L'identità modale nei personaggi di Kafka
Descrizione di un progetto di ricerca
1. Preliminari teorici su modalità e identità.
Espressioni come 'identità modale' e 'concezione modale dell'identità' appartengono a un programma di ricerca che ha trovato la sua prima formulazione esplicita in Teoria dello stile (1997), e che è stato ulteriormente sviluppato negli anni successivi. Cercherò di offrirne ora una visione estremamente sintetica; mi auguro che, enunciandone i presupposti e le tesi essenziali, il lettore possa comprendere il significato e gli obiettivi di una ricerca, che incontra nei testi di Kafka possibilità di conferma e stimoli di eccezionale interesse.
Occorre dunque interrogarsi sulla nozione di 'identità', una delle più complesse ed enigmatiche dal punto di vista filosofico, e delle scienze umane, e sulla nozione di 'modalità'. Chiamerò modalità classiche le categorie del possibile, dell'effettuale e del necessario, mediante le quali Kant, ratificando una lunga tradizione, articola il gruppo delle modalità nella tavola delle categorie. E chiamerò rivoluzione modale il progetto di far ruotare intorno alle categorie modali le altre categorie, cosali o fattuali - sia che si accetti, in prima istanza, la classificazione kantiana, sia che si proceda a modifiche e arricchimenti.
Ebbene, le categorie modali - come osserva Kant - sono categorie 'vuote' in quanto non contribuiscono per nulla alla determinazione dell'oggetto, cioè non arricchiscono l'insieme delle sue proprietà o delle sue parti. Pertanto, la rivoluzione modale afferma il primato del vuoto sul pieno, e in ciò sembra richiamarsi a concezioni orientali, in particolare il taoismo. Il ruolo attivo e dinamico del vuoto è stata peraltro asserito da Heidegger in una conferenza che Lacan ha ben presente quando, non senza un riferimento al Tao, definisce l'arte come organizzazione del vuoto. Ma il vuoto heideggeriano-lacaniano è più occidentale che orientale: e lo è, in ogni caso, nella mia interpretazione. Schematicamente, e con il giustificato timore di fare torto a culture diverse dalla nostra, propongo questa formula: ciò che per gli Orientali è il vuoto, per gli Occidentali – per alcuni Occidentali - è il modo. Dunque la rivoluzione modale non è un'operazione mistica, bensì un'indagine che mette al primo posto i modi dell'essere e del pensiero. E per quanto elevate siano le sue ambizioni, e le sue pretese di originalità, essa non rinnega i precursori: la rivoluzione modale ha tentato di farsi strada ripetutamente, in ogni pensatore che ha compreso l'essenzialità delle modalità o degli stili: da Leibniz a Kierkegaard, da Pascal a Nietzsche, da Heidegger a Lacan. Vorrei enfatizzare qui un solo indizio: la frequenza con cui in Sein und Zeit, Heidegger utilizza espressioni come Seinsart, Seinsmodi, mögliche Weisen zu sein, ecc. Una lettura modale di Essere e tempo deve ancora essere compiuta: ma chi potrebbe negare che per Heidegger il Dasein sia definito dai suoi modi, e non dalle sue proprietà?
La differenza tra modi e proprietà (Eigenschaften) non è meno importante della differenza ontologica: anzi, è l'esplicitazione maggiore, almeno nell'opera del 1927, della differenza tra essere e ente. Scegliamo dunque come punto di partenza la differenza tra i modi d'essere dell'Esserci e le proprietà dell'ente intramondano. La tesi più volte ripetuta da Heidegger, secondo cui il Dasein tende a pensare se stesso a partire dall'ente intramondano potrà venir trasformata nella prima tesi di una teoria del personaggio: occorre respingere la tendenza, invincibilmente spontanea ma fallace, a pensare l'identità di un personaggio sul modello dell'ente intramondano. Un personaggio - o almeno, un personaggio complesso - non è la somma delle sua proprietà, a cui s'aggiunge eventualmente quel residuo prezioso che è il nome proprio: questa è la concezione proprietaria (la chiameremo così), e pensatori come Heidegger ci invitano ad abbandonarla come inadeguata. Non totalmente falsa, si badi, ma fallace: cioè una concezione che impoverisce, irrigidisce, distorce, e impedisce di accedere a identità complesse.
Ebbene, forse nessun altro scrittore come Kafka ha costruito personaggi 'non-proprietari'. Osserva in proposito Marthe Robert: “A differenza di tutti i personaggi di romanzo conosciuti, il personaggio tipico di Kafka – diciamo K., per semplificare – è privo di qualsiasi attrattiva, né tanto meno è fatto per interessare: egli non si distingue né per il carattere affascinante, né per la psicologia sottile, né per l’arte di far vivere passioni e idee, anzi tutto questo gli è deliberatamente tolto. Ottenuto per sottrazione della maggioranza dei dati che il romanzo distribuisce a piacere intorno alle sue creature fittizie, quindi senza tratti fisici distintivi e moralmente senza qualità, egli affascina unicamente con le lacune inesplicabili della sua definizione: sono queste a fare di lui non un oggetto di identificazione, ma un enigma ossessivo e per ciò stesso uno stimolo del pensiero”. Personaggio per sottrazione (di proprietà o qualità). La descrizione di Marthe Robert è convincente, tranne che in un punto: la riduzione di proprietà non impedisce infatti ai personaggi di Kafka di essere oggetto di intense identificazioni da parte del lettore. Questa precisazione è indispensabile, non meno di quella che segue: nella prospettiva relazionale qui adottata, non ci occuperemo mai dell’identificazione dei lettori con i personaggi, ma solo – qualora si presentino, e siano rilevanti – dei rapporti di identificazione tra personaggi. E’ questa l’autentica lezione della psicoanalisi: l’identità di un individuo (reale o di finzione) è determinata dal desiderio di essere. Dunque identità significa pluralità di identificazioni.
Prima di delineare questa prospettiva, bisogna discutere una possibile obiezione. Si potrebbe sostenere che la concezione proprietaria non è l’unica concezione pre-freudiana, nella tradizione filosofica occidentale: ne esiste un’altra, che sarebbe più opportuno chiamare mereologica, e che caratterizza la linea di pensiero che va da Hume a Parfit. Per la concezione mereologica, la psiche è composta da parti, cioè da rappresentazioni (idee, emozioni, ricordi, desideri, ecc.). Com’è noto, Hume l’ha introdotta mediante la metafora del teatro, dove si avvicendano continuamente attori diversi, oppure della repubblica: “uno stato (commonwealth) in cui diversi membri sono uniti fra di loro da legami reciproci di governo e di subordinazione, e danno origine ad altre persone, le quali perpetuano la stessa repubblica attraverso il cambiamento incessante delle sue parti”. Occorre chiedersi allora se questa concezione – la chiameremo mereologica, o aggregativa, o federativa – rappresenti un’alternativa forte rispetto alla concezione proprietaria, oppure se, nonostante le evidenti differenze, ne condivida alcuni presupposti decisivi, tanto da poter essere collocata sul medesimo versante.
In effetti è così: c’è un postulato fondamentale, che la concezione proprietaria e quella mereologica condividono, e cioè l’identità come coincidenza. ‘A = A’: e come potrebbe essere altrimenti? Come potrebbe un ente non essere eguale a se stesso? Questo punto di vista – la presunta ovvietà dell’identità come coincidenza - è rappresentato nella forma più coerente dal primo Wittgenstein, quando afferma la superfluità del segno di eguaglianza. Infatti “l’identità non è una relazione tra oggetti”. Perciò “Dire di due cose, che esse sono identiche, è un nonsenso, e dire di una, che essa è identica a se stessa, dice nulla”. Insomma, una proposizione del tipo ‘A = B’ sarebbe sempre falsa, e una proposizione del tipo ‘A = A’ sarebbe sempre inutile.
Come dovremmo giudicare allora la tesi di uno dei più grandi teorici della letteratura, Michail Bachtin, secondo cui l’identità dei personaggi di Dostoevskij, diversamente da quella dei personaggi di Racine, può essere espressa dalla formula ‘A non è eguale ad A’? Siamo di fronte a un’imperdonabile leggerezza, a una ‘licenza’ logica che si potrebbe forse perdonare a un poeta ma non a uno studioso? O forse Bachtin, disastrosamente influenzato dal pensiero dialettico hegelo-marxiano, è convinto della possibilità di ‘superare’ il principio aristotelico di non-contraddizione? Tale possibilità è stata in effetti affermata dalla corrente dialettica, ma non è mai stata chiarita e argomentata in modo perspicuo; e l’incapacità di affrontare questo fondamentale problema ha gettato sulla dialettica un discredito che sembra assai difficile da eliminare.
Non intendo in alcun modo difendere o giustificare le confusioni indicate, ad esempio, da Popper e da altri studiosi, i quali hanno riscontrato nella tradizione dialettica la tendenza ad assimilare la relazione logica di contraddittorietà con quella di contrarietà. Nella realtà, si è detto giustamente, non esistono né potrebbero esistere contraddizioni, cioè relazioni di incompatibilità (nel momento t sono seduto o non sono seduto, tertium non datur): possono esistere invece conflitti – tra individui, gruppi o classi sociali, ecc. Chi ritiene che la realtà sociale sia essenzialmente conflittuale non ha però il diritto di dire che essa è ‘contraddittoria’: in tal caso cade in una confusione grossolana.
Una volta acquisita la distinzione (già introdotta da Aristotele) tra contraddizione e contrarietà, la posizione di Bachtin continua ad apparire indifendibile. Si può sostenere correttamente che un individuo è lacerato da un conflitto tra due forze (ethos e daimon, ragione e sentimento, Es e Super-io, ecc.); ma ciò non implica che un individuo sia diverso da se stesso. Significa soltanto che l’individuo conflittuale a cui facciamo riferimento con il simbolo A è identico a se stesso nella propria conflittualità. Il segno di eguaglianza appare inaggirabile, o addirittura – come vorrebbe Wittgenstein – superfluo.
Ma la questione è più complessa. Perché è vero che alla tradizione dialettica si possono rimproverare confusioni inaccettabili, ma è altrettanto vero che al pensiero ‘anti-dialettico’, dominante nella filosofia, si può rimproverare una cecità egualmente inaccettabile. Questa cecità consiste nell’adesione inconsapevole a quello che potremmo chiamare ‘il dogma zerostilistico’, secondo cui esiste un solo modo di pensare, un solo stile di pensiero: lo stile separativo. Ora, l’esistenza soltanto di un stile, rispetto a cui non esisterebbero alternative plausibili, equivale all’affermazione di nessun stile, cioè allo zerostilismo. Perciò Frege riteneva che il termine stile non potesse venir collegato alla nozione di pensiero, e suggeriva che lo stile – inteso tradizionalmente come eleganza, ecc. – venisse lasciato ai sarti e ai calzolai.
Il punto di partenza per comprendere il pluristilismo – così essenziale per l’idealismo tedesco: si ricordi la distinzione tra Verstand e Vernunft in quanto modi irriducibili di razionalità – può venir individuato nella tipologia degli opposti. Aristotele aveva aggiunto alle relazioni di contraddittorietà e di contrarietà quella di privazione-possesso (meno interessante: la trascureremo) e quella tra correlativi. Quest’ultimo tipo dovrebbe semplicemente completare e saturare un elenco: invece - anche se Aristotele e i filosofi separativi non se ne sono mai accorti – lo fa esplodere.
Lo distrugge, cioè ne distrugge la presunta omogeneità: di colpo, per chi sa vedere, appare un’eterogeneità con cui bisogna fare i conti. Mentre le relazioni di contraddittorietà e di contrarietà sono omogenee in quanto relazioni disgiuntive (o separative), la relazione tra correlativi è congiuntiva: essa afferma infatti un paradossale – ma non contraddittorio – legame tra opposti che si presuppongono e si implicano reciprocamente, nell’atto stesso con cui si contrappongono e si escludono. Di qui una fondamentale conseguenza: i correlativi non sono soltanto un caso, o un tipo, in una tipologia omogenea, bensì il fondamento di un altro tipo di logica: una logica destinata ad essere nello stesso tempo congiuntiva e scissionale, in quanto fondata sulla reciprocità di esclusione e inclusione.
Ogni relazione oppositiva è potenzialmente uno stile logico: ecco ciò che la filosofia separativa non è mai riuscita a vedere. Contraddittori e contrari rendono possibile la logica disgiuntiva (nelle sue numerose varianti), i correlativi aprono lo spazio delle logiche congiuntive. Ciascuna delle quattro relazioni oppositive di Aristotele è una differente versione del principio di non-contraddizione: una versione, un modo. Ciò che conta è che nella tipologia aristotelica si apre potenzialmente il conflitto tra due stili di pensiero (o meglio, due famiglie di stili).
Analogamente al principo di non-contraddizione, altri concetti, e primo tra tutti l’identità, si presentano in una pluralità di versioni. Risulta dunque legittimo distinguere tra modi di identità: la prima e fondamentale distinzione è quella tra coincidenza (A = A) e non-coincidenza (A non è eguale ad A).
Dunque la tesi di Bachtin è assolutamente difendibile, e plausibile: si tratta però di capire che il rapporto tra A e non-A (ad esempio, tra identità e non identità) è un rapporto tra correlativi. Soltanto così si può giustificare l’idea di un individuo, o di un personaggio, che non coincide con se stesso.
2. Dall’identità relazionale all’identità modale. I due modi della coincidenza.
Riassumiamo. E’ stata messa in luce una fallacia che ha dominato la storia della filosofia, e alla quale ci si è sempre opposti con insufficiente lucidità. La chiameremo fallacia dell’identità-coincidenza: essa consiste nel credere che l’identità si dica in un modo solo, quello previsto dallo stile di pensiero separativo. Se non esistesse più di un modo d’identità, Wittgenstein avrebbe ragione: A = A sarebbe un principio inutile. Invece, proprio la naïveté di Wittgenstein è la conferma di quanto sia radicata e diffusa la fallacia dell’identità-coincidenza.
Adesso si può comprendere perché la concezione mereologica non sia una vera alternativa alla concezione proprietaria: l’aggregato di stati psichici, non perfettamente connessi, interrotto da lacune, e disponibile a ramificazioni, che secondo la linea Hume-Parfit costituisce l’identità degli esseri umani, appare certamente meno solido del soggetto definito in maniera convergente dalle sue proprietà. Ma l’indebolimento dei criteri rigidi non conduce a una nuova visione: al contrario, mira a mantenere una concezione inadeguata ed essenzialmente fallace. Diventato più vago e fluttuante, il soggetto di Parfit rimane ancorato al principio di coincidenza.
Resta però da sviluppare il punto più importante: occorre mostrare che la logica congiuntiva offre dei vantaggi euristici rispetto a quella disgiuntiva. Quali possibilità di analisi vengono introdotte dalla relazione tra correlativi? Perché il legame conflittuale tra gli opposti non può venir pensato adeguatamente mediante la relazione di contrarietà? Perché è così importante affermare l’identità come non-coincidenza? Prima di cercare conferme nelle narrazioni di Kafka dobbiamo mettere ulteriormente a punto il nostro modello, che è, in prima istanza un modello relazionale.
Si dirà che l’identità viene già generalmente intesa come una relazione (e non come una proprietà). Per il pensiero separativo, l’identità è A = A, e cioè una relazione riflessiva, simmetrica e transitiva. Parfit ritiene opportuno rinunciare al criterio della transitività in nome di connessioni più deboli: ma questa va considerata una variante interna a una tradizione che definiremo ’il Sé in relazione a Sé’ e alla quale va contrapposta un’impostazione più recente dal punto di vista cronologico, e che riscuote meno consensi: l’impostazione che definisce il Sé in relazione all’altro. Per Hegel, o per Freud, o per Heidegger, la più originaria è la relazione con l’alterità. Gli esseri umani non sono atomi, che entrano successivamente e opzionalmente in relazione con altri: e non si tratta semplicemente di enfatizzare delle relazioni di contatto, che in una certa misura sono assolutamente ovvie. Il concetto heideggeriano di Mitsein (o di Mitdasein) implica che il Sé non esista mai nella forma di un ente incapsulato in se stesso: il Dasein è originariamente aperto. In questa apertura, però, risiede anche l’inevitabile alienazione. L’Esserci non coincide mai se stesso, neanche inizialmente, nel senso che tende a coincidere con un’alterità usurpatrice.
Bisogna chiarire questo punto. Il soggetto che coincide con se stesso è un soggetto rigido: e lo è, sia che resti impenetrabile entro i suoi confini (è la condizione degli enti geometrici, ad esempio), sia che venga invaso dall’altro al punto da trovarsi nella più totale inconsapevolezza (e perdita) di se stesso. In questo secondo caso il soggetto non coincide con se stesso, ma non nel senso positivo che preciseremo tra un istante (il soggetto dinamico, oltrepassante), bensì nel senso che è infilzato dall’alterità come una farfalla da uno spillo. Inchiodato all’altro, irrigidito e usurpato. Ebbene, questa è in una certa misura la nostra condizione per Heidegger e per Lacan. Nel paragrafo 25 di Essere e tempo, Heidegger pone il problema: “e se la costituzione dell'Esserci, che è sempre mio, fosse il fondamento del fatto che l'Esserci innanzitutto e per lo più non è se stesso?” . L’indagine prosegue appurando l’assorbimento del soggetto in una condizione di medietà, la tendenza a sprofondare nel Si, e conduce a una traumatica constatazione: “Innanzi tutto "io" non "sono" io nel senso del me-Stesso che mi è proprio, ma sono gli altri, nella maniera del Si ( Zunächst "bin" nicht "ich" im Sinne des eigenen Selbst, sondern die Anderen in der Weise des Man)“. La prospettiva psicoanalitica di Lacan corrisponde pienamente a quella di Heidegger. Il soggetto viene sin dall’inizio determinato dalla relazione con l’alterità: com’è noto, Lacan distingue due modi, l’altro con la minuscola (il registro dell’Immaginario) e l’Altro con la maiuscola (il Simbolico).
Dunque, quando utilizziamo l’espressione non-concidenza dobbiamo tener conto della polisemia del ‚non‘. E dopo aver distinto i modi dell’identità (coincidenza e non-coincidenza), dobbiamo saper distinguere i diversi modi della coincidenza e quelli della non-coincidenza.
Va ricordato che il soggetto ‘coincidente’ è un soggetto rigido. In almeno due modi si manifesta la sua rigidità: in quanto Io = Io, e in quanto Io = altro (l’altro del Si, della medietà). In questo secondo caso il soggetto coincide con un’alterità rigida. Esso rappresenta una variante della coincidenza, nella forma alienata.
Del tutto diversa l’alterità flessibile, che caratterizza il soggetto nella sua autenticità (riprendo il termine da Heidegger). Il soggetto autentico non-coincide con se stesso, perché non coincide neanche con quel se stesso che è l’altro. Egli potrebbe enunciare così la sua problematica esistenziale: “Io non coincido né con me, né con nessuno degli altri che ho assorbito nella mia personalità, e dai quali, dunque, sono stato o mi sono lasciato assorbire. La mia identità consiste in una lunga serie di identificazioni: perciò, io sono sempre stato un altro. Quale significato posso ancora attribuire all’espressione ‘essere me stesso’?”.
Heidegger ha cercato una risposta commentando l’imperativo di Nietzsche “Diventa ciò che sei”, e valorizzandone la paradossalità. Quest’imperativo – la cui formulazione è abbastanza suggestiva da appagare coloro che vi inciampano: perciò non si procede oltre, e non ci si interroga seriamente sul suo significato – può essere canalizzato e compreso solo in una prospettiva modale. Riferendosi alle modalità classiche, e forzandole al di là dei loro limiti, Heidegger indica al soggetto il primato della possibilità: non la possibilità come “il non ancora effettuale e il non mai necessario” – concezione che è valida per l’ente intramondano, e che viene fallacemente adottata dalle filosofie che credono di poter pensare tutti i modi delll’identità a partire dall’ente intramondano. Non una possibilità ontologicamente inferiore al reale/effettuale (la Wirklichkeit) e al necessario, ma una possibilità ontologicamente superiore, dal punto di vista della potenza e della ricchezza semantica. E’ così che dobbiamo leggere l’imperativo di Nietzsche: “werde, was du bist!” Una possibilità ‘oltrepassante’, che non coincide con se stessa – in che altro modo potrebbe sfuggire alla sua inferiorità ontologica, così ovvia per la nostra tradizionale ? Non posso approfondire questo punto: ma credo sia questo il significato della formulazione heideggeriana: “ciò che nel suo poter-essere esso (l’Esserci) non è ancora, esistenzialmente lo è già”.
3. Kafka, dal punto di vista logico.
Primato della relazione tra il Sé e l’altro, primato delle relazioni congiuntive come più originarie delle relazioni disgiuntive. L’identità può essere non-coincidenza. C’è conflitto (polemos) tra modi di identità: conflitto permanente e insoppribile. Questa la visione a cui siamo approdati, e di cui abbiamo delineato l’articolazione concettuale; si tratta ora di considerarne gli effetti in una lettura dell’opera di Kafka.
Senza dubbio tali effetti mirano a una forma coerente, grazie alla quale potrebbero acquistare un massimo di efficacia. Una coerenza ‘geometrica’? Non necessariamente, perché lo stile geometrico non è l’unica forma di rigore. Ma questa suggestione merita di venire almeno in parte raccolta: vale la pena di provare a leggere uno degli scrittori più rigorosi della letteratura – uno scrittore ossessionato e torturato dall’esigenza di rigore – ispirandosi a un filosofo che ha cercato la forma espositiva e concettuale più rigorosa possibile per il proprio pensiero. L’Etica di Spinoza ci suggerisce di tentare – in maniera sintetica e provvisoria, ma suscettibile di venire perfezionata in altra sede – una descrizione dell’universo di Kafka mediante teoremi e corollari:
(a) i rapporti congiuntivi sono più originari (non in senso cronologico, ma per la potenza, la vastità e la ricchezza) dei rapporti disgiuntivi. Questa è la Legge – cioè la legalità ontologica – che governa l’universo di Kafka. Dunque la congiunzione include la disgiunzione (come una propria possibilità inevitabile, e in un certo modo obbligata), e la disgiunzione non può escludere la congiunzione: la Legge include il caos, il disordine.
Riprendendo una fondamentale nozione heideggeriana (la Zusammengehörigkeit), diremo che la legge e il caos si co-appartengono. Questa relazione è paradossale, cioè una relazione tra correlativi. Si noti la differenza rispetto ai contrari. In Kafka l’ordine e il caos non sono fifty - fifty, non si spartiscono l’universo e neppure si mescolano staticamente (come il bianco e il nero, per citare l’esempio più classico di contrarietà, confluiscono nel grigio). Tutt’altro: si richiamano dinamicamente e agonisticamente, si intrecciano formando un vortice o si rovesciano. E’ così che nascono alcune straordinarie scene di massa, come quella del dormitorio in Der Verschollene: un luogo in cui nessuna regola riesce a imporsi se non per una porzione minima di tempo, in cui il caos dilaga – un dormitorio in cui è impossibile dormire. Mi limito a rilevare un punto in cui è più evidente la soppressione della logica separativa, rappresentata dal termine Einteilung. Benché sia stata approvata dalla maggioranza, l’idea di tener accesa una luce a un capo soltanto del dormitorio, così da illuminare solo metà dello spazio lasciando l’altra metà al buio per chi desidera dormire, di fatto non viene mai attuata: “non c’era una sola notte in cui si rispettasse questa spartizione (Aber es gab keine Nacht, in der diese Einteilung befolgt worden wäre)”. Altre scene di frenesia collettiva, nelle quali il disordine sovrasta l’ordine entro cui nondimeno si dispone, sono, ancora nel Verschollene, quella della portineria dell’Hotel occidental e quella del comizio.
(b) rovesciando la prospettiva consueta che regola la nostra quotidianità, Kafka manifesta il primato del principio congiuntivo: ciò implica una svalutazione radicale di quello che la filosofia chiama principium individuationis, e che è la legge di ogni universo disgiuntivo, o separativo. Infatti il principium individuationis equivale a un ‘principium separationis’, cioè all’esistenza di ogni individuo entro confini ben definiti e sufficientemente stabili perché egli possa venir considerato come riconoscibile e responsabile. Esaltando il principio opposto, in una forma che non è soltanto congiuntiva ma tende ad essere confusiva, Kafka spazza via l’identità forense (Locke). In questa dimensione ontologica divenuta estremamente fluida, perfino il nome proprio – un designatore rigido, secondo alcuni filosofi del linguaggio come Kripke – tende a vacillare e a confondersi con altri. Ad esempio, nel Castello incontriamo un funzionario, Sortini, esperto nella difesa contro gli incendi. Ben presto tutto ciò che dovrebbe costituire la sua identità svanisce nell’incertezza: “Di lui, in sostanza, si sa soltanto che il suo nome è simile a quello di Sordini; se non ci fosse questa somiglianza di nomi, probabilmente non lo si conoscerebbe affatto. Anche come esperto di misure antincendio probabilmente lo si confonde con Sordini, il vero esperto è quest’ultimo, e approfitta della somiglianza di nomi per soprattutto per scaricare su Sortini gli obblighi di rappresentanza e dedicarsi indisturbato al suo lavoro”.
Ontologia confusiva, labirintica. Infatti il principio di costruzione di ogni labirinto potrebbe venir enunciato così: nessun elemento individuale – parete, corridoio, siepe, porta, ecc. – deve svolgere una funzione individualizzante, o distintiva; ogni individualità dovrà risultare assimilabile a un’altra, a molte altre.
Là dove regna il principium individuationis, il tempo e lo spazio servono a circoscrivere gli individui, garantendone la separatezza, e la privatezza. Ma se questo principio viene meno, allora il tempo e lo spazio non serviranno più a individualizzare. Allora lo spazio invade lo spazio, il tempo invade il tempo. Gli effetti vanno dalla frenesia alla paralisi. Ecco un esempio di immobilità, nel Processo:
“Il giorno seguente K. non riuscì a togliersi di mente la guardie; era distratto sul lavoro e per sbrigarlo dovette rimanere in ufficio ancora un po’ più a lungo del giorno prima. Quando nel rincasare passò di nuovo davanti al ripostiglio, aprì come per abitudine al porta. Quello che vide, invece del buio che si era aspettato, lo lasciò sbalordito. Tutto era rimasto tale e quale lo aveva trovato la sera prima aprendo la porta. Gli stampati e le bottiglie dell’inchiostro subito dietro la soglia, il bastonatore con la verga, le guardie ancora tutte svestite, la candela sullo scaffale, e le guardie presero a lamentarsi gridando: “Signore!”.
Se questa descrizione è possibile, è perchè – non lo si dimentichi – l’ontologia separativa non si è totalmente dissolta: però è stata sopraffatta, e di qui nascono continuamente effetti paradossali. Quanto al principio di causalità, anch’esso deve fare i conti con il primato delle relazioni congiuntive. Per un verso, in quanto appartiene al separativo, esso continua a funzionare secondo le aspettative della vita quotidiana; e ciò è visibile in numerosi micro-eventi; ad esempio K. sente bussare, vede entrare uno sconosciuto, gli rivolge una domanda, salta giù dal letto deciso a protestare con la signora Grubach, e così via. Per un altro verso, in quanto collega due diversi regimi ontologici, e riflette la dominanza del regime congiuntivo, non funziona linearmente. Azioni decisive, come entrare nel Castello, o nella Legge, non possono avvenire secondo un nesso, di cui la successione temporale è l’attestazione (propter hoc, post hoc). L’agrimensore non può entrare nel Castello perché è già entrato. La porta, o la soglia, tra diversi regimi ontologici non può essere varcata in base a un movimento che presuppone il principium individuationis, proprio perché tale principio funziona in un regime ma non nell’altro.
(c) quando il pluralismo logico-ontologico si dispiega in tutta la sua potenza, relativizzando e ridimensionando il primato del regime separativo – dominante nelle narrazioni ‘realistiche’ o mimetiche -, l’individuo viene totalmente modalizzato. Non è più definito né dalle sue proprietà, né da comportamenti, dai quali deriva l’assegnazione di proprietà (buono - cattivo, leale - sleale, ecc.), né dalle sue parti. Ciò cambia il significato di termini come ‘colpa’ e ‘innocenza’. Di che cosa può essere colpevole l’individuo? Non di una singola azione, ma di un manque ontologico. E’ colpevole perché è inadeguato alla legge. Ma che cosa chiede la legge? Esiste un’individualità in grado di ‘soddisfarne’ le esigenze?
Ancora una volta, bisogna comprendere il diverso funzionamento logico dei regimi. In un universo separativo, la legge si presenta sia mediante una serie di regole, sia incarnandosi in individui che la ‘esemplificano’, e che rappresentano per il soggetto dei modelli (ciò che Freud chiama l’Ideale dell’Io). In un universo congiuntivo/confusivo la legge non può esprimersi mediante regole, perché l’ordine, includendo il caos, implica un’infinita possibilità di smentire le regole e di sottrarsi ad esse. Le regole acquistano un’elasticità infinita, parodica, auto-parodica. E la legge viene infinitamente elasticizzata dalle interpretazioni, di cui si rimpie come una spugna che s’imbeve di qualunque liquido. Apparentemente vuota, la Legge ospita una pienezza caotica. Si pensi alla crescita cumulativa delle interpretazioni nel capitolo “Il duomo” (Der Prozess).
E gli individui-modello? Perché sono così rari, forse inesistenti nell’universo di Kafka? Perché il desiderio di essere non lega due individui, come avviene così frequentemente in Dostoevskij, in Proust? Perché è così difficile che un personaggio di Kafka desideri, come Tonio Kröger, essere un altro - “Essere come te ...” (Zu sein wie du ...)?
Si è detto in precedenza che per la psicoanalisi – e a questa tesi la letteratura offre innumerevoli e straordinarie conferme – l’identità consiste nei processi di identificazione. Tali processi presentano differenti gradi di complessità, e di ambivalenza: in modi diversi il signor di Tréville è un modello per D’artagnan, Amadigi di Gaula per Don Chischiotte, gli uomini superiori per Raskol’nikov, Elstir e Swann per l’Io della Recherche, ecc. Considerando la frequenza e la rilevanza di questi rapporti, non si può non essere sconcertati dalla loro assenza nei romanzi di Kafka. A ben vedere, però, tale assenza è del tutto coerente con i teoremi sin qui enunciati: il declino del principio di individuazione implica una condizione ‘invasiva’ che è stata rilevata nelle scene di gruppo o di folla, e che ora dovrà venir chiarita per il singolo personaggio. L’assenza di individui-modello non implica che venga meno ogni possibilità di identificazione: all’individuo resta la possibilità di identificarsi direttamente con la Legge.
(d) Esistono però vari modi per identificarsi alla legge. C’è, evidentemente, l’identificazione iperbolica di chi, avendo ridotto la propria soggettività all’Io, trae dall’identificazione la delirante sensazione di ‘essere la legge’. Rafforzamento delirante e menzognero, esemplificato nell’Iperione di Hölderlin dalla hybris di Alabanda e dei giovani rivoluzionari, i quali credono di poter coincidere con la Nemesi stessa e con la sua violenza purificatrice. Si notino i tratti di questo tipo di identificazione: il suo carattere ebbro e iperbolico (“le nostre anime si esaltavano in progetti colossali”), e l’acquisizione di un’onnipotenza del giudizio (“Convocavamo innanzi alla nostra scranna di giudici anche il passato, non ci atterriva la superba Roma con la sua magnificenza ...); ma, soprattutto e prima di tutto, la convinzione (e l’illusione) che identificarsi alla legge – una legge ‘unaria’, indivisa - sia possibile.
Nell’universo di Kafka, invece, l’identificazione è desiderata e in una certa misura realizzata, ma resta fondamentalmente impossibile. Ne consegue che chiunque si identifichi con la legge è infinitamente colpevole, perché non potrà mai essere ‘adeguato’ alla legge. Ogni attrito è colpevole, per lo scrittore Franz Kafka – ogni insufficienza o debolezza della sua corporeità o della sua psiche. Ogni colpa, anche minima, dei suoi personaggi è suscettibile di una punizione smisurata perché, se vengono meno i confini del separativo, che è anche un sistema di misure e di pesi, di corrispondenze proporzionate, ogni colpa viene risucchiata nel vortice della Colpa. In un universo congiuntivo/confusivo, le tassonomie non hanno un organizzazione gerarchica e somigliano a un maelström. “Io sono, assolutamente, un uomo di principi (bin ich durchaus ein Mann von Principien)”, dice lo zio di Karl in Der Verschlossene. Tutte le violazioni ai principi si equivalgono.
Il carattere logico-ontologico della colpa si accentua nel passaggio dal Disperso al Processo: dalla colpa insignificante, punita in modo sproporzionato, alla colpa ‘non individuabile’, non nominabile; non è più necessario attribuire al protagonista una colpa empirica, dato che egli è logicamente colpevole.
Ma l’impossibile (e colpevole) identificazione con la legge mette in luce un’altra impossibilità di ordine ontologico: l’individuo non può essere interamente abolito, neanche in un universo a dominanza confusiva. Esso rimarrà come una macchia – un resto - che offusca la purezza della Legge.
(e) l’identità individuale non può essere abolita - d’altronde non è questo che la legge chiede, se per legge si intende il pluralismo dei regimi e la co-appartenenza del disgiuntivo e del congiuntivo. Se la pluralità è insopprimile, insopprimibile sarà anche il principium individuationis. Soltanto in una certa misura, però, in quanto esso viene costantemente assalito da forze che vogliono dissolverlo. Dunque la legge chiede e nello stesso tempo non chiede che l’individuo venga abolito: questa duplice e conflittuale richiesta ha come punto necessario di ricezione l’individuo stesso. E’ soltanto nella sua prospettiva, è soltanto grazie alla sua possibilità di dire ‘Io’, che l’universo può articolarsi (e riflettersi, come in uno specchio). Soltanto nella prospettiva di Karl Rossmann, o di K., o dell’agrimensore, è possibile che la Legge venga enunciata.
E’ possibile? Con tutte le complicazioni che nascono dalla solidarietà dell’ordine e del caos. E’ possibile enunciare l’identità spugnosa della Legge; ma è possibile penetrarvi? Questa domanda ha già trovato in precedenza una risposta, quando si è fatto rilevare la non-estraneità, l’impossibile estraneità o esteriorità dell’individuo alla Legge. Potremmo dire, per continuare la metafora, che l’individuo è il liquido di cui la Legge è imbevuta – e che in qualche modo essa può espellere ! Questa sembra in effetti la situazione dell’eroe kafkiano: assorbito e al tempo stesso respinto o espulso dalla Legge.
Situazione drammatica, benché Kafka sappia interpretare anche umoristicamente la follia dei paradossi. Consideriamo con più attenzione, ora, il ruolo dei modelli nell’universo separativo: la loro funzione è quella di attenuare il lato rovente della Legge. Grazie alle loro inevitabili limitatezze e imperfezioni, gli individui-modello attenuano il rigore dell’Ideale. La mortificazione che essi trasmettono è più indulgente, l’individuo non viene schiacciato, anzi, generalmente trova nel rappresentante empirico della legge (a partire dal padre o dalla madre) un rivale suscettibile di emulazione. Con le loro imperfezioni, gli individui-modello smorzano il desiderio assoluto di identità.
Perché tale desiderio tende a essere così intenso in Kafka? Ebbene, perché la dominanza delle relazioni congiuntive ha fatto vacillare l’identità del singolo, l’ha spinta in una rete labiritnica. L’identità diventa così oggetto di desiderio. Ma in Kafka il desiderio di essere, come si è già detto, non trova individui-modello con cui rivaleggiare: così è la Legge stessa a diventare oggetto di desiderio.
Diventa ciò che sei: ovvero, “diventa la legge che, in quanto desiderata dal desiderio di essere, esistenzialmente tu sei già”. Tutti i nostri desideri più intensi hanno come oggetto, almeno parzialmente, l’impossibile (Lacan): e la nostra capacità di tollerarlo dipende da un insieme di velature, differimenti, attenuazioni. Quando un desiderio ha come oggetto l’impossibile senza attenuazioni, il desiderio diventa sofferenza - come nella Colonia penale, una macchina che tortura il suo prigioniero.
4. Davanti alla legge.
A partire dalle cinque tesi appena enunciate – (a) primato delle congiunzioni sulle disgiunzioni, nella reciproca mescolanza e appartenenza; (b) fluidificazione estrema del principium individuationis; (c) modalizzazione dell’identità; (d) identificazione (impossibile) con la Legge; (e) identità come oggetto del desiderio di essere -, possiamo tentare una ricognizione nel testo forse più denso ed enigmatico di Kafka. Un tentativo parziale ma non completamente differibile.
Vor dem Gesetz: non è chiaro, si dice, di quale legge si tratti (morale, giuridica, politica, ecc.). Ma la vera difficoltà non sta nell’individuare la specie e il genere, bensì nel comprendere il concetto di ‘legge’. Nell’ultimo importante tentativo di interpretazione filosofica, Derrida fa coincidere la legge con l’interdetto: “Ciò non significa che interdice, ma che è essa stessa interdetta, un luogo interdetto”. L’accento cade sull’alterità della legge, sulla sua différance: la legge non ha un’essenza, in quanto “si sottrae a quest’essenza dell’essere che sarebbe la presenza”. Nella prospettiva differenziale che è quella della sua filosofia, Derrida enfatizza, come tanti altri interpreti, l’inaccessibilità: “La legge tace, e di essa non ci è detto nulla. Nulla, soltanto il suo nome (...) Non si sa che sia, chi sia, dove si trovi. E’ una cosa, una persona, un discorso, una voce, uno scritto o più semplicemente un niente che differisce incessantemente l’accesso a sé, si interdice così per diventare qualcosa o qualcuno?”.
In questo elenco di alternative manca un’ipotesi coerente con la lettura qui proposta: in un universo modalizzato la legge non può essere che modo, pluralismo eterogeneo e conflittuale tra modi. Senza dubbio, la legge è un nome della necessità: ma la nozione di ‘necessità’ deve venir rielaborata alla luce di una nuova e più ampia teoria delle categorie modali. Nel nuovo elenco di categorie fanno il loro ingresso la rigidità e la flessibilità, e il loro conflitto ridimensiona la definizione tradizionale di necessità come ‘non poter essere altrimenti’, universalmente adottata da Aristotele in poi. Necessità non è più sinonimo di ‘rigidità’; diventa legittimo il concetto di ‘necessità flessibile’.
Concetto paradossale – ma l’universo di Kafka non è forse, integralmente, un universo paradossale? Basti pensare alla reciproca appartenenza dell’ordine (della legge) e del caos. E’ questo funzionamento logico paradossale che non si dovrà perdere di vista interpretando la parabola della Legge, altrimenti si finirà col cercare il paradosso solo ‘localmente’, cioè in uno o due punti del testo, smarrendo la visione d’insieme, infilandosi in vicoli ciechi, in ipotesi o divagazioni sterili.
Kafka ha ritenuto che la parabola della Legge fosse suscettibile di venir considerata un testo autonomo, compiuto, e ha consentito a pubblicarlo nel 1915 in un almanacco letterario. La sua decisione non può venire sottovalutata. Preferisco tuttavia esaminare il testo, anzitutto, nella sua collocazione all’interno del Processo, dunque con la folla delle interpretazioni che lo accompagnano, e che – come ho già osservato – introducono il caos, la pienezza del caos, nella ‘trascendenza’ della legge. Questa proliferazione caotica viene perfettamente colta dal protagonista, quando osserva che “Quella semplice storia era divenuta informe” (Die einfache Geschichte war unförmlich geworden)”. Ma l’accumularsi labirintico delle interpretazioni può essere inteso anche come una descrizione del funzionamento del tribunale: nel frastuono caotico delle interpretazioni è impossibile che si giunga a emanare (e a percepire) un verdetto. Come nel dormitorio del ‘romanzo anericano’ non si riesce a dormire, nel tribunale di Der Process non si riesce a giudicare. Si noti però che questa aporia riguarda soltanto il regime congiuntivo, non quello disgiuntivo che, per quanto dominato e invaso, continua a funzionare. Insomma, poiché il tempo lineare e il principium individuationis non possono venire completamente aboliti, prima o poi un verdetto verrà emesso. Cambia però il valore ‘aspettuale’ della sentenza, che non sarà istantanea bensì durativa. E’ quanto fa comprendere il prete: “la sentenza non arriva d’un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza (Das Urteil kommt nicht mit einemmal, das Verfahren geht allmählich ins Urteil über)”. Dal punto di vista logico, l’identità del processo è scissionale: nel regime congiuntivo, K. non sarà mai giudicato definitivamente, nel regime disgiuntivo sì. I due processi si svolgono contemporaneamente, intrecciandosi.
Non è corretto enfatizzare l’uno, dimenticando l’altro. Nel disordine folle e smisurato del tribunale si manifestano energie sconosciute, la vita (per riprendere un’osservazione di Benjamin) si riappropria della scrittura, l’immanenza strappa al cielo la trascendenza e la disperde, la ramifica, la sparpaglia. Questa confusività è esaltante, ma anche deprimente, e per varie ragioni: per la sua impotenza, in quanto il regime confusivo non sa comunque mantenere la promessa di abolire il regime separativo; inoltre, perché l’identità del branco non appare al singolo come una meta degna di approvazione incondizionata. In ogni esperienza di dissoluzione, egli continua a desiderare la propria identità: “Disconosciti! Distruggiti – per fare di te stesso quello che sei”.
Nessuno dei nostri simili è abbastanza simile per diventare oggetto di un desiderio di identificazione; non resta allora che il desiderio di identificarsi con Legge. Certamente, per Franz Kafka, la Legge è prima di tutto la letteratura: “io sono letteratura e nient’altro”. Abbiamo già detto che tale identificazione è possibile/impossibile, cioè impossibile nella stessa misura in cui è necessaria e torturante.
L’espressione ‘entrare nella legge’ (in das Gesetz eintreten) rinvia al concetto di identificazione? Prima di rispondere – attraverso molte tortuosità ? – occorre osservare la parabola nel suo complesso; e confessare onestamente le proprie esitazioni. Una buona interpretazione è paragonabile a una rete che afferra contemporaneamente tutti gli elementi di un testo; e se alcuni di essi si sottraggono, o s’impigliano in resistenze non superabili, la rete si lacera. Nella parabola kafkiana vi sono alcuni elementi rispetto ai quali sembra di poter procedere con più sicurezza: ad esempio la porta aperta, che allontana la suggestione del commento di Origene ai Salmi, riportato da Scholem: “le Sacre Scritture sono come una grande casa con molte, moltissime stanze. E davanti a ogni stanza c’è una chiave – ma non è quella giusta. Le chiavi di tutte le stanze sono scambiate e confuse: trovare le chiavi giuste che aprono le porte è il compito grande e difficile insieme”; in Kafka la difficoltà non sta nell’aprire – e neanche nel chiudere. Ma vi è anche la bêtise dell’uomo di campagna. Come chiamarla diversamente? Il suo comportamento esemplifica una rigidità ottusa, inaccessibile alla redenzione. Questo mi pare il punto più misterioso: se è vero che l’uomo di campagna rappresenta K., e per alcuni l’Uomo in generale, perché Kafka lo caratterizza come un individuo ostinato fino alla stupidità, e incapace di qualunque trasformazione? Anche la domanda finale (“Tutti aspirano alla legge, come mai in tutti questi anni nessuno ha chiesto di esservi ammesso oltre a me?”), domanda che potrebbe condurre alla scoperta del prospettivismo, arriva troppo tardi, in punto di morte. Se lo riportiamo all’interno del romanzo, il racconto può valere come un ammonimento trasmesso dal prete a K., insomma un invito a non ostinarsi nella rigidità. Nella sua autonomia, il racconto appare più che mai enigmatico. Non è un buon motivo per attenuarne la ferocia, coerente e sproporzionata.