Il comico delle articolazioni
“ridere è pensare”
(G. Bataille)
1. Uno dei modi per avvicinarsi alla natura del riso potrebbe consistere nel chiedersi, anzitutto, che cosa rende comica una definizione del comico. Troviamo una possibile risposta in Bergson: una definizione è comica quando la irrigidiamo in una formula, anziché usarla come “le leitmotiv qui accompagnera toutes nos explications” (1900, p.397, tr. it. p.15 ). Evidentemente non tutte le definizioni rigide, cioè univoche, sono comiche: basti pensare alle definizioni scientifiche, così perfettamente “risolte” e prive di opacità. Inoltre, una definizione sbagliata non apparirà necessariamente comica. È meno l’errore che non il modo in cui si sbaglia a suscitare eventualmente il riso. In ogni caso Bergson, dopo aver proposto la sua idea - il comico come rigidità e insocialità, e il riso come castigo -, si preoccupa di evitare un’applicazione meccanica: “Il y faudra penser toujours , sans néanmoins s’y appesantir trop, - un peu comme le bon escrimeur doit penser aux mouvements discontinus de la leçon tandis que son corps s’abandonne à la continuité de l’assaut” (ibidem).
Questa metafora strategica contiene ed esprime il più potente antidoto agli effetti di ridicolo: la flessibilità. Bergson ricorre continuamente al termine “souplesse”, ai suoi derivati, ai sinonimi. “...la vie et la société exigent de chacun de nous ... una certaine elasticité du corps et de l’esprit, qui nous mette à même de nous adapter” (ibid., p.395). Il riso “assouplit tout ce qui peut rester de raideur mécanique à la surface du corps social” (ibid., p. 396). “Son rôle est de corriger la raideur en souplesse, de réadapter chacun à tous, enfin d’arrondir les angles” (ibid., p. 472). C’è molta verità in quest’idea. In molti, moltissimi casi noi ridiamo della rigidità altrui, e ridiamo perché siamo, o crediamo di essere, o desideriamo essere, individui flessibili. Tuttavia Bergson usa “rigido” e “flessibile” come concetti primitivi, non analizzabili ulteriormente; egli descrive e indaga le molte forme del rigido come se questa molteplicità empirica presupponesse una unità - unità mobile, senza dubbio, e che esiste solo nel gioco ininterrotto e imprevedibile delle sue metamorfosi. Ma tra l’uno e il molteplice Bergson si limita a introdurre categorie empiriche: gesti, movimenti, discorsi, situazioni, caratteri.
Così come empiriche, e ancorate nel quotidiano, restano fondamentalmente le nozioni di flessibile e di rigido. Non è casuale che per Bergson la commedia sia la forma artistica più vicina alla vita, parzialmente incapace di staccarsene, e di rendersi autonoma (cfr. p. 469; trad. it. p. 110). Non sarà necessario allora raggiungere un grado più alto di astrazione? Il rigido e il flessibile potrebbero avere un’essenza diversa, un significato diverso, a seconda dei regimi cui appartengono.
Un regime è, tra l’altro, un sistema di riferimento. Un regime, in senso semiotico, è un sistema di segni, caratterizzato da una determinata modalità articolatoria. L’importanza, il rango, del concetto di articolazione per la linguistica strutturale non hanno bisogno di venir sottolineati. “La langue” diceva Saussure “est le domaine des articulations”. Ciò che tuttavia non troviamo nella linguistica moderna e nello strutturalismo è una tipologia: la coppia “langue/parole” ha oscurato questa possibilità. Prima di enunciare una tipologia, va ricordato che il concetto di articolazione ha un’origine biologica: già nel mondo greco, a essere articolato è anzitutto il corpo, come insieme di membri coordinati in una unità. Da Omero ad Aristotele, la percezione della globalità e della organicità corporee non faranno che accentuarsi (cfr. Snell 1948; Laspia 1997).
Tenteremo ora di riscoprire le valenze metaforiche presenti nel concetto di “articolazione”, relativamente ai problemi del comico. In questa sfera, il linguaggio e il corpo sono di pari importanza. Potremo tuttavia persuaderci dell’opportunità di collegare il campo dei segni e quello del corpo secondo questa prospettiva, solo se la tipologia delle articolazioni si dimostrerà adatta per entrambi.
“Articolare” si dice in molti modi, ma, ancora una volta, non bisogna scivolare subito da una nozione generalissima verso una molteplicità empirica. Sappiamo che ogni lingua naturale segmenta il continuum dell’esperienza mediante un certo numero di paradigmi (colori, odori, ecc.), a cui, secondo alcuni studiosi, bisognerebbe attribuire una risonanza cognitiva. Chi non intende arrestarsi a questo relativismo paralizzante, e crede di poter trovare un luogo di elaborazione meno vicino all’empiria delle lingue, dovrà riesaminare il concetto di articolazione per ritrovarne la vera pluralità. Riprendiamo un esempio di Bergson:
“Ecoutez ces réponses de Mark Twain au reporter qui vient l’interviewer. “Avez-vous un frère? - Oui; nous l’appelions Bill. Pauvre Bill! - Il est donc mort? - C’est ce que nous n’avons jamais pu savoir. Un grand mystère plane sur cette affaire. Nous étions, le défunt et moi, deux jumeaux, et nous fûmes, à l’âge de quinze jours, baignés dans le même baquet. L’un de nous deux s’y noya, mais on n’a jamais su lequel. Les uns pensent que c’était Bill, d’autres que c’était moi. - Etrange. Mais vous, qu’en pensez-vous? .....” (1900, p. 479).
I segni che compongono gli enunciati di questo dialogo sono perfettamente articolati: ognuno è delimitato dai propri confini. E tuttavia il filo argomentativo è aggrovigliato: siamo anzi di fronte a una vera assurdità, dovuta al fatto che “Mark Twain déclare être un de ces jumeaux, tout en s’exprimant comme s’il était un tiers qui raconterait leur histoire” (ibidem). Nel pronome “io” sono congiunte due istanze enunciative che dovrebbero escludersi. Si tratta semplicemente di un errore, di un’assurdità, di una confusione? Di un’infrazione all’unico tipo di logica che conferisce senso ai nostri discorsi? Tutti gli enunciati “congiuntivi” sarebbero assurdi e insensati? L’esistenza di enunciati paradossali dotati di senso smentisce quest’ultima ipotesi, e ci suggerisce di abbandonare la coppia “norma/infrazione della norma”, che ha generalmente dato cattivi risultati sul terreno della ricerca.
Il riso ha una logica, così affermano Freud e Bachtin. Una logica autonoma, con proprie regole, che non derivano semplicemente da “un certain relâchement général des règles du raisonnement” (Bergson 1900, p. 477; tr. it. pp. 120-121). Ma se c’è una logica nel riso, la discordanza tra discorsi comici e razionalità “normale” non sarà riducibile alla categoria dell’infrazione, dello scarto.
E se il riso ha un legame con la sfera dell’intelligenza, tale legame non consisterà semplicemente nella sospensione delle emozioni, nell’insensibilità, nella “anesthésie momentanée du coeur” (ibid., p. 389): nel riso, una certa forma di intelligenza - un determinato stile di pensiero - mette alla gogna, sbeffeggia, dissolve, trasforma, un’altra forma di intelligenza - un altro stile di pensiero. Ora, poiché “stile di pensiero” implica “logica”, e anche “pluralità”, dovremo interrogarci rapidamente sulla pluralità delle logiche.
Rapidamente e schematicamente, con la speranza di riscattare la schematicità nel seguito del nostro discorso. Ci sono almeno due logiche che scindono la presunta unità della metafisica occidentale, e la loro differenza può essere cercata, anzitutto, nella sfera delle relazioni oppositive: una logica disgiuntiva, che privilegia i rapporti di contraddittorietà e di contrarietà, e una logica congiuntiva, che privilegia i rapporti di correlazione (cioè di interdipendenza tra gli opposti). Ad esempio Eraclito, Hegel, Heidegger (e Bergson) utilizzano una razionalità congiuntiva. Quest’ultima, però, dovrà venire ulteriormente scissa.
2. Ancora qualche osservazione, prima di esaminare degli esempi e di discuterli mediante la nostra tipologia. Non ignoriamo né la mescolanza dei regimi di pensiero, su cui dovremo tornare; né la possibilità che uno stesso fenomeno si offra a una pluralità di letture. Ma per il momento, inevitabilmente, la dimensione della variabilità contestuale dovrà venir subordinata allo sforzo di chiarificazione dei diversi tipi.
Abbiamo detto che rigidità e flessibilità hanno un valore diverso nei differenti regimi. All’interno della logica disgiuntiva troveremo una “souplesse d’adaptation”, una flessibilità minore, pragmatica, aderente alla vita intesa come l’ordine dei fenomeni e degli eventi governato dal principium individuationis. Qui ogni identità è chiusa nei propri confini, ogni oggetto ha un posto e una funzione, ogni nome un significato. Le articolazioni del primo tipo corrispondono al principio di Secondità (Peirce): sono le articolazioni della realtà effettuale, che non coincide con un universo statico. Ma anche la vita che non torna mai indietro e che non si ripete mai, anche la vita caratterizzata da un continuo cambiamento d’aspetto e dall’irreversibilità dei fenomeni, non mette in discussione il primato della Secondità, cioè il dominio di sistemi chiusi in se stessi, e che non interferiscono con altri sistemi (1900, p. 429; trad. it. p. 58).
Dunque, il regime disgiuntivo non è globalmente rigido: le sue articolazioni gli consentono di rinnovarsi e trasformarsi. Un discorso analogo vale per gli individui che appartengono a questo regime: essi non sono rigidi, tant’è vero che considerano comiche le manifestazioni di rigidità. Bisogna rendersi conto, peraltro, che la rigidità può manifestarsi sia con effetti separativi sia con effetti confusivi. Questa precisazione ci consentirà di rileggere da un punto di vista meno intuitivo e meno ingannevolmente concreto il testo di Bergson.
Consideriamo anzitutto la rigidità come un eccesso di disgiunzione. Ad esempio, un vestito diventa ridicolo quando la nostra immaginazione lo scinde dal corpo che l’indossa: assumendo l’inerte rigidità di un involucro, esso inibisce l’agilità del vivente (ibid., p.405; trad. it. p. 26). Che cosa è accaduto? Una divisione si è introdotta all’interno dell’individuo, della sua unità psico-fisica, che comprende ogni supplemento, ogni parergon, mediante cui le abitudini o le convenzioni sociali lo incorniciano. Ad esempio i vestiti, secondo una gamma di possibilità non illimitata. Chi indossa un abito che non gli si adatta - non si adatta a lui, come singolo, o più in generale all’epoca in cui vive -, appare privo di ciò che indossa. Ecco un contrasto, una contraddizione, avrebbero detto alcuni studiosi, che suscita il riso. Ma questi termini sono troppo generici, benché alludano a un aspetto decisivo del nostro problema: nel comico si riscontra in effetti una caricatura o una forzatura del principio di non contraddizione, e della logica disgiuntiva che esso riassume e di cui è l’emblema. Ora, un eccesso di disgiunzione ha qualcosa di caricaturale sul piano logico. Vediamo una persona che, pur mantenendo la propria identità, si restringe a una parte di se stessa.
Può accadere che una qualità, un tratto, occupi l’intera persona: avarizia, ipocrisia, ecc., tutti i vizi o le deformità che il riso satirico va a colpire e cerca di correggere. Ma il tratto che, per sineddoche, riduce, accorcia o decapita l’individuo, può essere eticamente neutro. Ricordiamo il famoso esempio di Pascal: “Deux visages semblables, dont aucun ne fait rire en particulier, font rire ensemble pour leur ressemblance” (in Bergson 1900, p. 403; tr. it. p. 23). Qui il ridicolo consiste nel fatto che, improvvisamente, l’identità di una persona si restringe alla sua somiglianza con un altra persona (somiglianza accidentale, “infondata” rispetto all’ordine delle cause biologiche). Un altro esempio; l’oratore che, tutto pervaso dal pathos del suo discorso, improvvisamente sternuta. Ridicola è la doppia sineddoche che riduce il suo essere all’esplosione espiratoria, all’urto sonoro dell’aria contro le fauci e le coane, e nello stesso tempo la dilata iperbolicamente. Per un istante, quella persona è diventata semplicemente sternuto. Per un istante, abbiamo visto due sineddochi che procedevano in direzioni contrarie e sono andate a cozzare l’una contro l’altra, come due treni erroneamente in corsa sul medesimo binario.
Tra gli eccessi di disgiunzione dovremo collocare le metafore prese alla lettera e tutti quei casi in cui la figuralità sobria e la polisemia controllata del primo regime vengono drasticamente ridotte e letteralizzate. Benché sufficientemente univoche, le lingue naturali funzionano grazie a un quoziente di vaghezza, di imprecisione, di possibile equivocità. Chi dimentica queste caratteristiche e, in una determinata circostanza, non percepisce la figuralità di un enunciato o inciampa in una omonimia, appare comico.
Passiamo ora sul versante opposto. In un mondo governato dal principio di realtà, e che chiede agli individui un grado adeguato di attenzione e di elasticità, i difetti di disgiunzione dovranno venire castigati. Il riso è la sanzione prevista per i distratti, per le persone goffe e impacciate. In un eccesso di euforia - ha appena ottenuto un appuntamento galante -, Woody Allen scende dall’auto e precipita in un tombino privo di coperchio. Sempre in Bananas, vediamo il protagonista togliere un surgelato dal frigo e inseguirlo in tutta la cucina, perché questo gli schizza continuamente dalle mani come una saponetta. La ribellione degli oggetti, che non stanno al loro posto e spesso assumono metaforicamente una nuova e imprevista identità, è un procedimento comico ben noto: improvvisamente gli oggetti rifiutano la loro identità lessicale, escono dai luoghi che il linguaggio aveva delimitato proiettando sul continuum amorfo dell’esperienza una serie di suddivisioni; rifiutano di essere articuli, piccoli segmenti di realtà incasellati dalla nominazione. Il principio di arbitrarietà del segno viene esasperato, velocizzato, scoronato; diventa effimero e confusivo.
3. “Nous rions toutes les fois qu’une personne nous donne l’impression d’une chose. On rit de Sancho Pança renversé sur une couverture et lancé en l’air comme un simple ballon. On rit du baron de Münchhausen devenu boulet de canon et cheminant à travers l’espace” (Bergson 1900, p. 414; tr. it. p. 38). Si potrebbe dire egualmente bene che Sancho Panza è stato metaforizzato come palla da cannone. Questa spiegazione rende probabilmente inevitabile la domanda: perché alcune metafore fanno ridere? Non si tratta di metafore ridicole in quanto sbagliate, ma di metafore perfettamente riuscite, efficaci. In generale, ridiamo perché il principio di Secondità è stato sospeso. Non sembra trascurabile però la differenza tra i casi in cui le articolazioni del primo tipo sono state violate per una disattenzione dell’individuo che ne porta la responsabilità - e dunque l’effetto di figuralità è involontario (Woody Allen non voleva prendere una saponetta dal frigorifero) , e i casi in cui la deformazione figurale viene subita in quanto è imposta da altri (come nel caso di Sancho, trasformato in una palla).
La fonte del comico è in entrambi i casi un difetto di disgiunzione: ma, per l’appunto, questa espressione sembra più pertinente per i casi di figuralità involontaria, dove una norma o un modello comportamentale è stato violato a causa di un deficit di attenzione, che non per i casi nei quali un individuo è stato volontariamente metaforizzato, “metamorfosato”. Forse, in quest’ultimo caso, anziché parlare di infrazione relativamente a un determinata logica, dovremmo parlare di un’altra logica : una logica congiuntiva.
Prima, il riso nasceva dal principio di realtà. Era un riso “vendicativo”, che si faceva beffe del principio di piacere e delle sue insurrezioni. L’individuo asociale - colui che si isola, si distrae, si irrigidisce - veniva sconfitto, e la medietà trionfava (Bergson 1900, p. 468; trad. it. p. 109). Adesso il riso sgorga da altre fonti, quelle descritte, ad esempio, da Bachtin. La rigidità di cui si ride è quella della gerarchia sociale (e dunque delle classi che detengono il potere e godono dei privilegi di tale gerarchia). Tutto ciò che ha carattere normativo, quale che sia il suo colore politico, verrà rovesciato.
Stiamo descrivendo un regime semiotico dove i confini congiungono anziché dividere. Siamo nel regno della Primità: qui tutto è possibile, e dove tutto è possibile diventa difficile fare delle scelte. Un individuo vorrebbe decidere se sposarsi oppure no (Panurge nel Terzo libro di Gargantua et Pantagruel), ma ogni possibilità viene subito affiancata dalla possibilità contraria - gli opposti si incollano l’uno all’altro e appare derisorio ogni sforzo per disgiungerli.
Tutto il discorso di Bachtin sul folclore carnevalesco si presta ad una rilettura nei termini della logica congiuntiva. Si pensi al corpo grottesco, che non è semplicemente un corpo in perenne divenire (Bachtin 1965, trad. it. p. 347) - non è soltanto un corpo nel cui interno l’élan vital produce continuamente delle metamorfosi -, ma è una mescolanza di confini : questo corpo inghiotte il mondo ed è inghiottito da quest’ultimo” . Perciò, aggiunge Bachtin, “il ruolo più importante nel corpo grottesco è affidato a quelle sue parti e luoghi dove esso va oltre se stesso, esce dai limiti prestabiliti, comincia la costruzione di un nuovo (secondo) corpo”: il ventre e il fallo, la bocca e il deretano. “Tutte queste protuberanze e orifizi sono caratterizzati dal fatto che appunto in essi vengono scavalcati i confini tra due corpi e fra il corpo e il mondo, e hanno luogo gli scambi e gli orientamenti reciproci” (ibidem).
L’aspetto “comunitario” di questa distruzione delle frontiere è innegabile, ma bisogna evitare di enfatizzarlo ingenuamente. Se si mette troppo l’accento sulla gioiosa vitalità popolare, sulla esaltazione della materia, ecc. si rischia di ridurre la logica congiuntiva alla gloria dei processi primari, dell’energia libera, e di cancellare la logica, cioè il pensiero. Si corre anche un altro rischio: è vero che il riso carnevalesco non è il riso della caduta (Baudelaire), dunque non è “reattivo” (come direbbe Niezsche). Nasce da un sentimento vitale affermativo, e in ciò ricorda il riso innocente dell’infanzia. Ma forse l’infanzia non è così innocente, dopo Freud; e, in secondo luogo, anche il riso più “pulsionale” non può non scaturire da una mescolanza tra Eros e Thanatos.
Nel folclore carnevalesco e nella letteratura (o nell’arte) carnevalizzata il prevalere delle forze di attrazione fa crollare i confini. Ma qual è la logica di questa prevalenza? Non può essere che una logica di inclusione. Se infatti l’attrazione escludesse l’inclusione, allora il separativo si introdurrebbe surrettiziamente nella dimensione del confusivo. Se il riso fosse soltanto riso - non sarebbe questa una rivincita del principio di identità? Il carnevale moderno, che è una festa affievolita, esemplifica il confusivo debole, l’energia libera linguisticamente povera. Per contro, nella filosofia moderna si è fatta strada l’idea di una mescolanza tra comico e tragico - di un riso che non esclude il tragico.
In parecchi esempi menzionati da Bachtin il riso include una forza di distruzione che non procede per inerzia verso una meta puramente dissipativa e neutra. Il furore congiuntivo fa continuamente risorgere dinanzi a sé il corpo “ben articolato”, cioè organizzato da articolazioni del primo tipo, per frantumarlo. Così accade nella battaglia descritta nel capitolo XXVII del primo libro di Gargantua , quando fra Giovanni si scaglia contro i nemici:
“Es uns escarbouilloyt la cervelle, es aultres rompoyt bras et jambes, es aultres deslochoyt les spondyles du coul, es altres demoulloyt le reins, avalloyt le nez, poschoyt les yeulx, fendoyt les mandibules, enfonçoyt les dens en la gueule, descroulloyt les omoplates, sphaceloyt les greves, desgondoit les ischies, debezilloit les fauciles”
“E agli uni spappolava il cervello, agli altri rompeva braccia e gambe, a un terzo dislocava gli spondili del collo, o spaccava le reni, fendeva il naso, fracassava le mandibole, cacciava i denti in gola, sconquassava gli omoplati, sfracellava le gambe, slogava gli ischi, staccava gli arti dal tronco” (p. 88).
È vero che qui fra Giovanni si rivela, come dice Bachtin, un anatomizzatore provetto (1965, p. 212): ma il risultato dello smembramento imposto alla “superficie chiusa, uniforme e cieca” del corpo ben formato (ibid., p. 348) non è solo un elenco di organi colpiti, di ossa e articolazioni spezzate (ibid., p. 212).
Anzitutto, la gaiezza della distruzione non deve velare la sua metaforicità, più evidente nella conclusione dell’episodio. Quando i novizi accorrono in aiuto di fra Giovanni, e iniziano a sgozzare i feriti con i loro roncolini, la frontiera tra battaglia e vendemmia si dissolve, lo sfondo penetra nel primo piano, il sangue si trasforma in vino (ibid., pp. 227-228).
C’è un altro aspetto che Bachtin non mette in rilievo, ed è la precisione dello smembramento. La distruzione non sarebbe così festosa, se si svolgesse troppo rapidamente e non dettagliatamente. Vediamo dunque il tempo gioioso della morte-resurrezione scindersi in due possibilità, stilisticamente diverse: da un lato il confusivo monotono, il corpo che va a pezzi e crolla come un castello di carte - una combinazione di elementi omogenei si rompe, si sparpaglia; eventualmente vi è un accumulo, come nell’effetto “boule de neige” -, dall’altro lato la distruzione distintiva, l’eterogeneità che può venire disarticolata dalla precisione dei nomi. Nel primo caso l’iperbolicità degli effetti dipende da un solo gesto, e dalla felicità di una catena causale del tutto improbabile, nel secondo caso iperbolica è la variatio : i gesti si moltiplicano sfrenatamente; è una festa della nominazione.
La via dell’energia moltiplicata, e la via dell’energia moltiplicata e nominata non coincidono, benché entrambe traggano origine dalla logica congiuntiva. Non bisogna dunque confondere il regime congiuntivo assoluto, dove ogni articolazione è absoluta, totalmente sciolta, dove il comico delle articolazione è più esattamente il comico delle disarticolazioni, con un terzo regime, dove la fluidità non è completa e dove, a un grado minore di fluidità, corrisponde una maggiore complessità sul piano linguistico. Quanto ai casi che sembrano collocarsi sulla soglia tra il secondo e il terzo regime , il loro effetto di indecidibilità va considerato come una prestazione acrobatica. Così nella pantomima inglese descritta da Baudelaire il linguaggio assorbe e ri-articola la fluidità assoluta:
“D’abord, le Pierrot n’était pas ce personnage pâle comme la lune, mystérieux comme le silence, souple et muet comme le serpent, droit et long comme une potence, cet homme artificiel, mû pas de ressorts singuliers, auquel nous avait accoutumée le regrettable Deburau. Le Pierrot anglais arrivait comme la tempête, tombait comme un ballot, et quand il riait, son rire faisait trembler la salle; ce rire ressemblait à un joyeux tonnerre. C’était un homme court et gros, ayant augmenté sa prestance par un costume chargé de rubans, qui faisaient autour de sa jubilante personne l’office des plumes et du duvet autour des oiseaux, ou de la fourrure autour des angoras. Par-dessus la farine de son visage, il avait collé crûment, sans gradation, sans transition, deux énormes plaques de rouge pur. La bouche était agrandie par une prolongation simulée des lèvres au moyen de deux bandes de carmin, de sorte que, quand il riait, la gueule avait l’air de courir jusqu’aux oreilles”
“Innanzi tutto, il Pierrot non era il personaggio pallido come la luna, misterioso come il silenzio, flessibile e muto come il serpente, dritto e lungo come una forca, l’uomo artificiale, mosso da non so quali molle, a cui ci aveva abituato il compianto Debureau. Il Pierrot inglese arrivava come una tempesta, cadeva come un sacco di stracci, e quando rideva, il suo riso faceva tremare la sala; e somigliava all’ilarità di un tuono. Era un uomo basso e tozzo, che aveva accresciuto la prestanza della figura con un costume tutto infiocchettato di nastri, con lo stesso effetto, rispetto al suo corpo gioioso, delle penne e delle piume attorno agli uccelli, o della pelliccia intorno ai gatti d’Angora. Sull’epidermide del viso infarinato, aveva affisso, giustapposte senza gradazioni o sfumature, due placche enormi di rosso vivo. La bocca era allargata da un’appendice posticcia delle labbra per mezzo di due fregacci di carminio, in modo che quando rideva, la gola pareva spingersi fino alle orecchie” (1855, trad. it. pp. 150-151)
“Sotto la penna, dice Baudelaire, tutto questo diventa smorto e rigido. Come potrebbe la parola scritta mettersi in gara con la pantomina?”. In parte questo è del vero: se lo spettacolo era così mirabilmente iperbolico come la descrizione fa supporre, la parola appare inadeguata a trasmetterne tutta l’intensità e la violenza. Nella pantomina, il confusivo disarticolante include il distintivo sino quasi a travolgerlo. Ma forse bisognerebbe parlare non di una differenza di grado (o di intensità) bensì di una differenza di regimi: la rievocazione compiuta da Baudelaire non è una pantomima indebolita, bensì un’altra cosa. Tutta la metaforizzazione del corpo e dei gesti, e il mosaico dei dettagli, diventano davvero visibili soltanto nella pagina scritta.
Le virtualità cognitive del riso sono probabilmente connesse con la dialettica tra i due regimi che coesistono ed entrano in conflitto all’interno della logica congiuntiva. Per la conoscenza non bastano scariche di energia, non bastano la frantumazione dello scheletro come supporto rigido, il perforamento, il crivellamento dell’involucro. Perché vi sia conoscenza, occorre che ridere sia pensare. Ebbene, si dirà, la logica confusiva è pur sempre una logica, dunque un modo di pensare, per quanto paradossale. Ma forse il paradosso principale è quello di una logica che non è pensiero, e che invece, come la logica onirica, è puro piacere della trasformazione (il sogno non pensa, non calcola, non giudica, si limita a trasformare; “(diese Traumarbeit) denkt, rechnet, urteilt überhaupt nicht, sondern sie beschränkt sich darauf umzuformen”; Freud 1899, trad. it. p. 463). Quando, all’interno delle formazioni congiuntive, prevale il confusivo, il pensiero rotola verso la X - forse, verso la penultima lettera dell’alfabeto (Nietzsche 1882, prefazione alla seconda ed., 3), verso la lettera che non sarà mai ultima, nel gioco infinito delle lettere. Quando invece il piacere morfologico e dell’energia stringe una più forte alleanza con il distintivo, diventano possibili forme di conoscenza danzanti e figurali.
4. La metafora della danza è chiaramente nietzscheana. Quali sono le modalità di un pensiero che ride, e dunque di una verità che ride? Come si può ridere la verità? Sono i problemi posti da Nietzsche, e che qui possiamo solo sfiorare. Crediamo di potere affermare, comunque, che non sarà la retorica energetista di Zarathustra il danzatore, il lieve (der Tänzer, der Leichte), a farci afferrare la modalità di pensiero di “Zarathustra der Wahrsager, Zarathustra der Wahrlacher”. Una verità che procede dal riso non può consistere soltanto nel riso.
Dobbiamo riprendere il problema della flessibilità. Problema che è sembrato anch’esso sciogliersi nella scioltezza di una comicità assoluta. Tuttavia la fluidità assoluta del secondo regime - la fluidità spinta sino all’estremo della disarticolazione - è ancora flessibilità? Niente sembra più flessibile di confini totalmente pieghevoli, al punto da poter ospitare qualunque estraneo, e totalmente oltrepassabili. Ammettiamo dunque che la fluidità sia una forma di flessibilità: ma la flessibilità minore, pragmatica, adattiva, del primo regime, e la permeabilità assoluta del secondo non esauriscono il ventaglio delle forme.
Immaginiamo una situazione in cui il principio di realtà non possa venire né annullato né sospeso: esso opprime angosciosamente, ferocemente, un individuo (o più individui). La cornice è invalicabile, e le articolazioni interne sono troppo dure per essere spezzate. Siamo dentro un corpo estraneo : siamo prigionieri, come l’anima è prigioniera del corpo secondo un’antica concezione. Siamo soltanto anima, perché il nostro stesso corpo non ci appartiene: esso è il tramite del dolore che ci incatena al mondo.
Che in una situazione così desolata si possa ancora fare appello alla flessibilità, e alle sue risorse, sembra difficile da credere. Ma la specie umana è in grado di riuscirci, sin dall’infanzia: il nostro deficit adattivo e la nostra carenza istintuale rendono più difficile una risposta adeguata all’ostilità dell’ambiente, ma creano anche la possibilità di una rielaborazione simbolica. Ad esempio, un bambino subisce quotidianamente il trauma dell’improvvisa e immotivata sparizione di sua madre: può reagire inventando un gioco, come quello che Freud ha raccontato in Al di là del principio di piacere. Un rocchetto lanciato oltre la cortina del lettino, e gioiosamente richiamato. Bastano due sillabe e un piccolo oggetto perché venga instaurato il gioco del Fort/Da. Che le manifestazioni di piacere si estendano al primo gesto, quello che mima l’allontanamento e la perdita, che la gioia trabocchi oltre la barra di separazione, è forse la prova di una rivincita. La logica congiuntiva è riuscita a scavalcare il binarismo dei significanti.
Ci soffermeremo adesso su un altro esempio in cui il riso è trasformatore e strategico. È ancora la storia di un bambino, proiettato questa volta nella dimensione dell’estraneità assoluta. A soccorrerlo sono nuovamente le risorse del Simbolico: la salvezza viene dal Nome-del-Padre, dalla fiducia nella parola di qualcuno che usa la parola per realizzare una commovente e straordinaria fantasia di protezione. In “La vita è bella” di Roberto Benigni la parola paterna compie un viaggio a ritroso attraverso il complesso di Edipo: non agisce come una parola separativa e ostile al desiderio, e non introduce alla sfera del letteralismo. Al contrario: un padre spodestato delle sue funzioni “istituzionali” torna al linguaggio della metafora perché solo così egli potrà ancora prendersi cura di suo figlio, e difenderne la psiche da ferite terribili. La metaforizzazione del lager in un luogo dove si svolge un concorso a premi esige dall’immaginazione una difficile coerenza e una formidabile duttilità. Bisogna continuamente travestire e rovesciare la realtà, cioè carnevalizzarla.
Tutta la seconda parte del film di Benigni richiama il folclore carnevalesco e la logica del mondo alla rovescia. Per esempio, la massa dei prigionieri davanti ai capannoni viene trasformata in una folla di persone che fanno la fila per entrare, e che temono di venir rimandate a casa; la tragica scomparsa dei bambini ebrei viene smentita dalla scoperta di bambini tedeschi che giocano a nascondino. C’è l’episodio della finta incudine, che permette a Guido di risparmiare energie, e di rinsaldare la fiducia del piccolo Pietro in un momento delicato. Verso la fine, Guido si traveste da donna nel tentativo di ritrovare la moglie. Inoltre, è stata inserita in questa vicenda quella che Bachtin considera la principale azione carnevalesca, cioè la burlesca incoronazione e successiva scoronazione del re del carnevale. Si ricordi che, per Bachtin, i due gesti che compongono questo rito ambivalente non sono così separati come si potrebbe credere accentuando la loro successione sul piano cronologico. “Nell’incoronazione è già contenuta l’idea dell’imminente scoronazione: essa è fin dall’inizio ambivalente”; e ancora: “l’incoronazione e la scoronazione sono inseparabili, sono un fatto uno e bino e trapassano l’una nell’altra; la loro separazione assoluta fa perdere completamente il loro senso carnevalesco” (1929, trad. it. pp. 162-163).
La scena a cui alludiamo si svolge nella camerata. Entra un caporale delle SS accompagnato da due soldati armati; chiede se c’è qualche italiano che parla tedesco, e che è in grado di tradurre le regole del campo. Guido alza la mano.
Affiancandosi al caporale e ascoltando le sue istruzioni brutali e stentoree, Guido ne riconosce l’autorità: ma a venir incoronato è soltanto il re del carnevale, e nel gesto di sottomissione si sta già facendo strada la scoronazione imminente. Una scoronazione parodica che trasforma la paura, le punizioni e la morte in una faccenda di merendine, di golosità e di lecca lecca. L’incubo del lager viene inghiottito nel ventre della metafora inventata da Guido.
5. Le metafore cambiano e non cambiano il mondo. Sono gesti di pensiero, e il pensiero si scinde nella pluralità dei regimi. Se questa pluralità fosse arbitraria, potremmo assistere prima o poi al crollo definitivo dei confini e all’inclusione di tutti i regimi in uno solo; ma poiché non è arbitraria, noi siamo padroni - e nello stesso tempo non siamo padroni - solo della possibilità di creare mescolanze, più o meno efficaci, più o meno durevoli.
Diceva Wittgenstein: “il comportamento dei fatti non possiamo postularlo”. Contro questo limite vanno a infrangersi, nella bellissima storia narrata da Benigni, i poteri della metafora, della comicità e del riso. Alla fine Guido muore. Tuttavia questi poteri hanno parzialmente trasformato “il comportamento dei fatti”, lo hanno relativizzato: a venir relativizzate sono state soprattutto le articolazioni dure, benché storicamente variabili, della realtà, la monotonia del loro tipo. Nel terzo regime abbiamo finalmente incontrato la flessibilità maggiore, non adattiva o punitiva, ma trasformatrice. Vorremmo richiamare l’attenzione su un ultimo punto: la comicità instaurata dal terzo regime non ha un carattere sociale, come nel modello di Bergson e in quello di Bachtin. Ciò significa, probabilmente, che la flessibilità nella sua forma superiore appartiene agli individui, e non ai popoli, e comunque non alle formazioni collettive. L’elaborazione strategica ha inevitabilmente un carattere individuale. Alla dimensione collettiva resta invece il privilegio di poter instaurare - per un tempo breve - la fluidità assoluta, la gaiezza non malinconica dell’utopia.
BIBLIOGRAFIA
- Bachtin, M.
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