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Differenze di famiglia

Introduzione a “Problemi del personaggio”, (a cura di G. Bottiroli), Bergamo U.P., Il Sestante, Bergamo 2001

“Amleto e Falstaff non sono né esistenti né non esistenti”
(N. Frye, Anatomy of Criticism)

1. Personaggio e persona. L’identità relazionale.

Mi sembra che troppa attenzione e troppe parole siano state dedicate al problema della “realtà” del personaggio e alla differenza tra personaggio e persona. Che un individuo in carne e ossa differisca da una “creatura di carta” è del tutto ovvio; ma l’impulso, così naturale e spontaneo, che spinge a identificarsi con esseri senza viscere – “ces vivants sans entrailles”, così Valéry chiamava i personaggi – non merita di venire giudicato a partire dalle forme di alienazione più vistose. Ci sono state epoche in cui il delirio di identificazione era più diffuso, in cui si credeva nei personaggi e nelle loro storie; così come ci sono personaggi che sono diventati l’emblema di questa confusione (per esempio Don Chisciotte, Madame Bovary). Si è parlato nell’antichità di un contagio, causato da una divina forza, e in seguito di epidemia, di una “follia per identificazione romanzesca”: come se l’identificazione con un personaggio di finzione esponesse davvero con temibile frequenza al rischio di imitare nitriti di cavalli, muggiti di tori, lo scrosciare dei fiumi, i fragori del mare, i tuoni ecc. 1, e come se questa fosse la principale via d’accesso alla “natura” e all’identità del personaggio.

“Credere di essere” un altro: non è questa l’identificazione? Sì, ma non soltanto. Se l’accento cade sul credere, a venir privilegiato è il rapporto tra personaggio e lettore; e allora si continuerà a discutere sullo statuto dell’homo fictus e sul suo pericoloso potere di attrazione. Bisogna peraltro osservare che, nella modernità, non è tanto il lettore ingenuo che viene deriso quanto il critico letterario incapace di stabilire la giusta distanza rispetto a una creatura inesistente; ma in ogni caso si rafforza e si esaspera, sino a farla diventare un luogo comune negli studi letterari, l’alternativa tra l’illusione mimetica e la consapevolezza linguistica: tra l’immedesimazione nel personaggio e la scomposizione di quella “massa di parole” in cui la sua ontologia si esaurisce.

Tramontato l’approccio psicologico, intuitivo, che derivava dalla fiducia di poter penetrare nell’anima dell’autore e dunque nelle sue proiezioni, è stato l’approccio psicoanalitico a dover fare i conti con le insidie di quella vita illusoria, che ogni personaggio conquista così facilmente. Ma quali sono precisamente gli errori di una psicoanalisi del personaggio?

Il primo consiste nell’intendere la psiche prevalentemente come un “contenitore” (di complessi, di archetipi, di conflitti); ma in tal caso l’errore non riguarda solo la psicoanalisi applicata alla letteratura, ma la psicoanalisi stessa. Questa concezione potrebbe venire ammessa solo da un punto di vista topico (e forse resterebbe ancora criticabile); se però ad esso si aggiungono i punti di vista economico, dinamico, e linguistico, l’idea di una psiche-contenitore entra decisamente in crisi 2. Non voglio dire che la domanda “che cosa c’è nella testa, o nella psiche, del personaggio X?” sia del tutto illegittima e improponibile; ma, così formulata, la domanda comporta o favorisce ingenuità non meno deleterie di quelle che conducono alla fallacia illusionista.

Il secondo errore consiste nel far ricorso a una diagnostica più o meno mascherata. È questo l’errore indicato da Lacan, quando dice:

“Amleto non è un nevrotico per la buona ragione che è una creazione poetica; Amleto non ha una nevrosi, ci mostra – ed è cosa completamente diversa – della nevrosi (…) L’eroe è strettamente identico alle parole del testo” 3.

Il terzo errore consiste nell’eliminazione del contesto, cioè nel trattare un personaggio come se fosse isolabile dal testo a cui appartiene. Questo terzo errore è sovente collegato con gli altri due: una volta attirato fuori dal suo legittimo spazio di esistenza, il personaggio viene interpellato con gli stessi strumenti diagnostici e analitici che si usano per le persone viventi. Ancora una volta, però, ho la sensazione che questa scorrettezza, così clamorosamente palese e facilmente criticabile, possa nascondere un altro fraintendimento: d’accordo, l’eroe è strettamente identico alle parole del testo (Lacan), i personaggi sono “gruppi di parole” (word-masses, Forster) 4, ma ciò non implica che l’identità del personaggio sia riducibile alla sfera verbale che esso abita esplicitamente, e di cui appare responsabile in maniera più o meno diretta.

L’identità di un personaggio è legata al sistema dei personaggi di un determinato testo. Dunque l’identità è un fenomeno relazionale, non necessariamente e non sempre circoscrivibile all’interno di un “gruppo di parole”. Il principio metodologico della poetica strutturalista, secondo cui l’identità-valore di un personaggio va cercata nelle relazioni che formano il sistema, potrà venire reinterpretato alla luce dell’esperienza psicoanalitica: allora non avremo semplicemente un insieme di personaggi che interagiscono tra di loro, mantenendo saldi i confini delle rispettive identità; saremo in grado di vedere quei rapporti di sconfinamento, che la psicoanalisi chiama identificazioni. Il concetto di “identificazione” non ci servirà solo per discutere del rapporto tra personaggio e lettore, ma per analizzare i rapporti tra personaggi all’interno del testo.

Possiamo dunque proporre questa definizione: un personaggio è unapossibilità di identificazione – per qualunque lettore, ma anche (e prima di tutto) per gli altri personaggi.

2. Teorie del soggetto: concezione proprietaria e concezione modale.

Questa definizione si applica evidentemente anche alle persone. Ogni essere umano rappresenta per i suoi simili la possibilità di provare sentimenti di simpatia o di antipatia, di amore o di odio, e di non provare alcun interesse: ma oltre a presentarsi come un oggetto di eventuali passioni, ogni persona offre a qualunque altra persona la possibilità di modificare la propria identità, il proprio Sé, mediante un atto di introiezione. Ciò che determina queste modifiche è per lo più il desiderio, il desiderio di essere. Pertanto, se si vogliono studiare i rapporti di identificazione all’interno del testo, bisognerà porre l’accento più sull’essere – e sul desiderio di essere, in tutte le sue forme “sconfinanti” - che non sul credere.

Persona e personaggio si sono dunque riavvicinati; e il motivo fondamentale di questo riavvicinamento sta nell’impossibilità di concepire il personaggio senza far riferimento a una teoria del soggetto. Più di uno studioso è disposto ad ammetterlo. Ad esempio, nel momento stesso in cui deplora le confusioni tra due nozioni diverse, e respinge il continuo ricorso allo psicologismo più banale (Julien Sorel è ipocrita?), Philippe Hamon osserva che “una concezione del personaggio non può astrarre da una concezione generale della persona, del soggetto, dell’individuo” 5.

Ma quali vantaggi potremmo derivare dalla ritrovata vicinanza tra personaggio e persona? L’obiettivo non è certamente quello di far apparire più innocuo e sostanzialmente ammissibile l’atteggiamento che si esprime in enunciati come “Amleto è un nevrotico” o “Julien Sorel è un ipocrita”. Né si tratta soltanto di rivendicare l’importanza dell’approccio psicoanalitico oppure di un approccio ispirato al dibattito filosofico sulla mente e sulla persona (ne riparleremo). Il motivo per cui vale la pena di non separare e di non contrapporre subito, radicalmente, il personaggio e la persona, e di esplorare invece la loro “affinità”, è un altro: né il personaggio né la persona possono venire descritti adeguatamente tramite proprietà o azioni; il loro essere consiste nel modo d’essere, e il modo d’essere non è riducibile a caratteristiche “cosali” o a comportamenti.

La possibilità di chiarire la nozione di “personaggio” appare quindi strettamente legata al dibattito sulla soggettività, sull’identità personale, e sul concetto stesso di “identità”. La teoria del personaggio deve sapersi confrontare non solo con i modelli di soggettività proposti dalle “scienze umane”, ma con la riflessione filosofica. È una necessità che troppo spesso si tenta di eludere. Scriveva il giovane Bachtin :

“ L’estetica della creazione letteraria guadagnerebbe molto se si orientasse più verso l’estetica filosofica generale che verso le generalizzazioni genetiche pseudoscientifiche della storia della letteratura; purtroppo bisogna riconoscere che importanti fenomeni nel campo dell’estetica generale non hanno esercitato alcun influsso sull’estetica della creazione letteraria e che si ha persino una certa ingenua paura davanti all’approfondimento filosofico, il che spiega il livello estremamente basso della problematica della nostra disciplina” 6.

Questa considerazione appare pienamente valida e attuale, soprattutto in relazione al dibattito sul personaggio: che la nozione di personaggio resti tra le più oscure della teoria letteraria, è generalmente ammesso; ciò che viene scarsamente compreso è invece la fecondità del rapporto fra teoria letteraria e filosofia. Non è solo e non è tanto l’estetica, però, a offrire uno straordinario campo di stimoli per approfondire lo statuto del personaggio, quanto piuttosto la riflessione filosofica sull’identità e sulle categorie modali.

Tenterò nelle prossime pagine di giustificare quest’affermazione, indicando una direzione di ricerca; vedremo come l’analisi filosofica possa aiutare la teoria letteraria a liberarsi dalla propria filosofia non dichiarata, inconsapevole (e spesso rudimentale). Ma il rapporto tra filosofia e letteratura non va inteso unilateralmente: tra le distinzioni di cui la letteratura può mostrarela necessità alla filosofia, vi è senza dubbio quella tra proprietà e modi d’essere. Il compito del filosofo non consisterà allora nel chiedersi se questa distinzione è legittima, ma nello spiegare perché essa è legittima: il che implica una revisione di molti concetti fondamentali, e una rilettura dei grandi testi della nostra tradizione.

Non tutti i filosofi saranno peraltro disposti ad ammettere senza reticenze una distinzione che trova nel titolo del romanzo di Musil, L’uomo senza qualità, la propria enunciazione più imperiosa. Quando ha affrontato il tema dell’identità personale, la filosofia lo ha fatto in relazione alle persone, e non ai personaggi: e la distinzione più controversa è risultata quella tra le persone e le cose. Le persone sono soggetti, dotati di coscienza, pensiero, volontà; le cose sono oggetti, privi della capacità riflessiva e dotati soltanto di proprietà fisiche. Il senso comune offre inesauribili conferme a questa differenza, che una parte della filosofia moderna non è tuttavia disposta a riconoscere come fondata.

Negli ultimi decenni si è affermato un programma di ricerca che mira alla “naturalizzazione” della psiche, e che ritiene illusori o inconsistenti quegli aspetti del “mentale” o dello “psichico” che non risultano descrivibili nel linguaggio scientifico; coloro che aderiscono a questo programma sono uniti, al di là delle inevitabili differenze, dalla convinzione secondo cui il soggetto può essere adeguatamente compreso senza far ricorso all’inafferrabile punto di vista della prima persona. Ora, un soggetto interamente descrivibile e accessibile nella sua esteriorità potrebbe ancora rivendicare una differenza radicale rispetto alle cose? Quale specificità potrebbe ancora essere affermata dall’individuo umano, nel momento in cui la sua “anima” appare trasponibile (almeno in linea di principio) da un supporto materiale a un altro, le sue attività appaiono del tutto analoghe a quelle di un elaboratore di informazioni, e la misteriosa unità da cui dipende il privilegio di dire “Io” sembra poter essere scomposta e ridotta a una molteplicità di fattori, nessuno dei quali possiede coscienza o responsabilità?

Nel campo delle neuroscienze, delle discipline cognitive e della filosofia della mente, il dibattito è attualmente incentrato sulle effettive possibilità di naturalizzazione, e dunque sulla possibilità di ridurre la prospettiva in prima persona a una descrizione oggettiva. Credo però che agli studiosi impegnati in questo dibattito sfugga l’esistenza di un presupposto comune, più forte e più profondo della differenza tra i fautori del riduzionismo e gli anti-riduzionisti: si tratta della concezione “cosale” della persona. Nel momento in cui una persona viene intesa come un ente dotato di proprietà bisognerà ovviamente discutere se tali proprietà comprendono solo “un certo numero di capacità funzionali empiricamente accertabili” 7 oppure includono proprietà sostanziali (come quelle che la tradizione metafisica attribuisce all’anima e gli anti-riduzionisti attribuiscono alla mente). Ciò che resta invariata è la concezione proprietaria del soggetto.

È il caso di ribadire che il funzionalismo, e ogni concezione che privilegi le attività e il comportamento, non abolisce la concezione proprietaria. Che la res cogitans smetta di essere uno “spettro nella macchina” e venga completamente assorbita nella macchina stessa, frazionandosi nella molteplicità dei suoi elementi e dei suoi meccanismi, non modifica il suo statuto di res. La vera alternativa alla concezione proprietaria è la concezione modale; la differenza più importante è quella che passa tra le proprietà e i modi d’essere.

Non sto enfatizzando una diversità solo terminologica; quando gli studiosi della mente parlano di proprietà, intendono parlare davvero di “proprietà” (qualità, attributi, predicati). Non si tratta dunque di una scelta lessicale ingenua, che potrebbe venir corretta quasi istantaneamente. Ci sono forti differenze concettuali in gioco.

Che esista una differenza tra proprietà e modi d’essere è dimostrabile solo indicando gli strumenti adatti a percepire lo statuto modale della persona – e del personaggio: sarà infatti nel campo della letteratura che svilupperemo la nostra argomentazione. Dati i legami fra teoria del personaggio e teoria del soggetto, ci muoveremo per un po’ in uno spazio concettuale che interessa entrambe.

4. Che cos’è un individuo? Un nuovo elenco di categorie.

Perché un modo d’essere non potrebbe essere descritto come una proprietà, magari come una “proprietà disposizionale” ? Un termine (o predicato) disposizionale indica la disposizione di qualcosa a comportarsi in un certo modo in determinate circostanze. Ad esempio, “flessibile” indica la possibilità che qualcosa (un arco, ecc) venga piegato senza spezzarsi grazie ad un uso variabile della forza. La flessibilità di un giunco e quella dell’arco di Ulisse, che solo l’eroe greco era in grado di piegare, indicano due estremi in un ambito forse unificato da “somiglianze di famiglia” (in questo caso non si abusa di una nozione a cui si è sempre pronti a ricorrere quando ci si trova di fronte a difficoltà di natura teorica). I termini disposizionali vengono contrapposti ai termini manifesti, i quali designano l’effettiva realizzazione di uno stato di cose. Perciò “flessibile” sarà correlato al termine manifesto “piegato” oppure a “incurvato”, allo stesso modo in cui a “fragile” corrisponde “rotto”, e così via.

Questa distinzione è importante, e ci interessa in quanto comincia farci intravedere il territorio delle modalità: nel rapporto tra il disposizionale e il manifesto s’intravede il rapporto tra possibile e effettuale. Tuttavia gli esempi a cui abbiamo fatto ricorso, e che si ritrovano nei testi dedicati al concetto di “disposizione”, non sono affatto innocenti. Essi si collocano ancora una volta nella dimensione “cosale”. Nel momento in cui attribuiamo la “flessibilità” a una persona oppure a un’opera d’arte, il contenuto del termine si modifica in misura essenziale. Se parliamo di flessibilità in riferimento all’opera d’arte, intendiamo la sua disponibilità ermeneutica, la possibilità che essa cambi identità in virtù di nuove interpretazioni; certamente, potremo dire che abbiamo “piegato” l’opera alle nostre ipotesi, ma questa pieghevolezza differisce notevolmente dalla possibilità di assumere una forma curva (come nel caso dell’arco o del gambo di un fiore). Lo stesso si potrebbe dire per la flessibilità che secondo Montesquieu è la caratteristica essenziale dell’essere umano (l’homme, cet être flexible)8: che gli uomini si pieghino all’azione delle circostanze è un dato che li rende simili agli oggetti flessibili; ma il modo in cui gli uomini sono flessibili non li renderà essenzialmente diversi?

Si potrebbe osservare, con Goodman, che gli archi e i fiori esemplificano alla lettera la “pieghevolezza” mentre gli uomini la esemplificano metaforicamente. Ma quali stimoli si possono trarre da questa distinzione, che peraltro è del tutto legittima e accettabile? Dobbiamo accontentarci di sapere che un arco e un fiore si somigliano in maniera diversa da come un arco somiglia a un individuo umano? Non resta forse del tutto inesplorato il problema di sapere in che cosa consiste la flessibilità della stirpe umana? Per affrontare questo problema dobbiamo andare oltre il “disposizionale”, e entrare con più decisione sul terreno delle modalità.

La teoria classica distingue tre categorie modali: il possibile, l’effettuale, il necessario. Queste categorie sono state definite per la prima volta dalla filosofia greca; le ritroviamo nella tavola delle categorie di Kant, sotto l’etichetta “Modalità”; che la sfera delle modalità si esaurisca nei rapporti tra queste tre categorie è una convinzione implicita, quando non dichiarata, anche nella filosofia successiva.

Vorrei riprendere adesso la proposta di una revisione della teoria classica, che ho già formulato altrove 9, e che si impernia principalmente su questi punti:

  1. il passaggio da una teoria ristretta a una teoria allargata delle modalità: alle categorie tradizionali vanno aggiunte il rigido e il flessibile, il fattuale e il semantico, il denso e l’articolato (e di conseguenza i modi del significato, i “regimi di senso”);
  2. la necessità di una rivoluzione modale, che consisterebbe nel far ruotare le categorie cosali intorno alle categorie modali. Credo che questa rivoluzione sia necessaria per affermare la specificità della filosofia, il suo “idion10.

Dobbiamo dunque chiederci che cos’è l’identità di una persona in una prospettiva modale. Il “nuovo elenco di categorie” sopra menzionato fa intuire subito l’insoddisfazione per le distinzioni più acquisite nel dibattito filosofico: ad esempio la distinzione tra identità numerica e identità qualitativa 11. Mi pare evidente che questa distinzione rimanga tutta interna alla concezione proprietaria. Non meno insoddisfacente è la proposta di Strawson, secondo cui un individuo umano viene identificato anzitutto con un “sortale”, cioè con un termine che indica “di quale oggetto di tratta”. Ma in ogni caso è questo il punto di partenza per chiarire la nostra prospettiva. Proviamo dunque a interrogarci su ciò che rende riconoscibile, e individuabile, un individuo.

5. Oggetti che non stanno al proprio posto.

Il mondo è prima di tutto l’inarticolato: vale a dire, ciò che non conosce divisioni interne alla sua massa, poiché in esso prevalgono i rapporti di congiunzione. Ma questa è una visione astratta: noi non possediamo alcun ricordo di questa condizione, la cui “inizialità” è più logica che cronologica. In realtà, il mondo ci si presenta sempre provvisto di articolazioni: alcune di esse tendiamo a considerarle “naturali”, mentre siamo consapevoli dell’artificialità e della convenzionalità di altre. Scrive Saussure, a proposito delle enormi difficoltà che lo studioso incontra quando cerca di fissare “le entità concrete della lingua”:

“Nella maggior parte dei campi che sono oggetto di scienza, la questione delle unità non si pone affatto: esse ci sono date immediatamente. Così, in zoologia, è l’animale che ci si offre dal primo istante. L’astronomia opera altresì su delle unità separate nello spazio: gli astri …” 12.

Al contrario,

“La lingua non si presenta come un insieme di segni delimitato preliminarmente” 13.
“La lingua presenta questo carattere strano e stupefacente di non offrire entità percepibili immediatamente, senza che si possa dubitare tuttavia che esse esistono e che proprio il loro gioco costituisce la lingua” 14.

Non vorrei però soffermarmi sull’opposizione tra naturale e convenzionale, un’altra di quella “coppie” a cui è stata dedicata un’eccessiva attenzione. Se anche arrivassimo a concludere che non esistono divisioni “naturali” (e che Saussure, a proposito delle Naturwissenschaften, si esprime con una certa ingenuità epistemologica), questo avrebbe scarso rilievo per il nostro discorso. Ciò che conta non è stabilire se le articolazioni siano dipendenti o indipendenti dal soggetto 15, ma imparare a distinguere fra i diversi tipi di articolazione.

Il primo tipo - il più legato al senso comune - è quello delle articolazione separative : gli oggetti ci si presentano chiusi nei loro contorni e disponibili alla nominazione. Ogni ambiente e ogni oggetto separativo è generalmente suscettibile di ulteriore scomposizione, sempre nel medesimo stile. La descrizione realista procede esattamente in questa direzione: un soggetto competente osserva e smonta l’oggetto della propria attenzione (un esempio eccellente è l’inventario di un negozio in Au bonheur des dames di Zola 16).

Nell’ambito del secondo tipo rientrano le articolazioni che tentano di afferrare oggetti vaghi, cioè oggetti non provvisti di confini precisi e di cui tuttavia il senso comune non oserebbe negare l’esistenza. Si pensi ai tentativi del signor Palomar di guardare un’onda:

“non sono “le onde” che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso” 17.

La difficoltà, facilmente constatabile, di tracciare i precisi confini di un’onda non ci impedisce di continuare a pensare al mare come a un ente frazionabile, composto di una somma indeterminata di unità parzialmente indeterminate.

I primi due tipi di oggetto sono meno distanti tra loro di quanto il dibattito sulla categorizzazione, condotto da psicologi e filosofi, faccia credere. Più accentuata appare la differenza tra i primi due tipi e il terzo, che verrà ora esemplificato mediante un passo del Portrait di Joyce in cui si esprime la difficoltà (o la reticenza) a comprendere le metafore. A Dante, un’amica della famiglia Dedalus, non piaceva che Stephen giocasse con Eileen,

“because Eileen was a protestant and when she was young she knew children that used to play with protestants and the protestants used to make fun of the litany of the Blessed Virgin. Tower of Ivory, they used to say, House of Gold! How could a woman be a tower of ivory or house of gold? 18.

Stephen trova la risposta – nell’oggetto, o grazie all’oggetto, del suo desiderio:

“Eileen had long white hands. One evening when playing tig she had put her hands over his eyes: long and white and thin and cold and soft. That was ivory: a cold white thing. That was the meaning of Tower of Ivory19.
“She had put her hand into his pocket where his hand was and he had felt how cool and thin and soft her hand was. She had said that pockets were funny things to have: and then all of a sudden she had broken away and had run laughing down the sloping curve of the path. Her fair hair had streamed out behind her like gold in the sun. Tower of Ivory. House of Gold. By thinking of things you could understand them” 20.

Gli oggetti del terzo tipo si presentano come oggetti paradossali: nessuno di essi sta al proprio posto. Tale caratteristica nasce dal fatto che questi oggetti non sono definibili – se non apparentemente e riduttivamente - mediante un insieme di proprietà. Si noti come Joyce utilizzi due insiemi o elenchi, il primo (long and white and thin and cold and soft) per indicare le mani di Eileen, e il secondo, più breve (cold white), per l’avorio: ma l’avorio, collocato tra i due elenchi, risulta appartenere a entrambi. Così il primo elenco anticipa metaforicamente un oggetto, che torniamo a percepire nella sua letteralità grazie alle proprietà riunite nel secondo; il passaggio dall’uno all’altro è del tutto improvviso (nonché arbitrario, da un certo punto di vista) ma anche fluido: la presenza del tratto “soft” (forse anche di “thin”) dovrebbe ostacolare il processo, e invece, in qualche modo, scatta un meccanismo di trasposizione e di selezione: la metafora. Il risultato non è un oggetto definito e circoscritto dalle sue proprietà, bensì un oggetto descritto mediante un altro oggetto. “Maria-Torre d’Avorio” è un oggetto diviso (da una scissione congiuntiva): una volta presa nella metafora, Maria non è più una determinata ragazza ebrea, con un preciso profilo biografico: sì, lo è ancora, ma nello stesso tempo viene sottratta al contesto spazio-temporale che la individuava, e si trasforma in una torre d’avorio. Una torre che nessun deittico potrebbe mai indicare.

Perciò un oggetto paradossale o diviso “non è al proprio posto”. Inutile cercarlo là dove esso non è, benché sia soltanto in quel luogo che possiamo cercarlo.

Si obietterà che gli oggetti paradossali non esistono, se non come costruzioni linguistiche. Ebbene, non esistono nella realtà effettuale, nella Secondità (Peirce). Ma ciò non implica che essi non appartengano all’essere, e che siano privi di “realtà”. Che l’essere debba venir inteso nel senso dell’”esistere”, dell’esistenza empirica, anziché nella pluralità dei suoi modi, è una decisione che non può venir presentata come ovvia 21.

La metafora è un tipo di articolazione: solo che non è un’articolazione “proprietaria”, non separa un oggetto dal resto dell’universo collegandolo a un insieme specifico di tratti, alla somma che circoscrive solo quell’oggetto (o quella classe di oggetti); la metafora stabilisce una relazione che fa vacillare l’identità separativa – tant’è vero che, presa alla lettera, essa appare come un category mistake22. Il carattere relazionale della metafora si rispecchia nella formula lacaniana, lievemente corretta, “un significante rappresenta un oggetto per un altro significante” 23.

E gli individui umani? A quale tipo di oggetti somigliano, o meglio, quale tipo di articolazione è più adatto a descriverli? Un essere umano è un individuo “delimitato”? Si direbbe di sì, se si fa riferimento alla componente corporea: ma le nuove tecnologie rendono problematica questa convinzione; un individuo collegato a protesi di vario genere stabilisce con l’ambiente e con altri uomini una relazione ambigua e induce – almeno in un certo numero di casi - ad ammettere la possibilità che una persona sia un “oggetto” vago.

Ma, per quanto indeterminati e permeabili siano i suoi confini, un oggetto vago ha un suo posto, una sua collocazione spazio-temporale: la grande ondata che rovescia l’imbarcazione x nel giorno y non può essere confusa con un’onda di analoghe dimensioni che si abbatta sulla superficie del mare un’ora dopo, nello stesso punto. Non c’è niente o quasi niente di paradossale, negli oggetti vaghi.

Gli individui umani sono invece – questa è la tesi della psicoanalisi di Freud e di Lacan – entità paradossali, tagliati da frontiere “interne”. Come abbiamo già ricordato, per la psicoanalisi l’identità di una persona è il risultato di molteplici processi di identificazione: ora, l’identificazione somiglia alla metafora (e non a caso Lacan ha usato lo schema della metafora per illustrare l’accesso al Simbolico) in quanto determina l’identità di un individuo non mediante una serie di proprietà ma in relazione ad altri individui. Nel momento in cui una persona si identifica con un’altra, essa non coincide più con se stessa – non è più unicamente presso di sé: non è più al proprio posto.

Che quella persona possa ancora venir descritta mediante dati biografici che ne attestano la continuità, la riconoscibilità, e la possibilità di considerarlo come un soggetto responsabile, portatore di diritti e di doveri, che quella persona appartenga a un mondo e a un tempo determinabili con precisione, non esaurisce la sua identità. Può bastare da un punto di vista giuridico; ma ciò che è descrittivamente adeguato sul piano giuridico appare insufficiente, e addirittura fuorviante, quando ci si pone in un’altra prospettiva. Chi insiste nel considerare gli esseri umani come oggetti separativi o come oggetti vaghi, rinuncia alla possibilità di comprendere quel tessuto di relazioni che è la vera identità del soggetto.

6. Personaggi e Peirce.

Torniamo al personaggio. Sono stati indicati i limiti della concezione “proprietaria” e della concezione “fattuale”, limiti che la ricerca narratologica – da Propp a Lévi-Strauss, da Barthes a Greimas – non sembra essere stata in grado di superare. La narratologia ritiene che un personaggio abbia un’identità: il suo “essere” viene sostanzialmente risolto nel suo “avere” e nel suo “agire”. Nella prospettiva che qui viene delineata, invece, il personaggio è un’identità, e dunque va studiato mediante una teoria dell’identità. Usando il linguaggio di Heidegger, potremmo dire che la narratologia considera il personaggio come un ente, un ente intramondano, anche quando si sforza di comprenderlo nel suo essere.

La semiotica si è mostrata incapace di studiare il personaggio nei suoi modi d’essere – quando si occupa di modalità, la semiotica ne ignora la dimensione filosofica, si muove in uno spazio ontico e non ontologico 24. In questa insufficienza vi è qualcosa di clamoroso, perché nei testi di uno dei fondatori del pensiero semiotico moderno, e cioè Peirce, i narratologi avrebbero potuto trovare le indicazioni per una teoria del personaggio diversamente orientata. Chi ha saputo invece cogliere la ricchezza del pensiero di Peirce, non solo in relazione al problema delle immagini ma anche per una riflessione sul personaggio, è stato un altro filosofo, Gilles Deleuze, nei due volumi dedicati al cinema. A questi testi faremo ora riferimento, ma con l’obiettivo di risalire al nucleo forse più essenziale della filosofia peirciana, vale a dire il problema delle categorie.

Peirce tenta di elaborare un nuovo modello categoriale già negli anni della giovinezza 25. Tale modello, che ha sin dall’inizio un carattere triadico, giunge ad una formulazione più soddisfacente in alcuni manoscritti elaborati tra il 1885 e il 1898. Al primo di essi è stato assegnato il titolo “Uno, due, tre: categorie fondamentali del pensiero e della natura” 26. Qui, dopo aver reso omaggio a Kant, “il re del pensiero moderno”, e alla sua convinzione sull’importanza delle tricotomie o triplici distinzioni, Peirce introduce la propria concezione e denomina le categorie fondamentali Primo, Secondo e Terzo. Nel manoscritto 898, datato 1895-96, Peirce presenta in forma concisa ma più sviluppata e accessibile il suo pensiero: divide tutti gli “oggetti” in monadi, diadi e triadi, e procede alle definizioni.

All’idea di monade, in realtà, non corrisponde un oggetto (“un oggetto si presenta come del tutto opposto a me”, ibid., p. 40), bensì una qualche determinazione o peculiarità (suchness):

“Immaginate che mi svegli e che, mentre sono ancora in uno stato di assopimento, provi una vaga sensazione di rosso, di salato, di sofferenza, di dolore o di gioia, o senta una nota musicale prolungata, che non posso riferire né ad un oggetto, né tanto meno ad un soggetto. Tale sarebbe, per quanto è possibile indicarlo, uno stato di feeling puramente monadico. Ora, per trasformare tale nozione psicologica, o logica che sia, in un concetto metafisico, dobbiamo pensare alla monade metafisica nei termini di una pura specie o qualità, in sé priva di parti o caratteristiche, e non realizzata” (ibid., 41).

Una pura monade è dunque una possibilità - qualcosa di anteriore all’esistenza e alla legge.

Una diade consiste invece in “due soggetti condotti all’unità (oneness)” (ibidem). Questi soggetti presentano, nella loro connessione, un modo d’essere come primo e secondo.

“Come esempio di diade, prendete il seguente: Dio disse: “Sia fatta la luce”, e la luce fu. Non dobbiamo pensare al fatto che questo è un verso della Genesi, perché la genesi rappresenterebbe una terza cosa (…) Dobbiamo semplicemente pensare a Dio mentre crea la luce con un semplice fiat. Non come se il fiat e l’apparire della luce fossero due fatti distinti, ma come se tutto ciò apparisse in un unico, indivisibile evento. Dio e la luce sono i soggetti. L’atto di creazione va considerato non come un qualsiasi terzo oggetto, ma semplicemente come la peculiarità (suchness) della connessione tra Dio e la luce. La diade è l’evento: essa determina l’esistenza della luce e l’atto della creazione da parte di Dio (…)”.

Con la diade entriamo nello spazio dell’azione, della realizzazione, insomma della seconda categoria modale: l’effettualità. Peirce spiega di aver scelto questo esempio perché qui l’evento

“può venire raffigurato come qualcosa di istantaneo. Se fosse intervenuto un processo di qualsiasi genere tra l’atto causale e l’effetto, esso avrebbe costituito un elemento mediano o terzo. Terzità, in senso categoriale, equivale a mediazione. Per questa ragione, la pura diadicità è un atto di volontà arbitraria o di forza cieca: se ci fosse infatti qualche ragione, o legge, che la governasse, questa svolgerebbe una funzione mediatrice tra i due soggetti e da ciò deriverebbe la loro connessione. La diade è un evento individuale, quale si presenta esistenzialmente; in essa non vi è alcuna generalità. L’essere di una qualità monodica è una mera potenzialità, priva di esistenza. L’esistenza è puramente diadica” (ibid., 42).

Dato il loro grado di astrazione, le categorie di Peirce ammettono diverse prospettiva di lettura, e non solo la prospettiva modale, che sto adottando; mi sembra però che la componente modale di questa triade non possa venir sottovalutata. Affermazioni come “L’essere di una qualità monadica è una mera potenzialità, priva di esistenza. L’esistenza è puramente diadica” confermano una chiave di lettura che assegna a Peirce un ruolo decisivo nella riflessione occidentale sul modus.

Monade e diade vengono poi frequentemente designate come Primità (Firstness) e Secondità (Secondness):

“Nell’Idea di Realtà la Secondità è dominante: reale è infatti ciò che insiste, aprendo a forza una via verso il riconoscimento di sé come qualcosa d’altro da una creazione mentale (…)”

Il reale è attivo, e noi lo riconosciamo nel momento in cui lo definiamo attuale (tale parola nasce dall’uso aristotelico del termine energheia, azione, per significare esistenza, in quanto opposta a uno stato meramente germinale” (1896-97 ca., p. 47).

Con la Terzità passiamo sul terreno del linguaggio, dell’intelligenza, delle leggi e delle regole (in un’accezione ampia). Nel manoscritto che stiamo menzionando Peirce formula un esempio in cui si può cogliere tutto il dinamismo categoriale: descrive una cuoca che vuole preparare una torta di mele –

“una buona torta, fatta di mele fresche, con una crosta piuttosto leggera e un poco bassa, né troppo dolce, né troppo aspra, ecc. Non si tratta, però, di nessuna particolare torta di mele: essa va infatti confezionata per l’occasione, e la sua unica particolarità sta nel fatto che va cucinata e mangiata proprio oggi. Per far ciò, ci vogliono delle mele; e ricordandosi che ce ne è una cassetta in cantina, la cuoca scende e prende quelle che sono sulla sommità e più a portata di mano. Questo è un esempio di come si segue una regola generale. La cuoca si dirige a prendere le mele; ella ha visto molte volte quelle cose che vengono chiamate mele e ha notato la qualità che esse hanno in comune. Sa dunque come trovare ora quel tipo di cose, e qualunque mela farà al caso suo, purché sia buona e matura al punto giusto” (ibid., pp. 48-49).

La cuoca è mossa da un desiderio – dall’idea “di quanto sarebbe delizioso per me, che sono maestra nell’arte del cucinare, mangiare una torta di mele”. Il desiderio di rivolge alle qualità, e tuttavia non a qualità astratte bensì a oggetti che le possiedono, e così rendono l’idea realizzabile:

“Nel suo intero procedere, ella persegue un’idea o un sogno senza alcun particolare riferimento a questo o a quello (without any particolar thisness or thatness) – o, come anche si dice, senza alcuna ecceità - , ma tale sogno ella desidera realizzarlo in connessione con un oggetto d’esperienza che, in quanto tale, possiede effettivamente ecceità” (ibid., 50).

In questa circostanza vediamo le tre categorie assumere una forma fenomenica, con buona coordinazione. La percezione del colore delle mele, la sensazione al tatto, appartengono alla Secondità; il desiderio (la previsione del sapore) è una Primità che anticipa gli oggetti e li oltrepassa; l’arte culinaria è una Terzità:

“Nel sogno stesso non prevale alcuna Terzità; esso è, al contrario, totalmente irresponsabile, è ciò che più gli piace. L’oggetto d’esperienza, essendo una realtà, è un Secondo. Ma il desiderio di provare ad unire l’uno all’altro è un Terzo, o medio.
Così è per ogni legge di natura” (ibidem).

La cuoca di Peirce è un personaggio. Peirce non ha indicato il mondo dei personaggi come uno dei “principali travestimenti assunti dalle categorie” (ibid., p. 46), ma l’esempio della cuoca ci invita ad approfondire questa eventualità. Quali sono le categorie “indossate” dalla donna? Primità, Secondità, Terzità sono egualmente necessarie per descrivere il suo comportamento? Ciascuna di esse è indispensabile, ma la loro “miscela” appare dominata dalla Secondità. Anche se la protagonista di quest’esempio mantiene una certa indeterminatezza (non sappiamo nulla di lei, tranne che – lo abbiamo postulato – è una brava cuoca), e anche se la sua azione viene notevolmente smaterializzata dall’analisi concettuale, ci troviamo in un contesto concreto: qui domina il principium individuationis.

Si comprende facilmente come la maggior parte dei personaggi di finzione appartenga al campo della Secondità: tutti i personaggi subordinati all’azione, tutti coloro che sono dotati di un nome e che sono “individuati” da un breve elenco di tratti, esemplificano la Secondness. È questa la via più facile e più immediata per costruire un personaggio.

La Primità risulta assai più difficile da costruire e da definire. In quanto potenza non attualizzata, come potremo incontrarla concretamente in una narrazione? Ebbene, non la incontreremo in forma pura, se non nello sforzo estremo di sottrarsi all’individuazione: le esperienze di soglia – eccessi, trasgressioni – tendono alla Primità. Ma non in modo automatico: non basta evocare un’esperienza di dissoluzione, ad esempio una storia violenta, per sospendere la coazione del separativo.

Consideriamo le diverse versioni che riguardano la vicenda della famiglia Cenci 27. Da un lato vi è l’attrazione esercitata dall’impianto “realistico”, mimetico: la cronaca del 1660 si caratterizza per i dettagli crudi (“il boia prese la mazza e gli diede a due mani nella tempia destra, per la quale cadutone replicò cinque o sei altre mazzate e poi, postosi la mazzuola sotto la gola, un ginocchio sul petto, un piede su la fronte lo scannò e subito gli aprì il petto con una accetta e poscia spogliatolo lo squartò”). Dall’altro lato vi sono le rielaborazioni di Stendhal, Shelley, Artaud: in ciascuna di esse troviamo delle attenuazioni e delle ellissi, che riducono e in alcuni punti annullano l’effetto traumatico della versione cronachistica. Vale la pena di interrogarsi sui motivi che possono avere indotto gli scrittori a “impoverire” la crudeltà, o piuttosto a spostarla nella mente del personaggio principale.

Una ricostruzione fedele avrebbe imposto il linguaggio della Secondità, un linguaggio diretto, mimetico, in cui si troverebbero la replica scrupolosa dei particolari più traumatici, e la sequenza precisa di gesti “insopportabili”. Ma, come ha osservato Barthes, il linguaggio diretto rischia sempre di essere invischiato in altre parole, in formule preesistenti; la lingua del mondo presume di nominare con esattezza gli eventi, e tuttavia scivola involontariamente e con effetti grotteschi nel “troppo nominato”:

“Spesso si sente dire che spetta all’arte esprimere l’inesprimibile; bisogna invece dire il contrario, (senza alcuna intenzione di paradosso): tutto il compito dell’arte è inesprimere l’esprimibile, sottrarre alla lingua del mondo, che è la povera e potente lingua delle passioni, una parola altra, una parola esatta28.

L’esattezza della ricostruzione non va necessariamente cercata, ad esempio, nella voluminosità del seno di Lucrezia, che costringe il boia a estenuanti preparativi, o in altri dettagli di questo genere, che indeboliscono la solennità di una cerimonia feroce. In ogni caso gli scrittori hanno preferito evitare che i dettagli “fattuali” proliferassero e si sono concentrati sull’identità del vecchio Cenci, assegnando a questo personaggio un sorprendente tratto di “purezza” . Non può trattarsi, evidentemente, di una purezza etica; qui il termine “puro” non si oppone a “impuro” ma piuttosto, come il “trascendentale” in Kant, a “empirico”. Se il vecchio Cenci è un seduttore puro 29, un criminale puro, ciò accade in quanto egli non mira semplicemente all’oggetto: l’azione di “sedurre” potrebbe essere una Secondità, dove 1 è la vittima e 2 il libertino; in tal caso 3 sarebbe un terzo accidentale, ad esempio Ottavio nel Don Giovanni di Mozart. Nella versione di Stendhal invece la Terzità è la relazione stessa, in quanto azione “mentale” e non banalmente empirica.

Restiamo per istante a Mozart. Il semplice shock prodotto dal seduttore ci manterrebbe all’interno della diade, e infatti per Elvira l’unico modo di rendere tollerabile la propria ferita è quello di rivolgersi ancora alla causa del manque (“mi tradì quell’alma ingrata”). Che cosa vuole Elvira? Ancora e di nuovo Don Giovanni. Tuttavia la seduzione, così come l’esprime la musica di Mozart 30, non è una dualità che tende all’uno (oneness), non è un’azione che provoca una reazione, e non dipende da quel soggetto e da quell’oggetto. Che non ci sia relazione “individuale” tra Don Giovanni e le sedotte, è il catalogo ad affermarlo; in esso – nella Terzità – ciascuna donna risulta indifferente, intercambiabile, oltrepassata dalla seduzione.

Naturalmente ogni relazione può degenerare, la Terzità può ridursi a Secondità, a semplice urto, a scontro: “Nessun rapporto umano è possibile tra esseri che sono nati solo per sopraffarsi l’un l’altro e che ardono dal desiderio di sbranarsi” 31, dice il vecchio Cenci, e nella necessità del “disumano”, che egli indica, si coglie la volontà di superare l’ambito di una sopraffazione reciproca e cieca, per stabilire una vera signoria. Così il vecchio sfida la notte e dichiara di poterla sconfiggere. Diversamente che in Sofocle, qui l’incesto non è il confusivo, bensì un atto di volontà smisurata, che vuole forgiare il destino.

7. Un modello strategico per le categorie.

Nel “nuovo elenco” di Peirce, le categorie modali – e comunque, la prospettiva modale – assumono un’importanza inedita: non sono, come in Kant e nella tradizione filosofica, categorie “che non aggiungono nulla” all’identità dell’ente considerato, e che si limitano a esprimere i rapporti del soggetto con un oggetto già costruito; è vero, non aggiungono determinazioni “cosali”, ma fanno emergere differenze tra possibili prospettive; aggiungono distinzioni, e così modificano il senso. Ad esempio, e lo abbiamo visto, la Legge dovrebbe essere una Terzità; però ci sono situazioni in cui essa è una Terzità degenerata e corrisponde realmente ad una Secondità, cioè ad un ostacolo per una forza che vuole abbatterlo o spezzarlo; in queste situazioni il trasgressore è un individuo “individuato”, limitato dai suoi limiti; invece un trasgressore che retrocede alla Primità, alla “purezza”, per assorbire il non-identico e per immergerlo nel cuore della Legge, è un individuo che sfugge al principium individuationis32. Bisogna quindi analizzare l’”identità categoriale” del personaggio-eroe, se si vuole comprendere il significato delle sue azioni.

Per un’analisi di questo genere, il modello di Peirce appare insufficiente. Anzitutto perché esso presuppone che qualunque significato sia “proporzionato” all’azione che lo manifesta. Quale significato dobbiamo attribuire all’evento “preparazione di una torta di mele da parte di un’abile cuoca”? È chiaro che qui il senso ha un carattere meramente fattuale. Secondo Peirce “per sviluppare il significato di qualsiasi cosa, dobbiamo semplicemente quali abiti produce, perché ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che comporta” 33. Questa definizione si adatta bene ai casi che dipendono da una semantica “fattuale”, cioè ai casi in cui non c’è sproporzione tra attore, azione, effetti. Ma si adatterebbe egualmente bene a quello di Amleto? In proposito Harold Bloom dice:

“Tutto quello che Amleto deve fare (ammesso che veramente lo debba fare), è abbattere Claudio. Non serve un Amleto per vendicare un padre; un Fortebraccio sarebbe più che sufficiente. Ci chiediamo dunque che cosa possa aver spinto Shakespeare a istituire una tale sproporzione (this amazing disproportion) tra personaggio e impresa” 34.

Se Amleto fosse un esempio di Secondness, lo vedremmo esitare di fronte all’azione da compiere così come una cuoca indugia davanti a un vassoio traboccante di mele, cercando di scegliere quelle mature al punto giusto. Il “maturare” dell’azione di Amleto è invece vincolato a un insieme di condizioni che solo una semantica divisa, una semantica dei regimi di senso, potrebbe descrivere. Dice Lacan: “Qualunque cosa Amleto possa fare, la farà solo nell’ora dell’Altro” 35.

Non possiamo impegnarci adesso in un’analisi dell’Amleto, e dell’interpretazione lacaniana. In ogni caso l’affermazione prima citata allude a un’”origine” delle azioni che non può essere rintracciata né in altre azioni né semplicemente nell’identità del personaggio, se con identità si intende un soggetto compatto, unario, indiviso. Non si tratta dunque di discutere ancora una volta se siano di maggiore importanza le azioni (e le trame) oppure i personaggi, bensì di imparare a distinguere tra identità di diverso tipo..

C’è sproporzione tra personaggio e azione solo quando il personaggio appare come portatore di una pluralità di stili di pensiero. C’è proporzione – e dominanza della semantica fattuale – quando i personaggi sono “monostilistici”.

Dalla pluralità degli stili, e dalla loro reciproca tensione, deriva la possibilità di una mente complessa e flessibile: qualità difficili da conservare a lungo, e di cui i testi letterari ci mostrano la rarità.

Ecco accennati, molto rapidamente, i motivi per cui il modello di Peirce (ma anche la sua ripresa da parte di Deleuze) appaiono inadeguati: la teoria di questi due autori ignora le scissioni tra rigido e flessibile, tra semantico e fattuale, tra i modi del senso. Ho cercato di spiegare altrove come sia necessario che la teoria classica delle modalità venga radicalmente trasformata: chiamo strategico questo nuovo modello perché la flessibilità – che è la virtù strategica per eccellenza – oltre a svolgere il ruolo di motore delle divisioni, indica un tipo di intelligenza, di razionalità, che si manifesta in tutte le attività strategiche (in forme e gradi estremamente diversi).

8. Il medesimo e lo stesso. Dalla nave di Teseo alla frase di Proust.

Ci si chiederà, a questo punto, se il nuovo elenco delle categorie modali sia completo; si potrebbe osservare che nozioni come quelle di “tempo”, di “bellezza” e di “identità” dovrebbero venire inserite nel modello strategico per gli stessi motivi per cui è stata introdotta la nozione di “significato”, e cioè per l’inadeguatezza di qualunque analisi cosale o fattuale. Indubbiamente il tempo è misurabile, la bellezza può essere intesa come una proprietà, il significato può venire scomposto in una serie di elementi (è così che opera la semantica componenziale), e l’identità può venire considerata come identità numerica oppure qualitativa: ma queste possibilità di analisi si lasciano probabilmente sfuggire aspetti decisivi, ed è perciò che va affermata la necessità di una prospettiva modale.

L’elenco delle categorie modali va arricchito, ma senza creare ridondanze. Per quanto riguarda l’identità, la prospettiva modale suggerisce di introdurre la distinzione tra “il medesimo” e “lo stesso” – una distinzione proposta da Heidegger ma che si può sicuramente rintracciare nella filosofia di Nietzsche. Dice Heidegger:

“das Selbe non si identifica mai con l’uguale, e neppure con la vuota uniformità del puramente identico” 36.
“Ma lo stesso (das Selbe) non è l’eguale (das Gleiche). Nell’uguale scompare la diversità. Nello stesso appare la diversità” 37.

Cerchiamo di approfondire e di determinare con sufficiente accuratezza il contenuto di queste due nozioni. Il punto di partenza è un’opposizione puramente intuitiva: esasperare la differenza tra due termini che nel linguaggio quotidiano vengono considerati sinonimi è un gesto filosofico che ad alcuni potrà apparire suggestivo, ad altri inconsistente e immotivato. Quali sono dunque le ragioni per introdurre questa differenza? Ci sono casi paradigmatici, in grado di giustificarne immediatamente la plausibilità?

Più di uno scrittore ha affermato di aver sempre scritto la stessa opera, la stessa poesia, la stessa frase. La stessa o la medesima? Esiste un personaggio di finzione, Jack Torrance, che in Shining – nella versione filmica di Kubrick – scrive sempre la medesima frase (“le ore del mattino hanno l’oro in bocca”), moltiplicandola sulla superficie di centinaia di fogli, e limitandosi a variare i caratteri grafici, l’interlinea e la disposizione delle frasi. Queste piccole variazioni non incrinano la medesimezza; se diciamo invece – e senza dubbio lo si può dire – che Proust ha sempre scritto la stessa frase 38, intendiamo mettere l’accento sull’inconfondibilità di uno stile, di cui conosciamo le innumerevoli variazioni.

La differenza tra Jack Torrance e Marcel Proust non ha bisogno di essere argomentata. Possiamo allora considerare il medesimo e lo stesso come due categorie che, in quanto indicano modi d’essere, vanno inserite nell’elenco delle categorie modali? Prima di rispondere bisogna valutare la loro irriducibilità alle categorie che formano il nucleo della teoria “allargata”: che cosa significa attribuire a un oggetto, a un’opera, a una persona o a un personaggio, un’identità che ha il tratto della medesimezza? Un’identità che resta la medesima è chiaramente un’identità rigida – così rigida da bloccare la vita dell’intelligenza, quel dinamismo e quella eterogeneità che rappresentano le condizioni della salute psichica. Per contro, un’identità in grado di ospitare la differenza e di tollerare una continua metamorfosi è un’identità flessibile.

Se però il medesimo e lo stesso sono riportabili al rigido e al flessibile, sono ancora valide le ragioni che ci spingevano ad ampliare ulteriormente l’elenco delle categorie modali? O non dovremmo limitarci a dire che la distinzione tra medesimo e stesso è la forma assunta dalla distinzione tra rigido e flessibile in rapporto al problema dell’identità? In assenza di altre considerazioni, credo che sia quest’ultima la soluzione più persuasiva.

Ricoeur ha riproposto la differenza tra das Selbe e das Gleiche utilizzando i termini di idem e di ipse. Discuterò più avanti la posizione di Ricoeur; comunque il titolo del mio saggio, “Non idem, non ipse”, lascia facilmente intuire l’insoddisfazione nei riguardi di una concezione che non sa affrontare le scissioni dell’identità e non sa comprendere i veri limiti della concezione proprietaria. Non basta opporre il “chi” al “che cosa”, e non basta neanche enfatizzare il ruolo del tempo e la dimensione etica. Perché il tempo è modus, il soggetto è un soggetto diviso, l’identità dipende dagli stili, e la razionalità etica dovrà misurarsi con la razionalità strategica.

Il programma di ricerca qui delineato appare di una vastità sconfortante. D’altronde, che la logica della flessibilità – la Metis – debba penetrare nel cuore dei problemi filosofici, è un’idea ancora nuova per l’Occidente 39. Ma una volta riconosciuta questa necessità, non rimane altro da fare che tentare di attuarla. Proviamo dunque ad aggiungere qualcosa sulla flessibilità e sull’identità.

Supponiamo – l’esempio viene già discusso dagli antichi – che la nave con cui Teseo tornava in patria abbia subito delle modifiche, e che ciascuna delle tavole che la compongono, a causa del deterioramento, sia stata sostituita. Alla fine di questo processo di sostituzione, la nave è ancora la medesima (o la stessa)? L’ambiguità di questi termini è stata rilevata da molto tempo; parliamo di identità in senso numerico o in senso qualitativo? Se, come immagina Hobbes 40, qualcuno avesse conservato le vecchie tavole, nell’ordine in cui venivano tolte, e tenendo conto di questo ordine avesse rifatto la nave, potremmo dire che le due navi sono identiche? Numericamente no.

Così come non sarebbero numericamente identiche “La tempesta” di Giorgione e una sua copia, perfettamente fedele e indistinguibile dall’originale. Dobbiamo però chiederci se al puzzle rappresentato dalla nave di Teseo siano state rivolte tutte le domande filosoficamente possibili, e rilevanti. La moderna tradizione filosofica che ha fatto riferimento a questo puzzle – da Hobbes a Locke, sino a Neurath e Quine - non ha forse dimenticato, in nome di altre distinzioni, la distinzione tra il medesimo e lo stesso? Il dibattito che si è svolto finora nell’ambito della filosofia analitica non è forse un dibattito sul medesimo? Certamente è un dibattito che privilegia l’opposizione tra l’uno e il molteplice; e se anche questa fosse una delle opposizioni, la cui importanza va ridimensionata? La ramificazione dell’uno, il branching, l’io multiplo, non potrebbero rappresentare casi meno interessanti e meno complessi rispetto alla “non-ramificazione” dello stesso?

Si tratta dunque di valutare se la “tradizione sinonimica” – potremmo chiamare così la corrente di pensiero che ignora o respinge la differenza tra das Gleiche e das Selbe – sia in grado di affrontare i problemi dell’identità personale, così come vengono presentati dalla letteratura, dalla filosofia di Nietzsche e di Heidegger, e dalla psicoanalisi.

9. Esperimenti. Il soggetto ramificato e il soggetto diviso.

La possibilità di una ramificazione del soggetto viene descritta da Parfit mediante un esperimento mentale fantascientifico 41. Un individuo X entra nel “teletrasportatore”: questa macchina distrugge il suo cervello e il suo corpo, registrando nello stesso tempo lo stato preciso di tutte le sue cellule; trasmesse alla velocità delle luce, tali informazioni raggiungono Marte dove un replicatore, utilizzando nuova materia, crea un cervello e un corpo perfettamente eguali a quelli di X. È in questo corpo che il protagonista dell’esperimento si sveglia dopo tre minuti.

Si può discutere se la replica di un individuo è ancora quell’individuo (il quale avrebbe semplicemente trovato un modo più veloce di viaggiare) oppure no: alcuni studiosi ritengono che, nel momento in cui viene disintegrato, X muoia e che la sua replica sia qualcun altro esattamente eguale a lui.

In una seconda versione, X entra nel teletrasportatore, preme il pulsante verde che dà inizio al processo, ma non perde coscienza. Allora esce dalla cabina e segnala a chi lo assiste un difetto nel funzionamento della macchina. Con sua grande sorpresa apprende che il nuovo scanner ha registrato la copia senza distruggere l’originale e che, di lì a poco, egli avrà la possibilità di comunicare con la propria replica. Mentre si accinge a esaminare, anzitutto sul piano filosofico, le conseguenze di questa duplicazione, X viene informato che, a causa dell’imperfezione del nuovo scanner, il suo sistema cardiaco è stato danneggiato; la sua replica su Marte godrà ottima salute, mentre egli sarà probabilmente colpito da una collasso cardiaco entro pochi giorni.

Sul valore euristico degli esperimenti mentali sono state avanzate forti riserve 42. Tuttavia il caso descritto da Parfit potrebbe rivelarsi assai meno arbitrario di quanto non sembri a prima vista. Potremmo parafrasarlo così: la vita di un individuo viene interrotta da una brusca cesura, con effetti paradossali; egli muore e tuttavia sopravvive a se stesso; continuerà infatti a esistere nella forma di qualcuno che eredita le sue proprietà, che è identico a lui, e che però è “qualcun altro”, in un senso che dovrà essere chiarito.

Così riformulato, l’esperimento non ha più nulla di fantascientifico; rappresenta invece il destino di ogni essere umano, almeno secondo la concezione di Freud. Ogni essere umano, ha detto Freud, è costretto a nascere due volte: al termine dell’infanzia la sua vita – la sua vita psichica – si interrompe a causa di un conflitto, l’Edipo, da cui il soggetto uscirà solo pagando il prezzo della rimozione. La rimozione è il corrispettivo di un “teletrasporto”, il periodo di latenza dura ben più dei tre minuti necessari per essere trasferiti su Marte e, in seguito a questa esperienza, si può dire che il soggetto rimane e non rimane identico a sé; la sua identità ha subito dei danni, o meglio delle trasformazioni. Adesso è un soggetto diviso – si compone quantomeno di zone governate dalla prima persona (una parte dell’Io e del Super-Io) e da zone governata da una terza persona (l’Es), che andrebbe forse indicata come una “non persona”: ecco una situazione mista che la filosofia analitica non sembra aver mai considerato.

Quest’individuo che “muore” e “rinasce” è das Gleiche o das Selbe? La distinzione appare indispensabile per poter giudicare una relazione di identità che l’opposizione tra l’uno e il molteplice non riesce a descrivere in modo soddisfacente. Il soggetto che si scinde nei diversi sistemi psichici non è un soggetto ramificato, non genera una o più copie di se stesso; tuttavia la sua identità forense43 è stata irrimediabilmente incrinata; egli è responsabile e padrone solo di una parte di se stesso.

Che la sua identità numerica resti invariata, è importante sul piano giuridico: ma l’identità di un individuo è solo l’identità pubblica, da intendersi come un’identità che può venir descritta mediante un linguaggio letteralista? L’identità “privata” sarebbe inaccessibile al linguaggio? No, a meno di non porre arbitrariamente l’equivalenza tra linguaggio e linguaggio letteralista 44. L’identità come identificazione è un processo che potrà venire analizzato con gli strumenti dell’intelligenza figurale (la metafora, il paradosso, ecc) 45.

La distinzione tra das Gleiche e das Selbe appare adesso pienamente legittima: è una distinzione tra regimi di identità, ma non semplicemente tra il regime del “chi” e quello del “che cosa”. Un’analisi retorica del chi ci permetterà talvolta di ripercorrere la storia delle identificazioni, e ci aiuterà comunque a differenziare i modi dell’identità. Idem è il personaggio letteralista, colui che ha irrigidito la metafora paterna (“non avrai un altro modello, un altro ideale, al di fuori di me”); ipse è il personaggio determinato da una pluralità di modelli.

Idem è il soggetto separativo, che può ramificarsi, può separarsi da sé e coesistere accanto a sé: la sua identità è letteralista o metonimica. Ipse è il soggetto delle scissioni congiuntive: è un soggetto complesso 46, semanticamente conflittuale.

9. Trame, cause modali, identità della “non persona”.

Come ho detto all’inizio, il problema dell’identità è “anteriore” alla distinzione tra esistenza effettuale e finzione; lo studioso che privilegia questa distinzione non si accorge di commettere una fallacia modale, cioè di ridurre arbitrariamente le miscele modali a una sola miscela, quella dell’effettualità. Diremo dunque che commette una fallacia effettuale.

Ciascuna delle categorie modali “classiche” prevede, ed evoca, il proprio opposto; perciò nella tavola kantiana delle categorie troviamo gli accoppiamenti tra il possibile e l’impossibile, tra il necessario e il contingente, tra l’effettuale e il non-effettuale (l’irreale nel senso di “inesistente”). Propongo di chiamare miscela modale ogni combinazione tra categorie modali, facendo riferimento alla teoria “allargata”: esempi di miscela sono le possibilità necessarie, le necessità rigide, e così via.

Quando si insiste in maniera unilaterale sulla distinzione tra persone esistenti e personaggi inesistenti, si permane dunque nella dimensione dell’effettualità: e una volta pervenuti all’ovvia constatazione che i personaggi letterari sono pure finzioni, prive di esistenza, ci si preoccuperà soprattutto di non confondere le due regioni che compongono l’effettuale. Le confusioni sono sempre dannose – ma si faccia attenzione: il regime confusivo non è riducibile alla sua forma inferiore, a quelle che normalmente chiamiamo confusioni; dunque il regime confusivo non è sempre dannoso ! da esso dipende la possibilità di esperienze “sconfinanti”, a cui nessuno di noi probabilmente si sentirebbe di rinunciare. Ma una volta chiarito che non possiamo chiedere “quanti figli aveva lady Macbeth?”, così come non possiamo indagare le caratteristiche botaniche della selva di Dante, quali vantaggi ci offre la fallacia effettuale?

L’affermazione di Northrop Frye, “Amleto e Falstaff non sono né esistenti né inesistenti”, si colloca in un contesto di riflessione che valorizza l’analogia tra matematica e letteratura:

“come nella matematica si deve passare dall’immagine di tre mele al concetto di tre, e dal campo quadrato al quadrato, così nel leggere un romanzo si deve passare dalla letteratura come riflesso della vita alla letteratura come linguaggio autonomo (…)
Sia la letteratura che la matematica procedono da postulati non da fatti; ambedue possono essere applicate a una realtà esterna e tuttavia esistere anche in una forma “pura” o autonoma. Ambedue inoltre inseriscono un cuneo tra l’essere e il non essere, che è molto importante per il pensiero discorsivo” 47.

La letteratura e la matematica appartengono alla stessa miscela modale? Direi che entrambe rinviano alla miscela del possibile necessario; sullo sfondo di un’appartenenza comune si afferma poi la differenza che riguarda gli stili semantici. Va ancora precisato che la dimensione del possibile necessario ammette, per la letteratura, diversi orientamenti modali: ma l’orientamento verso la Secondità, che genera ad esempio i testi “realisti”, non significa affatto che quel tipo di testi appartenga alla miscela dell’effettuale 48.

Amleto e Falstaff, così come Nanà e mastro don Gesualdo, non vanno giudicati secondo l’alternativa dell’esistente e del non esistente. La loro identità esige altre categorie, altri modelli di analisi.

Vorrei insistere, ancora, sull’opportunità di ridimensionare il dibattito sul personaggio e la trama; più proficua mi sembra la scissione delle trame in diversi tipi. Ci sono trame soltanto (o prevalentemente fattuali, che appartengono a testi semanticamente diluiti e la cui densità potrebbe dunque manifestarsi solo come “densità fattuale”: si pensi al fallito accecamento di Michele Strogoff, come crocevia di tutti i successivi sviluppi e del colpo di scena finale nel romanzo di Verne. Gli episodi densi potrebbero venir paragonati a quelle mosse del gioco degli scacchi grazie a cui si conseguono contemporaneamente due risultati (ad esempio, si minacciano contemporaneamente due pezzi dell’avversario). Indubbiamente sono queste le narrazioni (a dominante fattuale) che rileggiamo con maggior piacere, e un maggior numero di volte. Ci sono poi le trame semantiche, che forniscono una struttura ai testi densi (qui densità è la divisione-congiunzione tra regimi di senso). In questi casi il testo è una macchina che riscrive se stessa, offrendo nuove prospettive sull’intreccio 49.

I due tipi di trama possono sovrapporsi – anzi dovrebbero sovrapporsi e mescolarsi: ma quest’eventualità è rara e straordinaria. Si consideri il finale dell’Amleto: senza dubbio nella morte dell’eroe c’è qualcosa di contingente perché, come ha detto Croce, “”La sua vita era stata da lui abbandonata al caso, e la sua morte doveva essere un caso” 50, ma sarebbe sbagliato credere che qui non operi anche la trama semantica. Amleto muore quando ritrova la via del desiderio, quando, identificandosi con il Fallo portatore di morte (“I’ll be your foil”), reintegra l’immagine del proprio Io che il fantasma aveva disgregato, e che Amleto stesso aveva disgregato in Ofelia comparendo davanti a lei come un “oggetto” impossibile da guardare 51.

Nella trama semantica di un testo sono rintracciabili quelle spiegazioni causali che inutilmente cercheremmo all’interno del paradigma di pensiero “naturalista”. Quando le domande sul “perché” delle azioni non trovano una risposta nella Secondità, nella catena degli stimoli e delle reazioni, è nei rapporti di identificazione che dovremo cercare le risposte. Ora, che tipo di causa è un’identificazione? Non è forse una causa modale? Bisognerebbe chiarire secondo quali vie il modo d’essere produca una decisione.

Solo qualche cenno. L’efficacia di una causa modale andrà pensata come causalità dell’essere, e non come una causa intramondana. Se i modelli sociologici di spiegazione del comportamento, specie dei comportamenti estremi, ci appaiono così poco plausibili, è perché s’illudono di poter restringere la sfera delle cause a quella dei fatti: per esempio, che cosa scatena la violenza? Si dice: l’odio, la frustrazione, la povertà, il rancore, la depressione, ecc. Eppure ci sono persone capaci di provare fortissimi sentimenti d’odio o di rancore, persone che soffrono la povertà o che sono frustrate e depresse, le quali tuttavia non si abbandonano mai ad azioni violente. Che cosa determina allora questa metamorfosi? Che cosa scatena la decisione di uccidere?

Che cosa scatena la decisione di uccidere in Amleto o in altri indecisi, ad esempio, in Lee Oswald come personaggio postmoderno? Indeciso può essere qualcuno che vede la propria vigorosa forza di agire paralizzata dallo sviluppo opprimente dell’attività mentale (“And thus the native hue of resolution / is sickled o’er with the pale cast of thought”) 52; oppure qualcuno capace solo di “giocare a ping pong nella propria testa” 53. Credo che situazioni di questo genere, seguite da un improvviso passaggio all’azione, siano particolarmente adatte a illustrare i passaggi da un regime d’identità a un altro, o i movimenti interni a un dato regime.

E anche a rendersi conto dell’incommensurabilità tra personaggi i cui modi d’essere sono troppo diversi, dal punto di vista della complessità, del dinamismo, e delle qualità estetiche del pensiero. Certamente non sono commensurabili i personaggi “sproporzionati all’azione” e quelli “proporzionati”. Perché vi sia sproporzione non bastano il differimento e l’instabilità: ad esempio, le molte identificazioni di Lee Oswald non arricchiscono la sua mente, non fanno di lui un personaggio “oltrepassante”. Come mai? Credo sia importante chiederselo. Un’identità resa instabile dalle molte identificazioni “fattuali” può sfociare semplicemente in un personaggio che “gioca a ping pong nella propria testa” – espressione che dissacra l’indecidibile, e guarda con ironia ai suoi cultori -; forse questo personaggio è abbastanza patetico per suscitare simpatia; forse rappresenta davvero una condizione diffusa, quella di individui devastati dalle forze reattive (Nietzsche), e dunque passivi e incerti 54. Questo tipo di individuo si abbandona al caso, e nutre il proprio Io di coincidenze: l’ipotesi di De Lillo è che Lee Oswald abbia tentato di uccidere Kennedy a causa di un’identificazione invidiosa, attizzata da piccole e contingenti “identità di fatto” :

“Coincidenza. Mentre erano sul ramo paludoso del fiume apprese, da Raymo, che il nome di guerriglia di Castro era Alex, derivato dal suo secondo nome, Alejandro. Un tempo Lee era conosciuto come Alek.

Coincidenza. Banister lo cercava, ignorando in quale città o stato si trovasse, e lui era entrato dalla porta del 544 e aveva chiesto un lavoro come spia.

Coincidenza. Aveva ordinato la rivoltella e la carabina a sei settimane di distanza. Erano arrivate lo stesso giorno.

Coincidenza. Lee leggeva sempre due o tre libri contemporaneamente, come Kennedy. Aveva fatto il servizio militare nel Pacifico, come Kennedy. Aveva una calligrafia orribile e faceva molti errori d’ortografia, come Kennedy. Mogli incinte nello stesso periodo. Fratelli di nome Robert” 55.

L’identificazione con Kennedy non trasforma Lee Oswald nella sua identità: lo induce ad agire, ed ecco perché parliamo di “identificazione fattuale” (ma non di metamorfosi). Quella di Lee non è un’identificazione cognitiva: la metafora-Kennedy (paterna o fraterna che sia) non viene né interrogata né problematizzata. Somiglia piuttosto a una causa di emorragia, a un buco che deve venire tamponato. Kennedy è l’altro radioso che, più di tutti, deruba Lee dell’universo 56.

Un ultimo punto. In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, Freud discute se l’identificazione arricchisca o impoverisca la personalità. Non si può dare una risposta univoca. In ogni identificazione il pericolo di alienarsi è grande – e tuttavia, ce lo insegnano le storie del “doppio”, nessuna alienazione rischia di essere così completa come in coloro che rifiutano il rapporto con l’alterità. L’identificazione lubrifica i confini, scioglie le strutture: è causa di metamorfosi. Ma qual è la causa dell’identificazione?

L’identificazione è il desiderio di essere; solo muovendo da questa definizione si può affrontare il problema della “causa”. Desideriamo, nella forma del desiderio di essere, perché siamo esseri divisi.

Abbiamo visto come l’identificazione modifichi la personalità (degli esistenti, dei non esistenti, e di chiunque si sottragga a quest’alternativa). Il dibattito sull’identità come identificazione sconvolge il dibattito filosofico sull’identità personale e nello stesso tempo apre nuovi spazi filosofici, per chi è disposto ad indagarli. Tra le novità più importanti, a cui si è potuto appena accennare, vi è l’immagine dell’individuo misto, composto da una prima e da una terza persona: credo che quest’immagini meriti molti approfondimenti, a partire anzitutto dalla consapevolezza che la “terza persona” rappresentata dall’Es è più precisamente una “non persona”. Infatti l’Es è e nello stesso tempo non è un sistema, nel senso in cui lo sono l’Io e il Super-io. L’eterogeneità dell’Es rispetto ai sistemi modificati dall’identificazione – Freud esamina la possibilità che tale processo vada a incidere sull’Io oppure sul Super-io, ma non considera un’identificazione che modifichi l’Es – implica che l’eterogeneo invada e determini in misura variabile le zone dell’omogeneo e della determinazione forense.

Troviamo l’immagine della “non persona” già nella Traumdeutung, quando Freud definisce il sogno come una macchina non intenzionale: infatti il lavoro onirico “non pensa, non calcola, non giudica affatto, ma si limita a trasformare” 57. La ritroviamo ogni volta che Freud parla delle pulsioni, della loro energia incontenibile e perenne, della loro “natura” di soglia, e della loro elasticità. Eros e Thanatos, l’identità della “non persona”.

Note

  1. Platone, Repubblica, libro III, 396b.
  2. Freud parla solo dei punti di vista topico, economico, dinamico. Ma implicitamente fa ricorso a un quarto punto di vista, quello linguistico, soprattutto nell’Interpretazione dei sogni, nel libro sul Witz, e nella Psicopatologia della vita quotidiana.
  3. Lacan, Desiderio e interpretazione del desiderio (1959), trad. it. dalla versione inglese in “Calibrano” 4, 1979.
  4. E.M. Forster, Aspects of the Novel, 1927 (trad. it. Garzanti, Milano 1991, p. 56).
  5. Ph. Hamon, Per uno statuto semiologico del personaggio, 1972 (trad. it. in “Semiologia Lessico Leggibilità del testo narrativo”, Pratiche, Parma 1977, p. 87. Cfr. inoltre Todorov: “rifiutare ogni relazione tra personaggio e persona sarebbe assurdo: i personaggi rappresentano delle persone, secondo modalità proprie della letteratura d’invenzione” (“Personaggio”, in Ducrot-Todorov, “Dictionnaire encyclopédique des sciences du langage, 1972; trad. it. Milano, ISEDI ).
  6. M. Bachtin, L’autore e l’eroe nell’attività estetica, 1922-24 (trad. it. Einaudi, Torino 1988, p. 11).
  7. E. Agazzi, “Il significato dell’identità” in Identità personale. Un dibattito aperto (a cura di A. Bottani e di N. Vassallo), Loffredo, Napoli 2001, p. 35. Nel passo citato Agazzi sta delineando la concezione funzionalista della persona.
  8. Montesquieu, De l’esprit des lois (1748), Préface.
  9. Mi permetto di rinviare a Teoria dello stile, La Nuova Italia, Firenze 1997.
  10. Contro l’opinione diffusa secondo cui definire la specificità di un fenomeno equivale a fornire una “definizione essenzialista”, vorrei ricordare che Aristotele indica diversi modi della definizione: oltre a quella che esprime il genere e la specie, vi è la definizione che coglie l’idion, cioè il proprio. Il proprio non è una proprietà, ma piuttosto una prospettiva. In quanto definizione prospettica, che si oppone all’azzeramento illusorio del soggetto, l’idion agisce in uno spazio plurale.
  11. “Ci sono due tipi di identità. Io e la mia replica siamo qualitativamente identici, ossia esattamente eguali. Ma non possiamo essere numericamente identici, ossia un’unica e medesima persona. Analogamente due palle bianche da biliardo non sono numericamente identiche, ma possono essere qualitativamente identiche. Se dipingo una di queste palle di rosso, non sarà più qualitativamente identica a ciò che era ieri, ma la palla rossa che ora vedo davanti a me e quella bianca che ho dipinto di rosso sono numericamente identiche: sono un’unica e medesima palla” (D. Parfit, Reasons and Persons, 1984 (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1989, p. 260).
  12. F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), trad. it. Laterza, Bari 1970, p. 129.
  13. Ibid., p. 126.
  14. Ibid., p. 130.
  15. È uno dei casi in cui si possono percepire i danni provocati dalla preponderanza della coppia soggetto-oggetto in filosofia.
  16. Cfr. Ph. Hamon, Un discorso condizionato, op. cit. p. 35.
  17. I. Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983, p. 5.
  18. “perché Eileen era protestante e lei (Dante) quando era giovane aveva conosciuto bambini che giocavano con protestanti e i protestanti si facevano beffe delle litanie della Beata vergine. Torre d’Avorio, dicevano, Casa d’Oro! Come poteva una donna essere una torre d’avorio e una casa d’oro?”,(J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, trad. it. p. 81).
  19. “Eileen aveva lunghe mani bianche. Una sera, mentre giocavano a prendersi, gli aveva messo le mani sugli occhi: lunghe bianche sottili fredde e morbide. Era l’avorio: una fredda cosa bianca. Ecco il senso di Torre d’Avorio” (ibidem).
  20. “Gli aveva messo la mano in tasca dove c’era la sua e Stephen aveva sentito com’era fresca, sottile e morbida quella mano. Eileen aveva detto che tasche erano cose buffe: e poi, tutto a un tratto, si era staccata ed era corsa ridendo giù per la curva in declivio del sentiero. I suoi capelli biondi le erano volati dietro come oro nel sole. Torre d’Avorio. Casa d’Oro. Pensandoci, si poteva comprenderle, le cose” (ibid., p. 89).
  21. Potrebbe esserlo per il senso comune. Ma i filosofi che respingono il senso comune per quanto riguarda le intuizioni sulla “mente” e sulla “persona”, non dovrebbero accettarne l’ontologia – un’ontologia viziata da quella che si potrebbe chiamare “fallacia effettuale”, cioè la subordinazione rigida di tutte le categorie modali all’effettualità.
  22. Cfr. P. Ricoeur, La métaphore vive, 1975 (trad. it. Jaca Book, Milano 1981).
  23. Lacan usa questa formula in rapporto al “soggetto”, ma evidentemente essa si applica a qualsiasi “ente”. Cfr. Ecrits, 1966 (trad. it. Einaudi, Torino 1974, p. 822).
  24. Una particolare attenzione per le nozioni modali è riscontrabile nella semiotica di Greimas.
  25. Egli definisce la sua elaborazione “my one contribution to philosophy”.
  26. Cfr. Peirce, Categorie, a cura di Rossella Fabbrichesi Leo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 29-37. I manoscritti di Peirce verranno citati con la data, seguita dal numero di pagina di questa edizione.
  27. Cfr. l’articolo di Alberto Castoldi in questo stesso volume.
  28. Barthes, Prefazione ai Saggi critici, 1963 ( trad. it Torino, Einaudi 1972, p. XXIV).
  29. Stendhal lo definisce un “don Juan pur”.
  30. Sto tenendo conto naturalmente del saggio di Kierkegaard, in Enten - Eller.
  31. A. Artaud, Les Cenci, 1935 (trad. it. Einaudi, Torino 1972, p. 35).
  32. Per quanto riguarda le lacerazioni interne alla sfera del “nomos”, dall’Antigone di Sofocle ai Cenci, rinvio al contributo già menzionato di Alberto Castoldi.
  33. “To develop its meaning, we have, therefore, simply to determine what habits it produces, for what a thing means is simply what habits it involves”, Ch. S. Peirce, “How to make our ideas clear” (trad. it. “Come rendere chiare le nostre idee”, in Le leggi dell’ipotesi, a cura di M. Bonfantini, R. Grazia e G. Proni, Bompiani, Milano 1984, p. 115).
  34. H. Bloom, “Introduction” a Hamlet (a cura dello stesso Bloom), Chelsea House Publishers, New York – Philadelphia 1990, p. 4.
  35. J. Lacan, Desiderio e interpretazione del desiderio in “Amleto”, cit. p. 115.
  36. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, 1954 (trad. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 129).
  37. M. Heidegger, Identität und Differenz, 1957 (trad. it in “aut aut” 187-188, p. 19).
  38. Credo che di quest’affermazione sia responsabile anzitutto l’autore della Recherche, ma non sono in grado di documentarla.
  39. Cfr. Detienne e Vernant, Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs, 1974 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1978).
  40. Hobbes, De corpore, cap. 11 (trad. it. Utet, Torino 1972, p. 185).
  41. Parfit, Reasons and Persons, cit., pp. 257-59.
  42. Ad es da Quine, menzionato dallo stesso Parfit, op. cit. p. 258.
  43. Persona “è un termine forense” (Locke, Essay concernine human Understanding, 1690, libro secondo, cap. XXVII, 28 (trad. it. Laterza, Bari 1972).
  44. Preferisco parlare di linguaggio “letteralista” e non “letterale”, perché il letteralismo è perfettamente compatibile con la presenza di espressioni figurali, se ad esse viene assegnato un ruolo secondario.
  45. Per un’analisi retorica del personaggio, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, cap. 3.
  46. La complessità non è riducibile alla molteplicità. Un soggetto multiplo non è un soggetto complesso. Leibniz, per fare un esempio, aveva una mente straordinariamente complessa, non un Io multiplo (ramificato).
  47. N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, 1957 (trad. it. Einaudi, Torino 1969, pp. 472-73).
  48. A meno che non si tratti, evidentemente, di testi il cui carattere documentario prevale sulle ragioni estetiche.
  49. Ho tentato di rendere operativa questa distinzione in un articolo su Kubrick, “Doppia trama in Eyes Wide Shut”, pubblicato nel numero 62 di Circuitocinema (“Paura e desiderio. Da Traumnovelle a Eyes Wide Shut”, a cura di Flavio Gregori, Venezia dicembre 2000).
  50. B. Croce, Shakespeare, 1918-19, ora in Ariosto, Shakespeare e Corneille, Laterza, Bari 1968, p. 149.
  51. Quando non è perché. Che Amleto avesse perso la via del desiderio, è affermato da Lacan, op. cit. p. 109. Cfr. anche le pp. 127-28, per il fallo portatore di morte, e pp. 116-118 per quanto riguarda l’incontro tra Amleto e Ofelia (Hamlet, II, 1, vv. 80-103.
  52. W. Shakespeare, Hamlet, III, 1, vv. 83-84 (“Il pallore del pensiero infetta il vivo colore della risolutezza”).
  53. De Lillo, Libra, 1988 (trad. it. Pironti, Napoli 1989, p. 200).
  54. Bisogna evitare gli slittamenti dal piano sociologico a quello estetico, quale che sia il giudizio che viene formulato. Dunque il giudizio estetico su Libra non andrà riferito alle qualità del protagonista, ma all’elaborazione dell’autore (alla “superiorità articolatoria” che consente, in linea di principio, di scrivere capolavori imperniati su personaggi mediocri). C’è da chiedersi tuttavia se il limite estetico di Libra non dipenda proprio dall’essere un “romanzo di quantità”, cioè un romanzo che ospita troppi personaggi poco elaborati.
  55. Libra, cit., pp. 384-85.
  56. Mi sto riferendo alle pagine di Sartre sugli effetti dello sguardo in L’essere e il nulla, 1943 (trad. it. Il Saggiatore, Milano, pp. 321-sgg.). Quella di Kennedy è una radiosità mediatica: “Si riusciva a fotografare bene un Kennedy. Un Kennedy era fatto per questo” (Libra, p. 170); “Non è soltanto Kennedy … È quello che la gente vede in lui. È l’immagine brillante che continuiamo a ricevere. E splende davvero nella maggior parte delle fotografie (It’s the glowing picture we keep getting. He actually glows in most of his photographs)” (ibid., p. 88). A questo proposito si veda anche l’articolo di Francesco Ghelli.
  57. S. Freud, Traumdeutung, 1899 (trad. it. in Opere, vol. 3, Boringhieri, Torino, p. 463).