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Viaggi intorno al desiderio di raccontare

Viaggi intorno al desiderio di raccontare

Lectio magistralis al convegno “C’era volta … Territorio, racconto, strategia” (Travel Marketing Days 2018, 22 novembre 2018, Genova)

1. Ho deciso di iniziare il mio intervento con due immagini, che vedete alle mie spalle: il testo di una poesia tra le più celebri, “L’infinito” di Leopardi, e un quadro altrettanto noto, il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich. Tuttavia, entrambe le citazioni possono sembrare poco pertinenti, poco adatte, a introdurre un convegno dedicato alla scoperta o alla riscoperta di un territorio, alla promozione turistica, alla stimolazione a viaggiare, soprattutto in Italia.

Ciò che accomuna i due testi – oltre alla quasi contemporaneità, il periodo romantico – è la posizione del protagonista rispetto all’oggetto della visione: l’attenzione è assorbita da qualcosa che non è la meta dello sguardo, il suo punto d’approdo, e che rappresenta semmai un ostacolo, una barriera, uno schermo. Nel primo caso, una siepe che “il guardo esclude”, che cancella il dominio delle cose, dalla prossimità al più lontano orizzonte; nel secondo, una nebbia che esercita un fascino ipnotico, superiore a quello delle rocce che ne bucano la compattezza, e che finiscono con l’apparire come i resti o i detriti di un paesaggio almeno momentaneamente inaccessibile. Eppure, come sappiamo dalla poesia di Leopardi, è proprio l’ostacolo a costituire uno stimolo – per che cosa? Per l’immaginazione, senza dubbio, ma anche per la memoria e, credo si possa aggiungere, per un rinnovamento della percezione.

Quando i nostri sensi sono inariditi dall’abitudine, quando le nostre capacità percettive si trovano ad essere saturate dal prevedibile, è necessario immergerle nella vaghezza, nell’indeterminatezza: è opportuna una sospensione (una epoché, se vogliamo usare il linguaggio dei filosofi) di una realtà troppo presente. Una delle motivazioni del viaggio – e del bisogno di narrazione, come vedremo - è certamente questa: l’immersione nella possibilità, l’apertura di nuove finestre mentali, di alternative.

Ciò non implica però che ogni alternativa sia egualmente gratificante, e che il nuovo spazio offerto al desiderio riesca a mantenere quella suggestione che almeno per un istante era riuscita a catturarci. Ho trovato una conferma di quanto sto dicendo in una trasmissione televisiva, di cui ho visto una puntata, sabato sera (17 novembre 2018): si tratta di “Il borgo dei borghi”, un programma che fa conoscere un certo numero di piccoli borghi italiani, e che sollecita la partecipazione degli spettatori come votanti. Ogni presentazione è evidentemente uno spot pubblicitario per la località che viene fatta conoscere: tutto si svolge, per ovvie ragioni di par condicio, in modo assai standardizzato: una serie di immagini, accompagnate quasi subito da informazioni storiche e artistiche, affidate per lo più a persone che abitano in quelle località, una o due frasi in dialetto, tradotte nei sottotitoli, e un appello finale al pubblico televisivo.

Il programma risulta piuttosto noioso, e le percezioni di piacere suscitate dalle immagini (inquadrature in movimento, dall’alto, la musica) vengono puntualmente rovinate o quantomeno banalizzate dai commenti verbali. Il difetto che non riesco a perdonare a questo tipo di trasmissione – ma è un difetto ampiamente diffuso, e su questo vale perciò la pena di riflettere - è la mancanza di immaginazione: o meglio ancora, quando l’immaginazione inizia a decollare, viene disturbata da quello che si presenta come semplice informazione e di fatto risulta essere rumore, interferenza.

Ecco un primo punto da approfondire: la comunicazione non dovrebbe venir schiacciata sull’informazione. Forse il modo migliore di evitare questo difetto, e non solo restando nell’ambito di cui si occupa questo convegno, è quello di aprire la comunicazione alla dimensione narrativa.

 

2. Oggi c’è un’enorme attenzione per la dimensione narrativa. Sembra che l’homo sapiens venga continuamente rideclinato come homo narrans. L’animale razionale di Aristotele è diventato “The Storytelling Animal”, per citare un libro di Jonathan Gottschall (2012), tradotto da Bollati Boringhieri con L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani.

Alla capacità di narrare vengono ormai attribuite funzioni cruciali, con una continua enfatizzazione che credo però debba venir problematizzata. Consideriamo gli aspetti principali

(a) l’umanizzazione della specie. Per diversi autori, e come recita il sottotitolo del libro di Gottschall, è principalmente grazie alla costruzione di storie che gli esseri umani hanno “preso forma”, hanno acquistato un’identità. Quasi a confermare una tesi non proprio recente, e che per quanto mi risulta non gode di particolare credito, secondo cui l’ontogenesi ricapitola e ripropone la filogenesi, Gottschall afferma: “Che cosa fanno i bambini? Producono storie, per lo più” (p. 25). Dall’alba dell’umanità ai nostri adorabili marmocchi, la fascinazione delle storie, la dipendenza dalle storie, la centralità delle storie, viene oggi continuamente sottolineata.

“Le storie, e tutta una serie di attività analoghe al narrare, dominano la vita umana” (p. 26). Oggi, più che mai, siamo letteralmente avvolti dalle storie, e ne siamo così assuefatti da non prestarvi troppa attenzione. Dunque, siamo una specie che si è definita attraverso l’attività narrativa, e una delle cui caratteristiche è di essere avvolti da questa attività.

(b) il piacere e l’utilità della finzione. Un grandissimo numero delle storie a cui prestiamo attenzione e che consumiamo ogni giorno è costituita dalla fiction, dunque da un rapporto con “l’isola che non c’è”.

Perché gli esseri umani raccontano storie? Perché ci piacciono, evidentemente. Ma dobbiamo spiegare perché ci piacciono. “L’enigma dell’attitudine a narrare si riduce a questo: l’evoluzione è implacabilmente utilitaristica. Come mai l’apparente lusso rappresentato dalla finzione narrativa non è stato eliminato dalla vita umana?” (Gottschal, p. 41).

Sono state indicate diverse ragioni per le quali il raccontare è utile:

- la narrazione è gioco cognitivo (Brian Boyd), cioè “un lavoro artistico che funge da parco giochi per la mente”;

- è un’attività di simulazione;

- è fonte di apprendimento e di informazione tramite l’esperienza altrui;

- è un collante sociale che riunisce le persone intorno a valori comuni;

- è persino una forma di selezione sessuale, e può iscriversi nel campo della seduzione. Non è forse con i suoi racconti, per esempio, che Otello conquista l’amore di Desdemona? Di fronte al Doge e ai Senatori della repubblica veneziana, Otello replica così a Brabanzio, che lo accusa di aver traviato sua figlia per mezzo di incantesimi: tempo prima, sollecitato dallo stesso Brabanzio a parlare della sua vita, il Moro aveva raccontato le sue avventure – “tragici eventi per mare e per terra” e come fosse stato “catturato e venduto come schiavo e quindi riscattato” , “E di vaste caverne e inoperosi deserti, pietraie scabre, rocce e alture la cui cima tocca il cielo”; Desdemona aveva ascoltato avidamente le sue parole, gli aveva chiesto maggiori dettagli;

“e spesso le strappai una lacrima, narrandole di tristi eventi, sofferti dalla mia gioventù. Finita la storia, lei ripagò le mie sofferenze con un mondo di sospiri; giurò che in verità era straordinario, oh, quanto straordinario, e commovente, molto commovente. Avrebbe voluto non udirlo, pure avrebbe voluto che il cielo avesse fatto di lei un uomo simile” (Shakespeare, Otello, I, III, vv.127-162).

L’amore non nasce semplicemente dall’empatia, una nozione che ricorre continuamente nel dibattito contemporaneo, ma da un meccanismo più complesso e sofisticato: l’identificazione.

 

3. Tuttavia alcuni studiosi seguono un’altra ipotesi: le narrazioni potrebbero non servire a niente (almeno in termini biologici). La finzione narrativa sarebbe come una droga, qualcosa che ci intossica. Secondo questa concezione, l’attività del narrare non avrebbe niente a che vedere con il pollice opponibile, cioè una struttura che ha aiutato gli antenati a sopravvivere e a riprodursi, bensì è più simile alle linee presenti sul palmo delle mani: non mappe per il futuro, come è pronta a sostenere qualunque chiromante, bensì effetti collaterali della flessione della mano (cfr. Paul Bloom, La scienza del piacere. L’irresistibile attrazione verso il cibo, l’arte, l’amore, 2010; trad. it. Il Saggiatore).

Il dibattito resta aperto: le storie sono un adattamento dell’evoluzione o un effetto collaterale? Ci troviamo in una fase congetturale. Quanto alla possibile funzione-droga, vengono in mente i comportamenti descritti recentemente in un articolo di Stefania Parmeggiani (La Repubblica, 6-11-2018), “A tutto speed: così si divorano libri e serie tv”, dove si descrive lo speed watching, cioè la possibilità di guardare a velocità accelerata episodi di una serie TV, e naturalmente ogni altro tipo di trasmissione. Questo comportamento può venir considerato una conseguenza del binge watching, la spinta bulimica a vedere tutto e subito. Non si sa quanto sia diffuso: ma esso merita almeno due tipi di riflessione:

- è certamente una conferma alla possibilità di sviluppare una dipendenza nei confronti delle storie, analoga a quella verso altre sostanze tossiche. Meno dannosa? Probabilmente sì. Ma forse notevolmente dannosa, da non sottovalutare;

- che tipo di rapporto con la narrazione viene instaurato da chi ricorre allo speed watching?

Lo spettatore è dominato da un impulso bulimico, la cui origine è ben nota: è la curiosità irrefrenabile di sapere “come va a finire una storia”, un impulso rozzo, primordiale (Forster), che esige di essere placato, ma che nessuna conclusione potrebbe placare. Terminata una storia, se ne vuole un’altra – vedremo tra poco se questa richiesta meriti di venir chiamata “desiderio”. Anzitutto, bisogna chiedersi: qual è l’oggetto di questa domanda? una storia o semplicemente una trama?

E’ una domanda che i “fondamentalisti dello storytelling” (li chiamerò così) non si pongono mai. Che una storia possa essere molto di più di una sequenza di azioni, di un plot, che lo stile di un narratore possa essere decisivo per la bellezza di una storia, tutto ciò è generalmente trascurato.

I fondamentalisti sono indifferenti a ciò che in modi diversi si intende con esperienza estetica.

Non vorrei apparire troppo polemico con tutti coloro che fanno uso del termine storytelling, e che non sono fondamentalisti. Ma forse sarebbe opportuno cominciare a distinguere lo storyteller e il narratore: il narratore è una figura più complessa, che non si prefigge di ingozzare il pubblico, e che si rivolge davvero alle sue capacità cognitive ed emotive. La battuta di Woody Allen “Ho letto Guerra e pace in 20 minuti. Parla della Russia” è comica perché solo un minus habens potrebbe leggere Guerra e pace accontentandosi della trama.

A questo punto, però, la definizione dell’uomo come the storyteller animal appare molto riduttiva.

Esaminiamo adesso un’altra funzione, che viene attribuita alla narrazione. Coloro che ne sostengono l’utilità sono pronti a ricorrere a un’altra argomentazione, assai meno nobile di quelle prima ricordate (cioè l’apprendimento, il rafforzamento dell’empatia, gli effetti socio-morali, e così via): le narrazioni possono svolgere una funzione di rafforzamento del Sé. Il “Sé” è una nozione ambigua, così come ambigua è la tesi affermata dal principale rappresentante del Literary Darwinism. Secondo Joseph Carroll, “La letteratura e le altri arti ci aiutano a vivere le nostre vite”, (Reading Human Nature. Literary Darwinism in Theory and in Practice, 2011, p. 2).

Molte cose ci aiutano a vivere - senza migliorare la qualità della nostra vita (e forse anche peggiorandola). Perciò affermazioni di questo tipo sono ambigue

Consideriamo con più attenzione un aspetto messo in luce da alcuni “utilitaristi”. Gli esseri umani tendono ad avere una buona opinione, anzi una sovrastima di sé: ciascuno di noi tende a collocarsi al di sopra della media per quanto riguarda quasi tutte le qualità positive. Per esempio il 90 % delle persone pensano di essere superiori alla media come guidatori, e il 94% dei professori universitari ritengono di essere superiori alla media nel loro lavoro (in effetti, come osserva spiritosamente Gottschal, quest’ultima è una media sorprendentemente bassa; p. 186). In generale, sembra che siano pochi coloro che si ritengono al di sotto della media per le abilità sociali, prestanza fisica ecc. (malgrado il fatto che la metà degli individui è sotto la media per definizione).

Ciò induce alcuni a credere che gli esseri umani siano fortemente propensi a essere poco onesti nei riguardi di se stessi: con un certo cinismo, alcuni ritengono che ci raccontiamo di continuo menzogne lusinghiere (Gottschal, L’istinto di narrare, p. 188).

Siamo di fronte a un rovesciamento inaspettato, non vi pare? Quello che era definito come “l’animale capace di inventare e di raccontare storie” è diventato “l’animale che si racconta delle storie”, cioè delle balle – le racconta a se stesso più ancora che agli altri. La continua esaltazione del narrativo incontra la sua némesi. Viene da dire: chi di storytelling ferisce, di storytelling perisce.

Forse questo rovesciamento è alquanto esagerato; credo che, in molte occasioni significative, gli esseri umani siano capaci di vedere la verità su se stessi. Ma consideriamo un ultimo punto. Secondo William Hirstein, la produzione di illusioni positive è l’unico modo di sfuggire alla disperazione: “La verità è deprimente. Siamo destinati a morire, probabilmente dopo una malattia... siamo minuscoli punti insignificanti su un minuscolo pianeta ... a un certo punto è sorto il bisogno di autoingannarsi per tenere a bada la depressione. E’ necessario che vi sia una negazione di fondo della nostra finitezza e insignificanza”.

Io non penso che per avere la percezione di una vita sensata sia necessario costruirsi chissà quali illusioni. Per nostra fortuna, disponiamo di risorse vitali molto tenaci, e la principale di queste risorse è avere desideri. E’ sufficiente avere un desiderio, magari rivolto a un obiettivo effimero, per dimenticare la nostra insignificanza cosmica. Siamo, nel bene e nel male, esseri oscillanti, altalenanti, facili a distrarsi. Come ha detto Pascal: “un nonnulla ci deprime, un nonnulla ci consola”. Basta un’inezia per guastarci la giornata, ne basta un’altra per farci ritrovare il buon umore.

 

4. A questo punto, vorrei proporvi alcune riflessioni sull’altro concetto che compare nel titolo del mio intervento: il desiderio.

Facciamo continuamente uso di questa nozione nella vita quotidiana, e ci illudiamo di padroneggiarla. Tuttavia si potrebbe estendere al desiderio la riflessione che Sant’Agostino dedica al tempo: se nessuno mi chiede ‘che cos’è’, credo di saperlo; ma se devo spiegarlo a chi me ne chiede, mi accorgo di non saper rispondere (Confessioni, Libro XI).

Il desiderio non è una cosa semplice, a meno che venga ridotto al bisogno, con cui lo si confonde, anche per abitudini linguistiche molto diffuse. Per esempio, vado in un negozio per acquistare un capo d’abbigliamento, il commesso o la commessa mi chiede “Il signore desidera?”. Si sta parlando davvero di desideri? Magari sì, uno di quei piccoli desideri la cui soddisfazione indirizza meglio la nostra giornata e il nostro umore (vi accennavo un attimo fa). Ma una situazione di questo genere non può venire considerata come paradigmatica per la comprensione del desiderio.

Che cosa è il desiderio, in una accezione non banale o banalizzata? Credo che sia utile approfondire un po’ questa domanda, per tornare alle possibili ricadute pratiche nel campo della comunicazione.

Non voglio essere complicato, ma credo sia necessario analizzare due aspetti: il desiderio come una forza, come una potenza che agisce sul soggetto e lo priva della sua padronanza di sé, e l’oggetto del desiderio: uno strano oggetto, un oggetto che non è esattamente un oggetto nel senso in cui lo sono le cose, ad esempio quelle che si trovano in questa sala, e questa sala stessa.

Dunque l’oggetto del desiderio non è equiparabile a un oggetto empirico, non è circoscrivibile interamente nell’ambito dell’esperienza

Quest’oggetto non è mai definibile in maniera adeguata elencandone le proprietà – le possiamo indicare, certo, possiamo dire di una persona che è bella, intelligente, simpatica, ma queste proprietà generali si applicano a molte altre persone, sono maglie troppo larghe per catturare la singolarità dell’oggetto di desiderio

Potremmo riprendere il titolo di una raccolta di racconti di Raymond Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” (1981), per sottolineare che “il che cosa” del desiderio non si esaurisce nell’empiria. E ancora: stiamo parlando di un oggetto atopos – ma qui l’alfa privativo non corrisponde al “non” dei non-luoghi (Augé), è invece un “non” di eccedenza.

Dobbiamo accettare, pertanto, la necessità di entrare in uno spazio di paradossi, in una logica composta da “incoerenze” (da non equiparare banalmente a contraddizioni). Questa è la differenza tra una teoria del desiderio e un’antropologia ingenua, secondo cui sappiamo ciò che vogliamo. In realtà: lo sappiamo e nello stesso tempo non lo sappiamo.

Che l’oggetto del desiderio non sia semplicemente un oggetto empirico significa anche che non si colloca interamente nel campo del possibile, che è parzialmente immerso nell’impossibile. Ecco un altro paradosso, un altro legame paradossale.

L’accentuazione di questi paradossi, soprattutto che l’oggetto del desiderio provenga in una certa misura – decisiva, però – da remote lontananze, e che non sia mai disponibile come una semplice presenza (una Vorhandenheit, nel linguaggio di Heidegger), un oggetto a portata di mano, sembra valere in particolare per l’oggetto dei nostri innamoramenti e dei nostri amori. Tutta la Ricerca del tempo perduto è un’illustrazione delle tesi che sto rapidamente enunciando. E lo possiamo comprendere meglio se consideriamo un altro paradosso che troviamo nella psicoanalisi, anche nella versione edipica, e che però non va schiacciato sull’Edipo. L’oggetto del desiderio è sempre un oggetto perduto, e tuttavia non è stato mai posseduto.

Di questo paradosso possiamo immaginare versioni non edipiche, e tra di esse vi è quella presentata nella Recherche proustiana: l’oggetto perduto e però mai posseduto non è forse, più di tutto, il tempo? Non è forse il tempo, più ancora di qualunque persona, il vero oggetto della nostalgia?

Nell’Odissea, Ulisse non riesce a trattenere le lacrime quando ascolta un aedo che narra le sue avventure: che cosa rimpiange Ulisse? I suoi amici, certamente, la sua casa, la sua famiglia; ma forse soprattutto il passato che non passa, che la poesia ha eternizzato, e che tuttavia (ahimè) è inaccessibile. Nostalgia deriva da nostos – il ritorno che ha un aspetto temporale e non solo spaziale.

 

5. Come accennavo prima, queste riflessioni possono sembrare destinate a narrazioni “elevate”, in cui i protagonisti sono i sentimenti, le passioni, e dunque alquanto sproporzionate se vengono riferite a un viaggio in territori che magari già conosciamo, che ci sono stati anticipati da guide turistiche, immagini in rete, video, documentari: oggi è quasi impossibile partire per territori che siano davvero sconosciuti. (La fine dei viaggi, l’impossibilità del viaggio come esperienza paragonabile a quella che si poteva vivere in epoche anche non lontanissime, è già stato tematizzato da diversi autori). D’altronde, solo poche persone sarebbero davvero disposte ad affrontare un viaggio avventuroso, nel senso che potrebbe comportare anche dei pericoli. La nostra condizione, all’inizio di un viaggio, somiglia piuttosto a quella di Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia. L’impulso al viaggio è quello di sottrarsi alla routine quotidiana, è un desiderio di svuotamento e di oblio: niente di pericolosamente esotico, non paludi tropicali e foreste di bambù dove si vedono scintillare gli occhi di una tigre acquattata – sto citando Thomas Mann: “Viaggiare, dunque .. non molto lontano, non proprio lì, tra le tigri. Una notte in vagone letto e un riposo di due, tre, quattro settimane in un qualunque posto di villeggiatura nell’amabile Sud ...” (La morte a Venezia).

Viaggi domestici o addomesticati, con il rischio però che siano insipidi. Come dicevo prima, oggi è difficile trovarsi in luoghi che non siano già stati anticipati, così come è impossibile visitare un museo e trovarsi di fronte a un quadro famoso, che non abbiamo già visto molte volte. Perciò l’esperienza estetica oggi richiede anzitutto dei processi di sottrazione, di cancellatura: dimenticare ciò che sappiamo, non ritrovarsi con i sensi già parzialmente o ampiamente saturati. Non posso non esprimere la mia reticenza a servirmi, se non in maniera molto sobria, delle audio-guide nei musei: ci aiutano davvero a vedere meglio un quadro? O ci distraggono con informazioni non essenziali, alternate a elogi iperbolici di cui potremmo sicuramente fare a meno? Forse la loro vera funzione è psicologica: rispondono alla nostra ansia di capire, e soprattutto di afferrare la bellezza, nei pochi istanti che dedichiamo a un singolo capolavoro. Perché non dovremmo guardarlo invece con i nostri occhi?

Tuttavia, nonostante questi limiti, a dispetto del surplus di informazioni in anticipo, i viaggi sono piacevoli, e i luoghi visitati si rivelano generalmente superiori alle aspettative. L’esperienza sensoriale e corporea dei luoghi va al di là del già previsto. Possiamo comprenderne la ragione facendo riferimento al dibattito sulle teorie della mente negli ultimi decenni. Trenta, quaranta anni fa, la mente veniva paragonata a un software, a un programma trasferibile almeno in linea di principio da un supporto a un altro. Si è poi fatta strada e si è rafforzata un’altra linea di ricerca, che considera la mente come embodied: vale a dire la mente in quanto non è disincarnata, bensì è legata al corpo; e il corpo partecipa attivamente ai processi cognitivi. Ogni viaggio in un territorio è sempre il viaggio di una mente embodied.

 

6. Provo a tirare le fila e a far convergere i diversi argomenti che ho toccato finora: anzitutto la narrazione, il piacere e il desiderio di raccontare, e di ascoltare dei racconti che rendano desiderabili alcuni luoghi. Ho preso un po’ le distanze dall’attuale moda per il narrativo – “raccontare è bello”, sì, sono d’accordo, però questo ci dovrebbe stimolare alla costruzione di racconti che sappiamo riunire e alternare velocità e lentezza, che sappiano aprire delle pause, che abbiano delle zone di reticenza. E non racconti destinati all’assimilazione veloce e ingorda, come nella pratica dello speed watching. Racconti che in qualche modo rendano omaggio alla consapevolezza che l’oggetto del desiderio non è mai facilmente afferrabile e consumabile, ma che questo oggetto ha sempre un versante che sfocia nell’indeterminato.

I fondamentalisti dello storytelling – permettetemi ancora una frecciata polemica – hanno una propensione per la scoperta dell’acqua calda. Così il brillante, elogiatissimo saggio di Gottschall contiene l’annuncio di una scoperta che molti hanno fatto prima di lui, senza alcuna esaltazione. Ci sarebbe una formula universale, “una struttura profonda”, “una grammatica universale della narrazione” (sono espressioni usate in questo saggio; pp. 69-72), e cioè che una storia è incentrata su un personaggio che cerca di ottenere ciò che desidera, superando uno o più ostacoli (p. 70).

Ebbene: una grammatica, a mio avviso, è uno strumento piuttosto complesso, ed è l’insieme delle regole che permettono di comprendere una lingua e di costruire enunciati corretti in quella lingua. Non credo che una grammatica possa venir ridotta a una formuletta. Invece Gottschal è così convinto del valore euristico della sua formuletta da cercare di consolare i lettori: non siate troppo delusi dall’idea che le storie obbediscono a profondi schemi strutturali, perché ogni storia ha le sue particolarità.

Ho ricordato prima le singolarità e i paradossi dell’oggetto del desiderio. Vorrei tornare per un attimo all’ostacolo. Se dove c’è un ostacolo e una tensione a superarlo c’è una struttura narrativa, allora i due esempi che ho citato all’inizio, la poesia di Leopardi e il quadro di Friedrich hanno una struttura narrativa. Non c’è dubbio. Oltre la siepe, vi è la possibilità del naufragio - nell’infinto. Oltre la nebbia, o sotto la nebbia, che cosa? Un paesaggio di rocce momentaneamente nascosto, ma anche ciò che potrebbe non prendere mai una forma stabile.

Qui l’ostacolo non è semplicemente qualcosa che si erge contro il protagonista, ma piuttosto un adiuvante (se vogliamo richiamare una classica nozione della narratologia del 900, introdotta da Propp nella Morfologia della fiaba, 1928). Qui la barriera svolge una funzione “catartica”, nel senso che purifica dalle apparenze più ovvie, offerte stabilmente alla percezione. Forse non dovremmo neanche definirla una barriera, bensì una frontiera da attraversare con altri mezzi. Forse in ogni buona narrazione l’ostacolo che ostacola e l’ostacolo che stimola sono entrambi presenti.

Quanto alle risorse dell’indeterminatezza, e alla sua funzione nel risvegliare la curiosità e l’immaginazione, ci possiamo rivolgere a un grande narratore e a un grande saggista.

Il narratore è Robert Louis Stevenson, che oltre ai suoi romanzi ha lasciato alcune riflessioni molto acute sull’arte della narrativa (ad esempio, A Gossip on Romance – “A proposito del romance” in L’isola del romanzo, Sellerio 1987):

“Ogni cosa, nella vita, ci rimanda ad altre. Esiste una particolare predisposizione per ogni luogo o evento. La vista di un pergolato ombroso e attraente ci fa venire in mente di sedervisi; certi ambienti suggeriscono l’idea del lavoro. Altri l’ozio, altri ancora il desiderio di alzarsi presto e di fare lunghe passeggiate nell’erba ancora umida di rugiada. Le immagini della notte, di un qualsiasi corso d’acqua, di città illuminate, del baluginare dell’alba, delle navi, dei mari aperti, ci evocano nella mente miriadi di sensazioni piacevoli e di desideri indistinti (il corsivo è mio). Sentiamo che qualcosa dovrebbe accadere; non sappiamo ancora che cosa, ma procediamo, cerchiamo, in attesa. E molte delle ore più felici ci scorrono fra le dita nella vana aspettativa dell’apparizione del genius loci. Ci sono dei posti dove un giovane abete, o basse rocce scogliose digradanti in profondità misteriose, bastano a suscitare in me un piacere tormentoso: dev’essere accaduto qualcosa, da quelle parti, forse secoli fa ...” (pp. 27-28).

Il desiderio di storie, dice Stevenson, è un appetito naturale, legittimo quanto quello del cibo. E le storie hanno bisogno dei luoghi – non possono accadere ovunque. “La cosa giusta deve accadere nel luogo giusto, nel momento più adatto” (p. 30). Insomma, ogni luogo che emana una suggestione è come la promessa di una storia possibile.

Più interessante delle storie reali, delle notizie storiche che ci vengono presentate durante una visita guidata in un palazzo, in un castello. La storia è piena di episodi e di dettagli che vanno al di là delle pur utili informazioni. Al termine di una visita guidata, che cosa si ricorda di ciò che ci è stato detto? Se, da un lato, sembra scontato e importante che ci siano state comunicate determinate informazioni, dall’altro però non è da quelle informazioni storiche, storico-artistiche, ecc. che è derivato il nostro piacere. Dovremmo abolire le visite guidare? Non sostengo una tesi così estrema, e non vorrei svalutare troppo un’attività professionale senza dubbio apprezzata da molti, ma che forse potrebbe venir ripensata. Perché non lasciare al visitatore più tempo per le sue impressioni personali, così da accompagnarlo ma senza collocarlo sulle rotaie di un apprezzamento standardizzato?

Il problema del dettaglio è cruciale in un famoso saggio di Roland Barthes, dedicato alla fotografia, La camera chiara (1980). Qui Barthes introduce una distinzione tra due modi di guardare un’immagine. Lo studium è lo sguardo del sapere: è lo sguardo competente, erudito, a cui corrisponde una sorta di interessamento, sollecito, ma senza una particolare intensità (p. 27). E’ lo sguardo della cultura. Il punctum è l’altro elemento della visione – non solo di una fotografia, ma di un oggetto, ecc. E’ qualcosa che viene a infrangere o a scandire lo studium. Colloca lo spettatore in una stato di passività, in quanto il punctum non è ciò che viene cercato ma ciò che “partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge” (p. 28). Una piccola ferita, una puntura. Perciò Barthes lo chiama punctum: puntura, piccolo buco, piccolo taglio.

Il punctum è un dettaglio destrutturante, qualcosa che eccede il quadro riposante e immobile che ho davanti a me: un particolare apparentemente gratuito, inessenziale, che tuttavia mi punge e si espande. Non dobbiamo pensare a fotografie shoccanti, o che suscitano un’immediata commozione ecc., bensì a qualcosa che può facilmente sfuggire all’attenzione, ma che di colpo mi cattura. Proporrei questa definizione: il punctum è ciò che non troveremo mai in una cartolina, in un’immagine patinata. Vale la pena di ricordare che nel Settecento si iniziò a distinguere il bello dal sublime: la scelta di quest’ultimo termine non è risultata del tutto soddisfacente, in quanto indirizza le nostre sensazioni verso qualcosa di straordinariamente intenso, anche nel caso in cui non riguardi “l’elevato”. Inoltre, una restrizione del bello alla sfera dell’attraente finisce con l’essere troppo in contrasto con le nostre abitudini linguistiche, nel cui ambito la bellezza è un nome anche per ciò che entusiasma e rapisce. Però questa distinzione – pienamente legittimata da esempi come “L’Infinito di Leopardi” e il “Viandante nel mare di nebbia” di Friedrich – mantiene anche oggi la sua validità. Può bastare una piccola puntura, un leggero e piacevole graffio, per confermarla.