viene così favorito un processo di identificazione immaginaria. Nella sublimazione, invece, c'è un radicale cambiamento di meta.

In Freud, e ancora più decisamente in Lacan, la sublimazione viene disgiunta dall'idealizzazione. La sublimazione è in rapporto con il reale pulsionale (MF, 18), è "un modo di entrare in rapporto con das Ding, senza tuttavia lasciarsi bruciare, distruggere, annientare dalla sua incandescenza" (MF, 27); inoltre, e riprendendo un passo di Lacan, la sublimazione "rivela la natura propria del Trieb in quanto esso non è semplicemente l'istinto ma un rapporto con la Cosa distinta dall'oggetto".

Si può tentare adesso di chiarire la formula lacaniana che, presa alla lettera, conserva un margine di ambiguità: l'arte - mediante la sublimazione - consiste nell'elevare l'oggetto alla dignità della Cosa". Ambiguo è il termine elevazione che sembra indicare un movimento verso l'alto, determinato da un moto di reazione o di ripugnanza verso il basso, lo sporco, l'informe, ecc. Non è così, tuttavia, che bisogna intendere questo termine. Recalcati lo ripete più volte: la Cosa è sempre Altra Cosa. Dunque - se la mia interpretazione è corretta - l'elevazione non è un movimento verticale bensì orizzontale. Un movimento di trasformazione, una metamorfosi dell'oggetto, causata dalla sua identità paradossale (in quanto è anche una non-identità) con das Ding. Questo movimento si esprime nel lavoro del simbolico e dell'immaginario, i registri che elaborano il reale, che lottano contro di esso ma non come un antagonista esterno bensì come un'eccedenza interna. La formula dell'elevazione va intesa come "un modo simbolico per rendere l'oggetto assoluto come lo è la Cosa, o se si preferisce, per ritrovare il reale, ma solo sulla scala rovesciata del simbolico" (MF, 28).

 

4. L'arte come incontro con il reale: è la seconda delle tre estetiche di Lacan ma, per Recalcati, è la prospettiva che può unificarle nel modo più convincente e più autenticamente lacaniano. Ora, l'incontro con il reale può realizzarsi in forme innumerevoli: ciò che Recalcati vuole discutere, da un punto di vista teorico e non meramente descrittivo, è la possibilità di un incontro diretto. Questa possibilità viene teorizzata da alcuni critici contemporanei, in riferimento al pensiero di Bataille e con un uso equivoco dei concetti psicoanalitici: si tratta della poetica dell'informe, che ha trovato in un testo di Yves-Alain Bois e Rosalind Krauss la propria enunciazione più ambiziosa.

Perché dovremmo riconoscere all'informe una dignità artistica? Perché, dicono Bois e Krauss, esso smaschera l'estetica menzognera della forma: un'estetica che continua a riproporre una visione umanistica e ideale della bellezza come difesa, e feticcio, rispetto all'indomabile energia pulsionale. L'informe rende possibile il ritorno della materia, del tattile, dell'orizzontalità, del caos, dell'entropia. Dunque: non solo occorre riconoscere l'informe come arte, ma occorre assumerlo come punto di vista per ribaltare un canone estetico che si è esteso fino alle avanguardie, e che soltanto il basso materialismo è in grado di smascherare.

Questa posizione può essere discussa e respinta seguendo due linee. Anzitutto, si tratta di valutare se la componente linguistica (simbolico-immaginaria) sia effettivamente necessaria all'esistenza dell'opera d'arte: è la posizione di Recalcati, secondo cui il collasso del simbolico e l'esibizione, la più diretta possibile, del reale, conducono al di fuori della dimensione artistica. Senza l'azione del simbolico, e dunque della forma, non c'è opera d'arte. Per Bois e Krauss, questa sarebbe evidentemente una posizione dogmatica. Ma non potremmo ribaltare l'accusa? Non è forse dogmatico il convenzionalismo, nella sua pretesa di sottrarre le proprie definizioni di arte a qualunque critica? Comunque sia, l'estetica psicoanalitica proposta da Recalcati non si accontenta di definizioni, e vuole scendere sul terreno della conoscenza: intende dire "che cosa è arte, e che cosa non lo è" soltanto tramite l'analisi di ciò che pretende esserlo.

In secondo luogo: il principale nucleo argomentativo di Bois e Krauss non va individuato nel convenzionalismo, ma in quella che potremmo chiamare 'critica dell'ideologia'. Per asserire la superiorità del basso materialismo, bisogna indicare gli errori dell'idealismo, le pesanti limitazioni che esso vorrebbe imporre alla percezione estetica. Bois e Krauss ne sono consapevoli: sanno che la forma può essere condannata solo rivendicando i diritti che essa reprime, i diritti dell'energia vitale, dell'anarchia pulsionale, del corpo. Perciò descrivono la forma come un'istanza repressiva, come difesa e barriera, e non come linguaggio (diviso). Perciò confondono la sublimazione con l'idealizzazione: se sublimare volesse dire negare e neutralizzare la pulsionalità, allora un'estetica anti-sublimante apparirebbe davvero legittima. Abbiamo visto che non è così: la sublimazione è trasformazione, invenzione. Ma ogni vero processo di trasformazione esige il linguaggio: ecco la necessità dei registri simbolico e immaginario, e la ragione per cui Recalcati rifiuta le semplificazioni di Bois e Krauss, e gli equivoci metapsicologici su cui esse sono fondate. L'errore estetico, nella teoria come nella pratica, può essere sintetizzato così: non c'è arte dove si mira alla coincidenza tra oggetto e Cosa; in tal caso si avrà un'esibizione del reale, una ricerca del pieno, dell'indiviso. L'opera d'arte, però, è un oggetto diviso, determinato dalla differenza tra oggetto e Cosa, e di conseguenza da un dissidio tra i registri.

Si noti che la non-coincidenza come criterio estetico non può assumere, se non forzatamente e caricaturalmente, l'aspetto della proprietà. D'altronde il punto di vista proprietario può interessare un'estetica tassonomica, non il soggetto che vuole incontrare se stesso nell'opera d'arte, e che desidera istintivamente 'entrare' nel suo funzionamento. Decisiva sarà l'analisi, e dunque la dimensione dei dettagli.

Non è possibile qui riassumere i capitoli dedicati a Tapiès, Morandi, Burri, Pollock, Kline. In essi il lettore troverà la conferma di quanto è stato asserito all'inizio di questa recensione, e cioè lo stretto legame tra i concetti e i particolari, nel discorso di Recalcati. Ma anche una conferma della terza estetica lacaniana, quella della singolarità che annienta l'universale. La singolarità non è banalmente un sinonimo di 'contingenza': la vera arte non esprime possibilità qualsiasi, ma possibilità tagliate dalla necessità, possibilità necessarie. Scrive Recalcati: "il singolare della lettera è un doppio assoluto: è assolutamente contingente e assolutamente necessario" (MF, 64). Questo legame paradossale è ciò che 'incatena' la nostra percezione alla bellezza.

Non come un'immagine seriale, che cerca di smentire la propria contingenza affidandosi alla molteplicità, oppure fissando la propria invariabilità medusizzante grazie alla conferma offerta da uno specchio. Non la vacuità della riproduzione mediatica, o la stagnazione privata. Nella bellezza artistica siamo rapiti dal vuoto, ma un vuoto che è forma e linguaggio. Incontriamo il reale, ma non come verità ultima (una distorsione presente nella scolastica lacaniana, MF, 81), bensì nel suo intreccio con gli altri registri. Questo dinamismo implicito, che sgorga dalle articolazioni, rinnova il conflitto tra rigido e flessibile: ci restituisce all'energia delle pulsioni, e le restituisce alla forma.