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La semiotica alla luce del conflitto

In “Guerre di segni. Semiotica delle situazioni conflittuali”, Atti del XXX Convegno dell’AISS, Centro Scientifico Editore, Torino 2005

1. Bertold Brecht ha detto una volta: “Spero di essere ricordato come qualcuno che ha fatto delle proposte”. Ed è così che vorrei fosse recepito il mio intervento. Non sono abituato a formulare proposte timide o compromissorie: d’altronde il tema di questo convegno mi offre l’occasione non solo per affrontare una problematica che è da molto tempo al centro delle mie riflessioni, quella del conflitto e della strategia, ma per osservare il campo della semiotica in una prospettiva conflittuale. Ciò che vorrei esaminare non è tanto il modo in cui la semiotica descrive i conflitti, quanto la capacità, da parte del pensiero semiotico, di sopportare – tollerare ed elaborare – l’idea di conflitto. Mi interessa dunque il conflitto non come un oggetto, o un campo di applicazione, ma come la fonte di uno o più stili di pensiero.

Questa è l’alternativa “originaria”, come direbbe Heidegger. Ignorare quest’alternativa significa assumere dogmaticamente alcuni presupposti “stilistici”, e più precisamente significa affidarsi senza riserve alle potenzialità del regime separativo (chiamo regime una famiglia di stili di pensiero). Occorre osservare immediatamente come tutta la filosofia occidentale sia attraversata dal dissidio tra due tipi (o stili) di logica, disgiuntiva e congiuntiva. Le logiche disgiuntive (o separative) privilegiano la fermezza delle frontiere, grazie a cui le unità nominate dal linguaggio acquistano e mantengono la propria identità - o la modificano senza nessun cambiamento di natura: rigidità non equivale a immobilità e non esclude una perenne moltiplicazione; un codice rigido può venire modificato anche giornalmente senza che le correlazioni su cui si fonda diventino flessibili). Com’è ovvio, una logica disgiuntiva non ignora il conflitto: ciò che la caratterizza è semmai la tipologia delle relazioni oppositive di cui essa si serve, tipologia che prevede soltanto - e comunque privilegia - i casi di contrarietà e di contraddizione (si pensi al quadrato degli opposti della logica medioevale, ripreso da Greimas) 1.

Le logiche congiuntive privilegiano invece il caso dei correlativi – che non sono semplicemente delle correlazioni ! Non bastano né le correlazioni né le interazioni per entrare nel territorio del pensiero congiuntivo. E anche il concetto di “interdipendenza” risulta inadeguato, e fortemente equivoco, se non lo si approfondisce. Senza dubbio i correlativi sono (già in Aristotele) quegli opposti che si definiscono e si presuppongono reciprocamente: ma questo è solo il punto di partenza.

Prima di indicare le distinzioni che lacerano anche la sfera dei correlativi, sembra opportuno affrontare le obiezioni – e forse le proteste – che possono giungere dal fronte semiotico. Sto affermando che la semiotica è dominata da uno stile di pensiero separativo e che, di conseguenza, essa non possiede strumenti e modelli adatti a interrogare e a comprendere i conflitti. Non che sia impossibile applicare una strumentazione semiotica alle situazioni conflittuali: si è dato per scontato che lo si possa fare, e lo si è fatto (lo confermano le relazioni che ho ascoltato finora in questo convegno). E tuttavia la verità espressa da un aforisma di Karl Kraus, “la prova più forte contro una teoria è la sua applicabilità”, non può non far sorgere dei dubbi per quanto riguarda gli effetti e il valore euristico degli strumenti di cui la semiotica dispone attualmente, e che potrebbero rivelarsi, in una misura notevole, anti-strategici.

Prendiamo in esame il quadrato degli opposti di Greimas. Perché la tipologia aristotelica, che distingue tra contraddittori, contrari e correlativi, è stata ridotta a due casi soltanto? E che cosa implica la scomparsa dei correlativi? Vediamo anzitutto come ciò avviene. In un passo molto noto, Saussure afferma che, dato uno spazio semantico, l’abolizione di un termine determina un travaso a favore dei termini rimanenti. Se da tre si passa a due, in Greimas, è perché i correlativi (e il concetto di “presupposizione reciproca” su cui essi si fondano) sono finiti – dove? Nei contrari? Nei contraddittori? In entrambi i tipi di relazione? Cerchiamo la risposta a questa domanda aprendo il Dizionario di Greimas e Courtés.

La contraddizione è definita come una relazione tra due termini, il primo dei quali è reso assente dall’atto di negazione, mentre il secondo diventa presente; si tratta dunque, “al livello dei contenuti posti, di una relazione di presupposizione” (Greimas – Courtés, 1979: tr. it. 79). La contrarietà è “la relazione di presupposizione reciproca esistente tra due termini di un asse semantico, quando la presenza dell’uno presuppone quella dell’altro, e inversamente” (ibidem).

Sembra indiscutibile che qui siano descritti casi di presupposizione differenziale (reciproca e non), e che non venga assolutamente evocata quella presupposizione reciproca conflittuale su cui sono imperniati i correlativi (da Aristotele a Hegel, ecc). D’altronde, che senso avrebbe parlare di conflitto tra il “bianco” e il “nero”, che pure rappresentano i casi estremi e più divaricati in una serie differenziale? Se rileggiamo in questa chiave la tipologia aristotelica, potremo agevolmente distinguere tra:

  • i contraddittori (presupposizione non reciproca tra incompatibili; ad esempio: sono seduto /non sono seduto; relazione in absentia);
  • i contrari (presupposizione reciproca tra compatibili, dunque possibilità di casi misti; ad esempio il grigio come mescolanza di bianco e nero; relazione in praesentia; interdipendenza debole, o differenziale);
  • i correlativi (presupposizione reciproca come interdipendenza forte ed eventualmente conflittuale; esempi aristotelici: la metà e l’intero; padrone e servo) 2.

La semiotica si è occupata prevalentemente (e in molti autori quasi esclusivamente) dei contraddittori e dei contrari. Quando si parla di “correlazioni” o di “correlativi” in semiotica, si fa riferimento a casi di presupposizione differenziale, sull’asse paradigmatico o su quello sintagmatico. La semiotica ignora il pensiero strategico anche quando parla o si occupa di strategia.

Vedrò in seguito di attenuare la perentorietà di queste affermazione indicando vie e zone di riflessione che restano comunque minoritarie rispetto ai paradigmi più diffusi (il cui declino, peraltro, appare irreversibile e dovrebbe suscitare una seria volontà di revisione). Occupiamoci adesso della reciprocità e dell’interdipendenza così come si manifestano nel campo del pensiero congiuntivo.

2. Quanto oscura e discutibilmente viscosa possa essere qui la nozione di “interdipendenza”, lo si verifica facilmente, ad esempio, in un saggio di Derrida, “L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia”, dove troviamo asserzioni di questo genere:

“il philèin (non dico la pihilia) e il polemos non si escludono né si oppongono mai nel pensiero di Heidegger” (p. 108)
“allora il conflitto e la discordia non sono estranei né opposti alla grazia e all’amicizia”(138)
“che si tratti di lotta o di attrazione, di Kampf o di philia, bisogna essere in due e il due dev’essere un due di reciprocità” (145)

Commentando il commento heideggeriano all’aforisma 67 di Eraclito, “Il dio è guerra e pace, come è giorno e notte, inverno e estate“, Derrida approda alla riconciliazione tra amicizia e inimicizia (168). Ebbene, nel momento in cui si assume questo saggio di Derrida come un’esemplificazione del pensiero congiuntivo, diventa necessario fare un passo oltre, e proporre distinzioni che Derrida ignora: infatti qui vediamo all’opera un pensiero congiuntivo non strategico. Abbiamo qui un esempio della guerra che i filosofi hanno quasi sempre condotto contro la strategia. Il due della reciprocità (bellum – duellum, per riprendere Nietzsche) non implica di per sé, anche se decidessimo di accentuare la componente agonistica, un pensiero della Metis, cioè una razionalità strategica. Ciò non toglie che la tesi heideggeriana “Logos e polemos sono la stessa cosa (das selbe)”, debba venir considerata un eccellente inizio. Heidegger dice che il logos non è semplicemente la capacità di descrivere i conflitti, ma che è in se stesso conflittuale. Il logos è la sua stessa divisione, la possibilità e la necessità di scindersi in differenti stili di pensiero.

Come si è accennato, al “due della reciprocità”, alla co-appartenza (Zusammengehörigkeit) heideggeriana, va affiancata, e non assimilata, una reciprocità non duale – il “tre” dei regimi di senso. Reciprocità non duale vuol dire intreccio di stili, dalla cui complessa interazione nascono testi e strumenti di analisi notevolmente diversi. Ma, lo sappiamo, ogni complessità può venire ridotta: l’intreccio agonistico può venire addomesticato e riportato a prudenti separazioni.

Sarebbe estremamente ingenuo credere che l’uso del termine strategia implichi l’adozione di un pensiero strategico, nella sua accezione più ricca 3. Esiste una logica congiuntiva non strategica, ed esiste evidentemente una logica disgiuntiva che si occupa di strategie, che le descrive e le analizza, come oggetti (o situazioni) poste di fronte a un soggetto fornito di una certa competenza cognitiva. Si tratta allora di interrogarsi su quale sia la competenza cognitiva necessaria per comprendere le strategie, le relazioni strategiche, e quale sia il soggetto in grado di esprimere questa competenza o capacità.

Ci troviamo evidentemente all’interno di un circolo: che cosa sia e come vada intesa una relazione strategica, è la teoria che deve stabilirlo; d’altra parte, una nozione inadeguata della varietà e della complessità delle relazioni strategiche potrebbe indurre la teoria a ritenere soddisfacenti i propri modelli di analisi, sulla base di un’esclusione arbitraria dei casi più complessi. Come sempre, il passaggio da un circolo vizioso a uno virtuoso non può venir garantito, e non resta che procedere: non basta però affidarsi all’interazione tra modello e oggetto, se non si ha il coraggio di esaminare gli assunti impliciti della teoria. Bisogna interrogare i limiti del proprio pensiero, l’orizzonte stilistico da cui provengono certezze e abitudini.

Una riflessione del genere presenta un indubbio carattere modale. Vedremo in seguito come le sorti del pensiero strategico – una logica congiuntiva non hegeliana, non heideggeriana, non derridiana, tanto per intenderci – siano legate a quella che chiamerò “rivoluzione modale”, ma anzitutto occorre comprendere il carattere paradossale della logica congiuntiva. Le congiunzioni di cui stiamo parlando non sono le congiunzioni lineari e separative, ben note alla narratologia da Propp a Greimas (A s’impadronisce di B, relazione soggetto – oggetto in Greimas); stiamo parlando di “scissioni congiuntive”, cioè divisioni che non sono semplicemente scomposizioni.

3. Tutto ciò è fondamentale se vogliamo tentare di comprendere la “natura” – l’identità – del linguaggio e, più in particolare, di valutare quella che è stata chiamata “svolta linguistica”, la cui radicalità è stata discutibilmente enfatizzata. Con l’espressione linguistic turn si indica la centralità del linguaggio, la sua imprescindibilità come strumento di analisi ma anche di costruzione di quella “realtà” a cui gli strumenti vengono applicati. Ebbene, quali sono i limiti di questa svolta, almeno per quanto riguarda il campo della filosofia analitica e il campo linguistico-semiotico? Con un’espressione che potrà suonare sconcertante, dirò che la svolta linguistica non è stata accompagnata da una rivoluzione semantica. Ciò che unifica tutte le concezioni semantiche nel campo della filosofia analitica è – e continua a essere - l’idea del significato “indiviso”. Questo tratto comune ridimensiona le differenze che evidentemente esistono tra il significato come oggetto astratto (Frege), come uso (Wittgenstein), come intenzione di significare (Grice), come significato-stimolo (Quine), come stereotipo (Putnam), ecc 4. La concezione del significato indiviso è rimasta un dogma anche per le discipline linguistiche e per la semiotica: non sono certamente le distinzioni tra significazione e comunicazione, tra parola e testo, tra semantica e pragmatica, tra dizionario ed enciclopedia, che possono indurre a problematizzare quella che resta la nozione più oscura e più difficile per ogni teoria del linguaggio.

Perché la “non divisione” del significato non è mai diventata un problema? Quando si afferma che non lo è mai diventata, la validità di quest’affermazione va tuttavia limitata (lo ripeto) alla filosofia analitica e alle discipline linguistiche. Infatti, benché non si parli esplicitamente di una semantica divisa – di questa espressione sono io l’artefice -, l’idea di scissioni che attraversano il significato appare fondamentale per Freud e per Heidegger, e soprattutto per Lacan, che in Freud e Heidegger ha trovato le sue maggiori fonti di ispirazione. La semantica divisa è un progetto assai più complesso e radicale della svolta linguistica; se non è stato contornato dalla stesso clamore, se è maturato progressivamente nel corso del XX secolo attraverso una solidarietà silenziosa o nella ricerca parallela di alcuni pensatori essenziali, ciò si deve forse al fatto che, per citare Nietzsche, i grandi pensieri incedono con passi di colomba 5. A poco a poco, comunque, questo progetto si è fatto strada, è diventato sempre più visibile, ha potuto trovare un nome.

In base a quali condizioni e a quali presupposti, in base a quale prospettiva diventa possibile pensare le divisioni nel significato? Divisioni, e non scomposizioni: scissioni congiuntive, e non lo smontaggio praticato dalla semantica componenziale – smontaggio che resta in tutto e per tutto “separativo”, anche se costituisce uno dei varchi più interessanti per una possibile apertura della semiotica in direzione delle logiche congiuntive.

Nessun progetto nuovo, nessun nuovo paradigma può imporsi, se non a spese di quelli precedentemente instaurati: bisogna chiedersi dunque quale sia l’ostacolo, la rigidità epistemologica di cui dobbiamo disfarci. L’idea del significato indiviso presuppone generalmente una concezioneveicolare, in base a cui un contenuto viene trasmesso in quanto associato a un’espressione. Si dirà che non tutta la semiotica condivide un punto di vista così naif; che il modello veicolare della comunicazione, quello di Jakobson, è stato da molto tempo criticato e modificato. Si metterà l’accento sui processi di costruzione del senso e sull’interazione comunicativa. Io ritengo però che queste possibili (e probabili) repliche siano anch’esse, se non ingenue, comunque insufficienti. L’autocritica che i semiologi hanno condotto nei riguardi dei propri assunti impliciti resta inadeguata.

Tra i molti esempi possibili, che potrei citare a conferma di questa asserzione, sceglierò il libro di Patrizia Violi, Significato ed esperienza; e non solo per le qualità di questo libro, ma per l’apprezzabile tentativo di sintesi che esso propone: Patrizia Violi delinea una semantica globale, in grado di connettere la dimensione intralinguistica (l’aspetto differenziale del significato), la dimensione cognitiva (rapporti tra struttura lessicale e organizzazione concettuale) e la dimensione extra-linguistica (1997: 68-sgg.). Non sembra facile dissentire da un progetto così ampio ed equilibrato, che intende correggere le unilateralità dello strutturalismo, della semantica cognitiva e della filosofia del linguaggio 6. In realtà, i motivi di dissenso non mancano.

In primo luogo: questo progetto mette in discussione l’idea del significato indiviso ? Direi di no. Mette in discussione la concezione veicolare? Sì e no. No, perché il significato è ancora definito come un “contenuto cognitivo”, associato a espressioni (Jackendoff, un autore apprezzato dalla Violi, parla di “informazioni veicolate dai differenti sistemi di rappresentazione” (ibid., 52); oppure come un atto intenzionale che istituisce, per un soggetto, un nesso tra un’espressione e un contenuto esperienziale, 71). Sì, in parte, perché il nesso tra significato ed esperienza sposta l’accento sulle competenze: possiamo dire, osserva la Violi, che conosciamo il significato di bicchiere se non siamo in grado di distinguere un bicchiere da un piatto?

A questa domanda si potrebbe replicare con un’altra, di ordine più generale. Il linguaggio è uno strumento, la cui vocazione essenziale è quella di permetterci di non fare confusione con oggetti dell’esperienza? Credo che Patrizia Violi risponderebbe di sì (e con lei molti altri semiotici): una delle tesi più frequentemente ribadite in Significato ed esperienza è la non autonomia della semantica, e più in generale del linguaggio. Il significato linguistico non è autonomo perché non è separabile dall’insieme delle nostre conoscenze culturali e neppure dall’insieme dei nostri processi cognitivi (ibid., 4). Il linguaggio non è un sistema isolato e autonomo, ma interagisce con il nostro sistema percettivo (ibid.,13) 7. Da questa impostazione deriva l’enfasi sulla vocazione referenziale del linguaggio: “Tutto il linguaggio, nel suo insieme, è un complesso dispositivo deittico”; “tutto il linguaggio è attraversato da un’intrinseca indessicalità che rinvia alla dimensione extralingistica della nostra esperienza” (ibid.,71). E infine: “ogni teoria del significato non può che essere anche una teoria dell’esperienza umana” (ibid., 74).

Sulla “lettera” di quest’ultima affermazione si potrebbe concordare: a condizione però di chiarire che cosa s’intende per esperienza umana. Dell’esperienza umana fanno parte le sedie e i tavoli, i cani e i gatti, gli elefanti e gli ornitorinchi, e soltanto entità di questo genere? Oppure, per esempio, le opere di Goethe, e anche soltanto questa massima: “Il mezzo più sicuro per sottrarsi al mondo è l’arte; il mezzo più sicuro per legarsi al mondo è l’arte”8?

Una massima è per lo più un enunciato denso (cfr. Bottiroli 1997 e 2001). Appartiene a quel genere di enunciati di cui i linguisti e i filosofi del linguaggio non si occupano mai, in quanto preferiscono dedicare la loro attenzione a “Il gatto è sul tappeto”, “Pietro ama Maria”, ecc., e di cui i semiologi si occupano raramente. Ora, gli enunciati densi non dovrebbero venir considerati come un caso marginale e “derivato”, quasi costituissero un sottinsieme degli enunciati articolati (esplicitamente articolati) 9, con in più un alone di connotazioni o una zona di implicito superiore alla media. In realtà l’opposizione “denso/articolato” dovrebbe venir considerata una distinzione di assoluto rilievo, e di importanza tale da precedere, per esempio, la distinzione tra analitico e sintetico. Si giungerebbe così a una concezione del linguaggio fondamentalmente diversa da quella in cui convergono filosofia analitica e semantica cognitiva.

La massima di Goethe si riferisce all’arte, ma potrebbe venir estesa al linguaggio (non perché si voglia recuperare un’equivalenza tra arte e linguaggio, ma perché la flessibilità, che Goethe attribuisce in maniera eminente all’arte, è un tratto costitutivo del linguaggio in generale. O meglio, si dovrebbe dire che il polemos, il conflitto tra rigido e flessibile è determinante per l’identità (la “natura”) del linguaggio.

Diremo ancora, a questo punto, che il linguaggio ha una vocazione referenziale? È evidente che si potrebbe dire, con assoluta legittimità, esattamente il contrario. Tuttavia questa possibilità non deve indurci frettolosamente a concludere che le affermazioni sulla vocazione referenziale e rispettivamente sulla vocazione anti-referenziale del linguaggio costituiscono due “mezze verità”, cioè un caso di “rovesciabilità” tra enunciati. L’idea della rovesciabilità appartiene da molto tempo alla tradizione relativista e scettica (ricompare, fra l’altro, nello sciocchezzaio debolista). Sarebbe un gravissimo errore annacquare e dissolvere il pensiero della flessibilità nella tradizione del “rovesciabile” 10.

L’equivoco potrà venir allontanato mostrando come il “flessibile” non sia una generica proprietà di un regime di pensiero, ma una nozione che va interrogata al fine di sviluppare una logica strategica. Un momento essenziale di questo progetto è la riflessione sulle modalità.

4. Qual è il motivo del mio dissenso radicale rispetto all’impostazione dominante nella filosofia analitica e nella semiotica? Ebbene, io ritengo che questa impostazione sia viziata da una fallacia modale, e più precisamente dalla fallacia dell’effettualità.

Vediamo di chiarire anzitutto il primo termine di quest’espressione. Una teoria non è mai soltanto un insieme di proposizioni, a cui viene attribuito un carattere di verità. Una teoria ha un carattere prospettico, che determina non solo gli spazi del vero e del falso, ma i luoghi in cui la verità – la possibilità di giungere a enunciati veri – viene sottoposta a qualche distorsione. Una fallacia non è semplicemente un errore: è qualcosa di meno, e nello stesso tempo qualcosa di più, qualcosa di molto più grave. È un ostacolo epistemologico che acceca mediante le sue (giustificabili) evidenze. Ecco perché si può parlare non solo di un errore ma di un distorsore.

Ciò che chiamo fallacia modale diventa comprensibile solo a partire da un programma, certamente vasto e ambizioso, che ho battezzato rivoluzione modale. C’è una componente astratta, in questo programma, e indicarla adesso, rapidamente, significa compiere un gesto paragonabile a quello con cui si indica un quadro cubista o espressionista a uno spettatore abituato alla pittura figurativa. Ma c’è anche un aspetto intuitivo, in cui confido nel momento in cui sono costretto a delinearne rapidamente le linee essenziali. Nell’espressione rivoluzione modale si incontrano un’accezione politica e un’accezione copernicana. Il senso copernicano è quello, iniziale, della rotazione. Tutti conoscono la tavola delle categorie, presentata da Kant nella Critica della ragion pura: quattro gruppi di categorie, tre dei quali (quantità, qualità, relazione) si riferiscono alla sfera del dictum, mentre il quarto si riferisce alla sfera del modus. Delle categorie modali (necessità, possibilità, effettualità) Kant dice:

“le categorie della modalità hanno questo di particolare, che non accrescono minimamente, come determinazioni dell’oggetto, il concetto al quale sono unite come predicati, ma esprimono soltanto il rapporto con la facoltà conoscitiva. Quando il concetto di una cosa è già del tutto completo, io posso tuttavia chiedermi sempre, se questo oggetto sia solamente possibile o reale, e, in questo caso, se sia anche necessario”11.

La rivoluzione modale consiste anzitutto nel far ruotare le categorie “piene” (il dictum) intorno alle categorie “vuote” (il modus). Ma non basta: al significato copernicano va aggiunto quello politico, o polemologico, cioè la scissione e l’ampliamento della sfera delle modalità classiche (è così che designo l’effettuale, il possibile, il necessario). Dalla sola enunciazione di questo progetto nascono molti interrogativi, e s’intravedono diverse direzioni di sviluppo. Mi limito a delinearne una: prendendo in esame la riflessione filosofica sulle modalità, incontriamo definizioni “per intreccio”. Ad esempio “il necessario dev’essere possibile – osserva Aristotele – perché se non lo fosse sarebbe impossibile; il che è contraddittorio”12. Questo è un esempio di intreccio, o di relazione intermodale, che sembra potersi collocare ancora all’interno del regime separativo, in quanto regime contraddistinto da inclusioni non paradossali, e da una tassonomia semplice. Tradizionalmente si ritiene di poter stabilire delle corrispondenze tra necessario e rigido – il necessario è ciò che non può essere altrimenti - , e tra possibile e flessibile. Ma l’ovvietà di queste corrispondenze è uno dei primi bersagli del progetto che sto delineando, nel cui ambito diventa legittimo introdurre i concetti di “necessità flessibile” e di “possibilità rigida”. Così il conflitto tra rigidità e flessibilità irrompe nella sfera delle modalità classiche e produce un primo, decisivo incremento di complessità. L’altra scissione fondamentale riguarda il fattuale e il semantico.

Ciò su cui vorrei richiamare l’attenzione, ora, è la possibilità di formulare la nozione di “miscela modale”, intesa come uno spazio di combinazione in cui, inevitabilmente, una categoria modale domina sulle altre. È un punto che richiede, senza dubbio, lunghe e difficili elaborazioni; per inoltrarsi su questo terreno non basta il carattere intuitivo della nozione di “miscela”. Un esempio: quando Heidegger scrive, nel par. 7 di “Essere e tempo”, che “più in alto della realtà si trova la possibilità” (1927: tr. it. 70), non si limita a indicare la possibilità come lo sfondo su cui vengono ritagliate zone soltanto effettuali, o zone di necessità – come nel passo di Kant prima menzionato (“Quando il concetto di una cosa è già del tutto completo, io posso tuttavia chiedermi sempre, se questo oggetto sia solamente possibile o reale, e, in questo caso, se sia anche necessario”). In Kant lo stile di pensiero è separativo, in Heidegger è congiuntivo. Per Heidegger il possibile non è semplicemente implicato dall’effettuale (se non lo fosse, allora non esisterebbe quella data effettualità o esistenza) ma agisce con una forza desublimante: esso sovrasta ciò da cui dovrebbe essere sovrastato, vale a dire che non è il gradino o la piattaforma su cui si potrebbe poggiare il piede staccandosi dalla paritaria inesistenza dei possibili, ma è come un’onda divenuta visibile, solo per un istante, nella vastità fluida e perfettamente orizzontale delle acque.

Esiste dunque una pluralità di miscele modali, accentuata dalla pluralità dei regimi mediante cui possono venir descritte le relazioni tra le categorie che appartengono al modus. Sembra perciò legittimo parlare di fallacia modale, ogni volta che questa pluralità viene dimenticata e arbitrariamente, dogmaticamente ridotta a una sola miscela. La più tipica, la più spontanea e la più diffusa tra le fallacie modali è probabilmente quella dell’effettualità. Come ha spiegato Heidegger già in Essere e tempo, non è facile contrastare la tendenza a pensare l’essere a partire dall’ente. Tradotto nel linguaggio delle modalità, l’oblio dell’essere consiste nel dimenticare o nel cancellare la pluralità delle miscele, e nel privilegiare la miscela dell’ente intramondano, generando così la fallacia effettuale. Ogni concezione del linguaggio che ne affermi la vocazione referenziale cade in questa fallacia.

5. Cercherò di tornare, gradualmente, su un terreno più familiare a chi mi sta ascoltando. Molti aspetti della teoria che in questa sede ho appena abbozzato restano sicuramente oscuri; un po’ di luce potrebbe venire da un chiarimento sulle motivazioni e sui vantaggi derivanti da un’indagine sulle modalità. Il risultato più evidente, sul piano teorico, è senza dubbio il “nuovo elenco di categorie” (per usare un’espressione di Peirce) a cui la rivoluzione modale e la logica del pensiero diviso permettono di approdare. Ma che cosa giustifica la necessità di questo nuovo elenco? O meglio - riformuliamo così la domanda - in che senso e da che punto di vista lo possiamo definire necessario?

Perché le categorie piene dovrebbero ruotare intorno alle categorie vuote? E che cosa ci induce a credere che una semantica divisa potrebbe analizzare i testi meglio della concezione tradizionale? A tutte queste domande credo si possa rispondere, in prima istanza, facendo rilevare la non arbitrarietà del tentativo qui enunciato. La rivoluzione modale è una possibilità iscritta da sempre nella storia del pensiero occidentale; e non come una semplice possibilità, ma come una possibilità necessaria. L’estetica di Aristotele, per esempio, non appartiene affatto alla preistoria della narratologia, come molti credono, e il problema del verisimile non può venir affrontato seriamente senza un approccio modale. La celebre tesi aristotelica “l’essere si dice in molti modi” può venir indagata in un modo nuovo e più fecondo, se si rinuncia alla coppia uno/molteplice e si utilizza una logica scissionale. L’importanza del pensiero modale in autori come Leibniz, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, non può evidentemente venir sottovalutata. Ai nomi appena menzionati andrebbe aggiunto immediatamente quello di Peirce. Non riuscendo a comprendere il nucleo modale del pensiero di Peirce, la semiotica è riuscita a banalizzare anche il proprio padre filosofico; se si vuole cercare una prospettiva davvero stimolante nei confronti di questo autore bisogna rivolgersi ad alcune pagine fondamentali di Deleuze, nei due volumi dedicati al cinema. E ancora: la teoria del soggetto diviso in Freud rischia di venire fraintesa e semplificata senza una logica delle scissioni, che sappia recepirne le straordinarie novità e gli effetti filosofici. Non è un caso che il dibattito sull’identità personale, nell’ambito della filosofia analitica, sia estremamente arido. E appare davvero sorprendente l’ostinazione con cui si cerca di elaborare una riflessione filosofica sulla soggettività continuando a ignorare la psicoanalisi.

Quanto alla semiotica, il fallimento di tutti gli sforzi per costruire un concetto plausibile di “personaggio” avrebbero potuto sollecitare un dialogo, se non un’alleanza con il sapere inaugurato da Freud. Ciò non è avvenuto anche perché negli anni ’60 e ‘70 gli autori più attenti alla psicanalisi (la Kristeva, Barthes) hanno cercato nella psicoanalisi più una teoria del linguaggio che non una teoria dell’identità 13. Si dirà che sto dimenticando il progetto greimasiano di una teoria delle passioni; accolgo volentieri questa obiezione; anche se le distanze tra teoria semiotica delle passioni e teoria psicoanalitica del soggetto restano grandi, qui va riconosciuta una zona di possibile confronto – un confronto aspro ma anche fecondo 14.

Ancora un’osservazione sulla teoria greimasiana, nel cui ambito va registrato un forte interesse per le modalità. Finché la sfera delle modalità è rappresentata dal volere, dal sapere, dal potere, restiamo in una dimensione “piena”; nella prospettiva “stilistico – vuota” che sto enunciando, bisognerebbe ancora interrogarsi sulla possibilità e sulla necessità del sapere, sulla rigidità e sulla flessibilità del volere, e così via. Ma non c’è dubbio che anche questa sia una zona ricca di promesse, e a partire dalla quale la semiotica può rinnovarsi.

6. Sulla necessità, per la semiotica, di ripensare i propri fondamenti, i propri assunti impliciti e anche quelli espliciti, credo che esista un ampio consenso. Ma temo non ci sia una sufficiente lucidità; mi ha colpito, ad esempio, per citare un’ultima volta il libro di Patrizia Violi, la permanenza non problematizzata del triangolo semiotico. Quanta fiducia vi sia ancora, sul piano epistemologico, verso uno strumento così semplice e così logoro è dimostrato dal fatto che al triangolo semiotico viene affidato il compito di distinguere e classificare i principali approcci al problema del significato 15. Ebbene, credo che la solidarietà, o meglio la complicità, tra questo schema e la concezione veicolare del significato sia piuttosto evidente. La permanenza di questo schema è una conferma indiretta del fatto che l’evoluzione della semantica in campo semiotico – il passaggio a un modello istruzionale del segno, la concezione interattiva dei processi comunicativi, ecc. – è stata un’evoluzione timida, e non ha scosso i presupposti epistemologici di fondo. Con questo non voglio proporre la soppressione definitiva del triangolo semiotico : propongo la sua relativizzazione “stilistica” – si tratta cioè di riconoscere a quale regime di pensiero esso appartiene, e in quale ambito può ancora svolgere una funzione.

In sintesi: il triangolo semiotico è uno strumento separativo; appartiene alla storia e al campo della semantica indivisa; implica, nel senso forte di questa parola, una concezione indivisa del soggetto, una concezione ottocentesca, prefreudiana.

È dunque al rapporto tra teoria del soggetto diviso e possibili modelli del segno che dovremmo rivolgere adesso la nostra attenzione – ma lo spazio a mia disposizione non mi consentirà che qualche rapido cenno. Il nesso tra la dimensione della psiche e quella dei segni è stato sintetizzato parecchi anni fa da Lacan nella celebre formula “un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante” (1966: tr. it. 822), formula che non poteva e non può non apparire enigmatica agli studiosi di semiotica. Che il significante lacaniano non corrisponda al significante saussuriano, che non sia semplicemente una delle due facce del segno, quella che viene anche indicata come espressione, è assolutamente ovvio. Che in qualche modo il significante lacaniano corrisponda invece al “segno”, lo si può accettare. E tuttavia, se si cerca di addomesticare questa formula, riportandola, per esempio, a una definizione che compare nel Seminario III, “il significante è un segno che rinvia a un altro segno” (1981: tr. it. 197), si giunge a fraintenderla completamente. Lacan non è Peirce e il “tre” lacaniano non coincide con nessuna delle triplicità peirciane. Lacan parla di autonomia del significante – quest’espressione non vuol dire che il significante è autonomo, bensì che il significato è diviso.

Per comprendere la nozione psicanalitica di significante, occorre dunque guardare al modello della soggettività: e alla triplicità dei registri, l’Immaginario, il Simbolico, il Reale, in assenza dei quali non è possibile capire nulla della teoria freudiana (Lacan, 1975 : tr. it. 91) e certamente della teoria lacaniana. Questo, e non il triangolo edipico, è il tre della psicoanalisi. Tant’è vero che il modello della soggettività, se guardiamo allo schema più semplice con cui Lacan lo ha delineato, presenta quattro termini. Ha la forma di una zeta, e i suoi vertici sono occupati rispettivamente da S (Es), il momento inaugurale della soggettività, il polo pulsionale, da a’, la funzione dello specchio, da a, cioè l’Io in quanto costituito dalla relazione con una serie di immagini (un Io relazionale, non una sostanza o un nucleo), e infine da A, l’A(ltro), il luogo del Simbolico (1966: tr. it. 50). Rispetto agli schemi freudiani, quello di Lacan ha il vantaggio di prestarsi ad una lettura “dinamica”: possiamo percepire facilmente, nella combinazione delle linee, il duplice percorso che il soggetto deve compiere per acquistare un’identità socialmente riconoscibile: l’identificazione immaginaria e quella simbolica.

7. La riflessione sui conflitti potrebbe essere un’occasione preziosa per distinguere tra il passato e il futuro della semiotica: tra una semiotica generale, che ha svolto un importante ruolo di consolidamento disciplinare e può venire proposta tuttora come una forma di alfabetizzazione, e una semiotica della complessità, da intendersi come una forma di pensiero e uno spazio di ricerca – e dove si potrebbe affrontare il problema di una semantica “autonoma”, che non esclude la dimensione referenziale ma non è subordinata al referente. Questa distinzione ha un valore tipologico, cioè non esclude che i singoli autori possano appartenere contemporaneamente all’uno e all’altro tipo; tra gli autori più aperti alla complessità potremmo indicare un certo Greimas, un certo Lotman, un certo Bachtin – come pensatore del conflitto e non soltanto del dialogo.

Bibliografia

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Note

  1. È del tutto irrilevante, ai fini del mio discorso, che il carré greimasiano si occupi di termini anziché di proposizioni.
  2. L’eterogeneità di questi esempi suggerisce di per sé la necessità di un’ulteriore indagine.
  3. L’attuale inflazione dei termini strategia e flessibilità non ha condotto a un’elaborazione filosofica.
  4. Traggo questo elenco di posizioni da Picardi, 1999: 23-24.
  5. Più esattamente: “Le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba, guidano il mondo” (1885: tr. it. 171).
  6. È totalmente condivisibile la pars destruens rivolta contro la semantica modellistica.
  7. È la posizione della semantica cognitiva, a cui la Violi si dichiara molto vicina.
  8. Goethe, Die Wahlverwandtschaften, 1809 (tr. it. Le affinità elettive, Padova, Marsilio, p. 186).
  9. La densità non esclude l’articolazione, anzi: la include.
  10. Non posso approfondire questo punto: cfr. il test di Lautréamont, in Teoria dello stile, e la differenza tra personaggi flessibili e rovesciabili in “Lacan. Arte linguaggio desiderio”.
  11. Kant 1787(tr. it: 224).
  12. Aristotele, Perì ermeneias, 13, 22 b 28 sgg (tr. it. Dell’espressione, in Organon, Bari, Laterza 1970, 82).
  13. Vanno ricordate peraltro alcune analisi testuali, tra cui il libro, davvero eccellente, di Alessandro Serpieri sull’Othello di Shakespeare.
  14. Forse non è un caso che l’interesse per la teoria delle passioni induca la semiotica a occuparsi di letteratura – si veda il bel libro di Isabella Pezzini, Le passioni del lettore.
  15. “I differenti programmi di ricerca che hanno in vario modo cercato di rispondere alla domanda “che cos’è il significato?” si possono distinguere fondamentalmente a seconda della diversa enfasi che hanno posto sui diversi lati di questo triangolo” (1997: 12).