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Il parricidio non ha avuto luogo

Il ‘non’ per gli stili di pensiero

Pubblicato in "Il testo e l’opera. Studi in ricordo di Franco Brioschi" (a cura di Laura Neri e Stefania Sini), Ledizioni, Milano 2016, pp. 115-135

1. Esiste una leggenda filosofica secondo cui, in uno dei suoi ultimi dialoghi, Platone avrebbe compiuto nei confronti di un venerando maestro un gesto di separazione così violento da risultare equiparabile, sia pure metaforicamente, a un parricidio (patraloia). Dice lo Straniero:

“Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di far violenza al pensiero del padre Parmenide, e di forzarlo col dire che ciò che non è, sotto un certo rispetto, tuttavia è” (Il Sofista, 241 d 5-7).1

 

In cosa consiste esattamente questo gesto di violenza? Perché – come asserisce il titolo di questa riflessione – dovremmo dubitare che abbia avuto luogo, almeno nell’opera di Platone? La risposta va cercata nella teoria degli stili di pensiero: sembra plausibile che una filosofia monostilistica, o zerostilistica, possa vivere le proprie fratture interne come veri e propri traumi; e tuttavia, non appena si assume una prospettiva più ampia, queste fratture o svolte appaiono come modifiche e revisioni interne. Con ciò – com’è ovvio - non si intende svalutarne completamente l’importanza.

Vorrei concentrare la mia attenzione sul “non”, in quanto è il termine che rende maggiormente visibili i meccanismi della negazione – e della negatività. Non va trascurata peraltro la possibilità che la negazione si esprima tramite un aggettivo o un pronome (nessuno, nulla) e persino in enunciati esteriormente privi di un indice negativo. Alcuni di questi enunciati – ma non penso ad esempi come “Dio è immortale” (= Dio non può morire)2 - meritano di venir esaminati con una cura particolare.

Dunque, il “non” assume significati e ruoli diversi in base allo stile di pensiero in cui opera; e poiché una teoria degli stili di pensiero implica il pluralismo logico, questa particella negativa dovrà venir considerata non semplicemente come un operatore sintattico, ma come un operatore logico. Si tratta allora di vedere come viene usato il “non” nell’ambito delle logiche disgiuntive e in quello delle logiche congiuntive.3

 

2. Ciò che caratterizza da sempre la logica è il primato della forma rispetto al contenuto o all’oggetto. La logica, si dice abitualmente, guarda alla validità delle inferenze, indipendentemente dalla loro verità (e in questo senso è “formale”). Questa tesi risulterebbe pienamente persuasiva a due condizioni: (a) se potessimo limitarci a una sola logica, a un solo stile di pensiero, quello che Platone e Aristotele hanno elaborato e affermato come lo stile di pensiero della “filosofia” – d’ora in avanti, scriverò tra virgolette questo termine per enfatizzare una presa di distanza; (b) e se tra logica e ontologia non esistessero legami molto stretti, al di là delle intenzioni di chi si muove in una dimensione o nell’altra, illudendosi di poterle disgiungere nettamente: a ben vedere, non esiste logica in cui non sia riconoscibile un’ispirazione e comunque una proiezione ontologica.

Mostrare i legami e la coerenza tra logica e ontologia è dunque un compito essenziale. Ma riconoscere una coerenza non conduce a negare una reciproca autonomia, la cui portata e i cui effetti restano da valutare: in ogni caso, sarebbe sbagliato intendere il linguaggio (e tutta la dimensione logica di cui è intriso) come un riflesso del mondo. Molti secoli prima di Hegel e di Lacan, per i quali le parole uccidono le cose, la filosofia greca ha messo in discussione le pretese mimetiche del linguaggio: e il primo a sottolineare una distanza che crea perplessità e fa sorgere enigmi, è stato Parmenide.4

Per il filosofo di Elea, il logos presenta, per, così dire, una sovrabbondanza di non-essere, cioè di espressioni orientate verso ciò che non è: e tra queste risulta inquietante più di tutte per la sua frequenza, oltre che il suo rango, la particella della negazione, il “non” (, ou). La via del non-essere è aporetica, è l’aporia stessa: secondo il poema di Parmenide, questa via non esiste né potrebbe esistere (“non è ed è necessario che non sia”), non è accessibile alla conoscenza e al linguaggio (“Infatti non potresti conoscere ciò che non è … né potresti esprimerlo”).5

Il decreto parmenideo che proibisce di parlare del non-essere ha continuato a ricevere consensi sia pure parziali, più moderati, e nella filosofia moderna si presenta come il paradosso degli esistenziali negativi, vale a dire di quegli enunciati in cui si nega l’esistenza di qualcosa (ad esempio, “Pegaso non esiste”). Tale paradosso assume più o meno questa forma: per negare l’esistenza di qualcosa, occorre riferirsi a quella cosa; ma riferendosi ad essa se ne ammette l’esistenza; pertanto, risulta contraddittorio ammettere l’esistenza di qualcosa nell’atto stesso con cui la si nega.

Dovrebbe bastare una breve riflessione per rendersi conto dell’inconsistenza di questo presunto paradosso: e non tanto perché esso cerca di far apparire contraddittoria un’operazione che ciascuno di noi compie senza difficoltà, vale a dire il riferirsi a entità non-effettuali (come gli dèi e i personaggi della mitologia greca); è sempre lecito, in linea di principio, sospettare del senso comune e del linguaggio quotidiano. Dal punto di vista filosofico, l’inconsistenza del “paradosso” deriva dalla volontà di porre un’equivalenza artificiosa e dogmatica tra “riferimento” e “riferimento a qualcosa di esistente”. Perché mai dovremmo accettarla? L’effettualista – propongo questo termine per indicare il moderno seguace di Parmenide – fonda la sua argomentazione su un’altra equivalenza, a cui resta aggrappato con ostinazione infantile: quando diciamo “qualcosa”, intendiamo “qualcosa che esiste”. Oppure: se parliamo di un ente (ens), non possiamo non ritenerlo esistente. Tra il senso comune e l’etimologia, l’effettualista sceglie l’etimologia. Ma, ancora una volta, non si vede alcun motivo per accettare tanta rigidità: posso decidere – e comunicare ai miei interlocutori – che termini come “qualcosa”, “entità”, “ente”, indicano anzitutto una possibilitas, cioè l’insieme dei tratti che configurano un’identità e la rendono distinguibile dalle altre, a cominciare dalle più simili: posso far riferimento a un cavallo che, oltre alle proprietà che definiscono questa specie animale, sia fornito di ali: con ciò non mi impegno all’esistenza di Pegaso.

Il paradosso degli esistenziali negativi è facilmente smontabile: possiamo riferirci a “cose che non esistono” perché una “cosa” (una res) non è necessariamente “una cosa esistente”. Kant aveva chiarito la questione osservando che “quando il concetto di una cosa è già del tutto completo, io posso tuttavia chiedermi sempre se questo oggetto sia solamente possibile o reale (wirklich), e, in questo caso, se sia anche necessario”.6 Una res, un elemento della Realität, potrebbe quindi venir definito uno spazio identitario (articolato, e non informe o collassato).

Ciò che genera perplessità, allora, non è il paradosso, ma l’ostinazione con cui si è voluto e si vuole riproporlo. Quali sono i presupposti impliciti, i dogmi inconfessati, da cui deriva questa ostinazione? Ecco il vero problema, che in questa sede non potrà venir affrontato in tutta la sua complessità: cercherò tuttavia di indicare l’impostazione più corretta.

E’ stato chiarito un primo punto: “fare riferimento” non equivale a riferirsi a qualcosa di esistente. Ciò dipende dal funzionamento del logos (linguaggio-pensiero), che non ha una natura mimetico-duplicatoria: esso contiene elementi che designano entità finzionali, e una volta creato uno spazio identitario per qualcuna di queste entità, può arricchirlo, espanderlo; ma questo è il caso più semplice; esso contiene inoltre alcuni termini che svolgono una funzione organizzativa, e che vengono chiamati sincategorematici. Tra di essi spicca per importanza il non, che è privo di un corrispettivo ontico, e che quindi non svolge una funzione referenziale (almeno, non direttamente).

 

3. Che si possa percorre la via del “non” senza cadere in contraddizione, è una convinzione assai diffusa, da Platone in poi, e sarebbe inutile ribadirlo se non esistessero posizioni parmenidee, settoriali ma estremamente tenaci, come quella appena ricordata (il “paradosso” degli esistenziali negativi). Ma la via del non-essere non sembra riducibile a questioni logico-grammaticali. Contro chi, o che cosa, si rivolgeva la severa proibizione di Parmenide? Se la via del non-essere non fosse in alcun modo praticabile, perché proibirla? Non c’è bisogno di proibire l’impossibile. Si dirà: viene proibito un impossibile comunque desiderato, ritenuto attingibile. Ma che cosa viene desiderato nell’ingannevole desiderio del non-essere? Dunque, il vero problema rimane quello di comprendere quale sia la via del non-essere – e non solo dal punto di vista di Parmenide!

Quali sono i modi del non-essere? L’ostacolo maggiore per questa indagine non sarà forse rappresentato da un superamento illusorio del divieto parmenideo, da quella che potrebbe rivelarsi soltanto una riformulazione, più articolata e flessibile, ma la cui limitata flessibilità è al servizio della rigidità? Un parricidio mai realmente avvenuto sarebbe dunque servito a nascondere la direzione presa dalla “filosofia”, con Platone e Aristotele: un tragitto circolare che si allontana dal nucleo della rigidità ontologica, nella versione parmenidea, per farvi costantemente, inesorabilmente ritorno. La “filosofia” sarebbe questo percorso circolare, con tutte le sue articolazioni, sempre perfezionate e perfezionabili. Ma così i territori del non-essere sono stati soltanto sfiorati. Considerando la solidarietà tra ontologia e logica, ci si può ancora meravigliare del fatto che la logica sia stata sempre pensata nell’orizzonte della rigidità?

Ciò che rende difficile esplorare la dimensione del non-essere non è l’esplicito della proibizione – una strana proibizione, come si è detto, in quanto mira a distogliere dall’impossibile -, bensì il suo implicito. Che cosa viene celato dalle formule tautologiche “ciò che è non è possibile che non sia”, “ciò che non è è necessario che non sia”? La polisemia del “non”? Senza dubbio è così. Ed è a partire da questa convinzione che è stato condotto l’esercizio aletico del Sofista.

 

4. Il dialogo si presenta come la ricerca di una definizione e come una partita di caccia – due operazioni che vengono quasi subito assimilate. Si dà il caso però che la metaforizzazione contribuisca a creare incertezze negli automatismi delle operazioni definitorie, condotte con il metodo della diairesis: l’arte delle distinzioni non è riducibile a una tecnica, a una procedura i cui successi appaiono garantiti solo in relazione a un certo tipo di enti. Bisognerà considerare con attenzione i legami tra la diairesis e l’ontologia.

Ci sono oggetti, o individui, più facili da afferrare e da catturare, e in rapporto ai quali conviene esercitarsi, al fine di progredire nella padronanza di un metodo. Perciò il primo esercizio diairetico viene indirizzato al pescatore con la lenza, e non a un essere mutevole e sfuggente come il sofista, una fiera multiforme che “non si può afferrare con una sola mano” (226 a ). Ma qual è la vera differenza tra queste due figure? Nel linguaggio di Heidegger, il sofista non è un ente “proprietario”, cioè un individuo definibile mediante proprietà (Eigenschaften), bensì un ente il cui modo d’essere consiste nel rapporto non soltanto con enti intramondani (come nel caso del pescatore con la lenza), ma con il vero e il falso, e con altri enti, contraddistinti dal suo stesso modo d’essere. E ancora – ma a questo punto dell’indagine si è costretti a formulazioni ermetiche -, l’attività del sofista è in rapporto con il non-essere. Così le somiglianze con il pescatore iniziano a perdere importanza, pur non dissolvendosi del tutto: entrambi cacciatori (anche se destinati a diventare prede, per gli interlocutori di questo dialogo), soltanto uno di essi si dedica alla caccia di animali domestici. Una caccia all’uomo, condotta con i mezzi della persuasione e distinta dalla pirateria, dalla riduzione in schiavitù, ecc.: quest’attività è definibile come un’arte, e paragonabile all’arte amatoria.

I tentativi di definizione si susseguono, lasciando emergere i tratti dell’agonistica e la maestria nel contraddire. Senonché questa abilità vorrebbe estendere la propria efficacia in qualunque campo, al di là delle competenze specifiche che ciascuno di essi richiede. Così la tecnica confutatoria del sofista rivela la propria inconsistenza: lungi dal poter sradicare l’errore, essa prolifera nell’apparenza e nell’illusione. Il sofista è un illusionista e un mago (gòes - thaumatopoiòs 235 a – b).

A questo punto il dialogo abbandona l’esercizio della diairesis, e si volge all’oggetto dell’arte sofistica: l’apparenza, il falso, e il non-essere. Come è possibile che qualcosa che “non è” assuma le sembianze dell’essere? E in quanto le assume, dobbiamo ammettere che in qualche modo il non-essere sia? Entriamo così nel vivo delle questioni ontologiche.

Possiamo osare anche solo pronunciare la locuzione “non-essere”? Non ci troveremo forse, osserva lo Straniero, impigliati in difficoltà insormontabili? In ogni caso, a questo punto occorre diventare pienamente consapevoli di quale sia la posta in gioco, e di quanto audace sia la ricerca: non si potrà eludere il confronto con il divieto di Parmenide. D’altro lato, questo divieto non può pretendere di sottrarsi a difficoltà inerenti alla sua stessa formulazione: se il non-essere è ineffabile, come può sorgere nel linguaggio il divieto di parlarne, e anche solo di nominarlo? Nella proibizione si dice più di quanto si potrebbe dire.

Dunque, la tenebrosità del non-essere non può sfuggire al discorso articolato: questa sembra un’acquisizione decisiva. E il Sofista, il portatore del non-essere, non potrà nascondersi in “ciò che non è” come in un anfratto impenetrabile.

“Avanti, opera nostra è non lasciar più sfuggire la fiera. Già quasi la teniamo in una trappola che la stringe d’ogni parte, in una di quelle reti che a questo scopo apparecchiamo i discorsi: essa non vi sfuggirà più”

“Quale rete?” (235 a - b)

 

La preda non potrà sfuggire alla rete del logos; questa fiducia è condivisibile? Sì, se l’oggetto della ricerca e della caccia è il sofista; ma la rete con cui il portatore dell’apparenza verrà catturato, addomesticato, sarà sufficiente per afferrare tutte le possibilità del non-essere? Tutti i modi?

Ricominciamo. La locuzione “non-essere” è priva di qualsiasi valore referenziale: se così non fosse, si riferirebbe al nulla come a “qualcosa che non c’è”. Atteggiamento insensato. Ciò non esclude che la locuzione possa assumere un significato relazionale: è questa l’ipotesi che si affaccia attraverso il termine sumploké: l’intreccio tra essere e non essere deve risultare in qualche modo possibile.

E poiché l’indagine su “ciò che è” non sembra meno difficile di quella su “ciò che non è”, potrebbe risultare utile chiedersi che cosa i filosofi precedenti intendevano con “ente” e “essere” (tò on, 243 d 3). Lo Straniero e Teeteto prendono in esame quattro concezioni, che si rivelano insostenibili, principalmente per lo stesso motivo: sono portatrici di un’ontologia rigida, da cui deriva inesorabilmente l’autocontraddittorietà. In particolare, per quanto riguarda la concezione di Parmenide, il tentativo di affermare una suprema compattezza dell’essere, tale da escludere persino la distanza tra il nome e la cosa, e ogni partizione mereologica, viene smentito dal fatto stesso di usare il linguaggio, che è un “distanziatore”, sia quando denomina sia quando articola un intero nelle sue parti.

Arriviamo così alla zona cruciale per questa lettura del Sofista: nella mia prospettiva, la gigantomachia perì tes ousias non si svolge soltanto là dove i figli della terra affrontano gli amici delle idee: a meno di non intendere lo scontro sull’essere e il divenire, sulla quiete e sul movimento, in quella dimensione logica che dovremo far emergere nel suo vero pluralismo. Ripartiamo da quello che è ormai un progresso irreversibile: l’intreccio tra essere e non-essere, e dunque la comunanza (koinonia) tra i generi più alti, le possibili connessioni o combinazioni, o mescolanze. Si presentano tre ipotesi:

a. niente si mescola con niente

b. qualsiasi cosa si mescola con qualsiasi altra cosa

c. alcune mescolanze sono legittime, altre no (251 d; cfr. anche 252 e).

Il problema risulta più facilmente accessibile se viene riportato sul terreno della predicazione empirica, e osservato con il filtro della grammatica. L’azione selettiva delle regole grammaticali rispetto a tutte le possibilità di combinazione tra lettere (o suoni) trova il suo corrispettivo nell’esercizio della predicazione: (a) alcune predicazioni sono tautologiche e sterili (“un uomo è un uomo”); (b) alcune combinazioni si autodistruggono in quanto contraddittorie (“la quiete è il movimento”); (c) alcune combinazione sono legittime in quanto dotate di senso, e suscettibili di venir giudicate vere o false (“Teeteto è seduto”).

Dopo una rapida considerazione, le prime due ipotesi vengono scartate: “Allora ci resta solo la terza via” (252 d)

 

 

5. Ovviamente è così, si potrebbe dire; le altre ipotesi sono impraticabili, e chi si dichiara a favore dell’una o dell’altra potrà farlo solo a condizione di attenuare la propria incoerenza, o di ignorarla. Ma in che senso la terza via sarebbe obbligata? Forse la costrizione si limita a un’indicazione ancora da precisare. E se ci fosse più di un modo per sperimentare la terza ipotesi? Dunque il platonismo sarebbe uno stile di pensiero, un modo di interpretare la possibilità che rimane nel momento in cui le altre possibilità devono venire abbandonate?

La possibilità che rimane – considerando l’inevitabilità di escludere le altre – è quella di assegnare al “non” un nuovo significato: la particella negativa non indicherà necessariamente l’opposto (enantion), bensì il diverso (heteron). Rileggiamo il passo in cui viene affermato questa novità:

“e dunque quando si dirà che negazione significa opposizione, noi non concederemo questo, ma soltanto invece ammetteremo che qualche cosa d’altro indicano le particelle negative, come e ou, preposte ai nomi che le seguono, o piuttosto poste davanti alle cose alle quali sono applicati i nomi pronunciati dopo la negazione” (257 b – c).

 

Senza dubbio, qui viene realizzato un progresso di enorme importanza: un’ontologia esasperatamente rigida viene liberata dalle proprie catene – o almeno da quelle che ne ostacolavano quasi ogni movimento. D’ora in poi, appariranno addirittura ovvie le differenze tra il nome e la cosa, tra il soggetto e il predicato, tra un predicato e altri predicati. E il “non” potrà svincolarsi dalla dimensione più concreta dell’esperienza, potrà negare senza sostituire. Si pensi al “non” delle classi complementari: un gruppo di oggetti identici o affini (A) viene affiancato da una classe in cui sono compresi tutti gli oggetti che non appartengono a quel gruppo determinato. La classe complementare (A’) non ospita soltanto oggetti omogenei a quelli compresi nel gruppo di partenza, bensì ogni tipo di oggetti in quanto “diversi-da”.7 Così la negazione non si limita a contrapporre a una realtà positiva un’altra realtà positiva, a un’affermazione un’altra affermazione: in tal caso, si potrebbe dire, la negazione non sarebbe una vera negazione. 8

E la nostra esperienza risulterebbe impoverita. Senza il “non” nel suo funzionamento astratto, resteremmo vincolati alla sfera delle percezioni e delle rappresentazioni concrete. A questo proposito, vale la pena di riflettere su una tesi di Wittgenstein:

“Si può negare un’immagine? No. E in ciò risiede la distinzione tra immagine e proposizione. L’immagine può servire da proposizione. Ma allora all’immagine viene ad aggiungersi qualcosa che le fa dire qualcosa. In breve, io posso negare solo che l’immagine sia giusta, ma l’immagine stessa non la posso negare”.9

 

Ad esempio, dovrei telefonare a un’amica, Stefania: sono le 16 di lunedì, e mi ricordo che sta facendo lezione. Inaspettatamente, è lei a chiamarmi qualche minuto dopo, e a informarmi che quel giorno ha dovuto sospendere la lezione, a causa di un leggero malessere. Dunque la mia rappresentazione mentale, alquanto vaga, di Stefania in un’aula dell’università mentre sta parlando a un gruppo di studenti, si è rivelata falsa. Ma con quale immagine posso sostituirla? Con quella, ad esempio, della mia amica che quel giorno (come mi ha appena detto) è rimasta a casa: e non con l’immagine di Stefania che non ha tenuto la lezione. Come dice Wittgenstein, non posso negare un’immagine, non posso formarmi l’immagine di qualcosa che non c’è o non accade. La negazione riguarderà la formulazione linguistica, per così dire la controfigura linguistica, di quell’immagine.

Dunque, per negare abbiamo bisogno del linguaggio: la negazione è un’operazione specificamente linguistica. E viceversa: il linguaggio non potrebbe funzionare senza la negazione, senza essere “intessuto dal non-essere” – dal non-essere come heteron, come diverso. La distinzione tra i due significati del “non”, il non-essere in senso assoluto (medenòs on) e il non-essere come alterità pura (heteron) ci permette di riappropriarci dell’intero funzionamento del linguaggio. Riferito ad esso, il “non” dell’heteron è l’insieme delle operazioni articolatorie, grazie alle quali il pensiero si sviluppa nella sua ricchezza.

“La lingua è il regno delle articolazioni”, ha detto Saussure. L’essere è il regno delle articolazioni – che nessun divieto ci impedisce più di cogliere.

 

6. Il “non” come heteron: sarebbe dunque questa la novità, o la “svolta”, del dialogo tra lo Straniero e Teeteto. Ne abbiamo rimarcato l’importanza: occorre enfatizzarla ulteriormente? Oppure è un dubbio diverso che merita di venir considerato? Riprendiamo in esame le funzioni del “non”, da Parmenide a Platone, e proviamo a interrogarci sulle resistenze che continuano a manifestarsi nei confronti della negatività da parte della “filosofia”.

Ciò che viene enunciato nel Poema di Parmenide è ben più di una resistenza: è una volontà di espulsione, non priva di un tratto paradossale: il “non”, che tra le sue funzioni può assumere quella di espulsore, viene a sua volta espulso, abolito. Accompagnato ai confini dell’essere, destinato a un esilio più severo di quello che toccherà al poeta tragico nella Repubblica: collocato di là di confini oltre i quali non vi è nulla di esistente, di pensabile, o di effabile. La peculiarità di questi confini è che non possono venire varcati per motivi logici, e non etici: non si può oltrepassarli, perché non hanno un oltre. Perciò il non-essere non è soltanto escluso dalla sfera dell’essere: per usare un termine lacaniano, è stato forcluso, abolito. Quanto alle difficoltà, già segnalate, relative all’insostenibile compattezza dell’essere, è opportuno riprenderle, ma in una prospettiva diversa da quella tradizionale.

Che cosa accade nel Sofista? Il “non” viene richiamato dalle tenebre del non-esistente e del non-logos. Per la verità, esso non era stato veramente abolito, in quanto aveva continuato a manifestarsi negli effetti dell’abolizione: per riprendere ancora una volta Lacan, ciò che viene forcluso nel registro del Simbolico torna a irrompere negli altri registri. E il non-essere, vanamente espulso da Parmenide, percorreva gli spazi della polis con le sembianze multiformi e inafferrabili del sofista. Nel dialogo dedicato a questo personaggio, il “non” viene dunque riammesso nei territori dell’essere. E’ come se Platone si fosse reso conto che è impossibile affrontare l’ingovernabilità del “non” senza includerlo parzialmente, senza instaurare un’alleanza con il possibile “buon uso” della negazione – a questo potrà servire la diairesis, intesa in un’accezione meno semplice di quella sperimentata nella definizione del pescatore con la lenza.

Riassorbito all’interno del logos, nella sumploké di essere e non-essere, il “non” svolge una funzione articolatoria e relazionale: rende possibili le connessioni tra soggetto e predicato, tra nomi e verbi, getta un po’ di ridicolo, quanto basta, nelle tautologie (l’uomo è uomo), e seleziona le possibili mescolanze, bloccando le articolazioni confusive. Prende congedo da antiche rigidità, e impone vincoli grammaticali alla mobilità sofistica. La preda è stata catturata – e il padre Parmenide? Il gesto di violenza dichiarato inevitabile è stato davvero compiuto? Il passaggio al non-essere come heteron può venir considerato un parricidio?

 

7. Con una formulazione senza dubbio sconcertante, almeno nella sua immediatezza, diremo che il parricidio – anche il parricidio - è una questione di stile. Nessuna novità o scoperta, nessuna ribellione potrà venir considerata una discontinuità radicale a meno che non superi i confini dichiarati definitivi, non oltrepassabili, dallo stile di pensiero in cui essa emerge. Nessun cambio di paradigma, come viene comunemente inteso, ha le proporzioni di un cambiamento di stile. Nel suo corso del 1924, Heidegger aveva osservato, sia pure in maniera tangenziale, che l’ontologia di Platone è ancora essenzialmente parmenidea.10 Ma dobbiamo essere più precisi: quella di Platone è un’ontologia separativa.

Più flessibile rispetto a quella di Parmenide, ma non veramente flessibile - soltanto meno rigida. Che cosa significa però flessibilità? E’ possibile conferire a questo termine un significato non vago, non metaforico (nell’accezione deteriore in cui si parla di metafora)? Lo verificheremo subito.

Se c’è una particella grammaticale, suscettibile di venire esaminata nel suo significato logico, e grazie alla quale è possibile introdurre la teoria degli stili di pensiero, ebbene, quella particella è il “non”. Uno stile di pensiero separativo, o disgiuntivo, è riconoscibile in base agli usi soltanto disgiuntivi del “non”. Perciò, dopo aver ascoltato il dialogo tra lo Straniero e Teeteto, e dopo aver accettato la distinzione tra il “non” come negazione assoluta e il “non” come diverso (heteron), ci sentiremo pienamente in diritto di affermare, nella prospettiva stilistica, che in entrambi i casi il “non” è un disgiuntore. Funziona disgiuntivamente,

Non più, come in Parmenide, soltanto nel primo significato e come un fattore di espulsione che, esaurita la sua funzione, abolisce se stesso. Adesso è diventato un operatore agile, che procede a molte distinzioni nella sfera dell’essere, così come in quella del logos: le due dimensioni, lo si è detto più volte, sono collegate: soltanto il logos ci offre un accesso a “ciò che è”.

E poiché il logos è possibilità di articolazione e di mescolanza siamo indotti a cercare, nella dimensione dell’essere, non la differenza più rigidamente dicotomica, tautologica, iperbolica e olistica – non è forse così che ci appare la sentenza di Parmenide “ciò che è è e non potrebbe non essere, ecc. ? - bensì identità e differenze “minori” come si incontrano nella vita quotidiana. Il molteplice è tornato all’esistenza.

Ciò non significa che l’indagine ontologica debba retrocedere a perlustrazione ontica (catalogo degli enti a partire dalle proprietà più condivise). Al contrario. Non si rinuncerà alla ricerca di carattere formali universali dell’essere, che in questo dialogo vengono chiamati ghene. L’ontologia si prefigge di ascendere fino ai meghista ghene, ai generi supremi. Lo straniero ne individua cinque: l’essere, il movimento, la quiete, l’identità, la differenza. Non possiamo seguire tutti i passaggi del dialogo; ci basta concentrare l’attenzione sul punto decisivo. Che l’essere sia dunamis, dunamis koinonias, che ai generi sia dato “partecipare” l’uno dell’altro, ci riporta alla triplice possibilità già discussa in precedenza, e sembra ridare fiato a sterili giochi verbali: ad esempio, l’identico differisce dal diverso, dunque l’identico è il diverso. Osserva Heidegger: bisogna spiegare come si possa attribuire identità agli enti senza farli diventare identici: bisogna “chiarificare il senso in cui tauton e eteron vengono attribuiti a kinesis e stasis, e anche all’on.”11

Perché possiamo dire senza contraddizione che un ente è identico e nello stesso tempo diverso? Evidentemente, ciò che intendiamo è “identico a se stesso e diverso da altri enti”. Dunque, cadremmo in contraddizione se affermassimo che un ente differisce da stesso? Apparentemente sì – ma non necessariamente.

Bisogna procedere con cautela, perché la soluzione che Platone ci presenta come l’unica possibile – non ci resterebbe che questa via -, gode di una tale superiorità rispetto alle altre due (l’una sterile, l’altra contraddittoria), da suscitare quasi inevitabilmente un’adesione completa. Essa sembra l’unica via che si dischiude a chi vuole uscire dalle aporie della rigidità ontologica e della sfrenata, autoparalizzantesi mobilità;12 ma il suo carattere aletico (o di apertura) nasconde la sua funzione velante, o di chiusura nei confronti di un’altra possibilità logica e ontologica.

Ogni ente è definibile mediante proprietà e mediante relazioni. La differenza è la relazione che lo connette all’alterità degli altri enti, l’identità è la relazione che lo separa da essi e lo “riporta” presso di sé, e garantisce la solidità dei suoi confini. Se questa caratterizzazione suona un po’ troppo metaforica (potrei concederlo, con un po’ di reticenza), proviamo con una formulazione più sobria: perché la relazione tra un ente e gli altri enti potrebbe comprometterne l’identità? Stiamo ammettendo ancora una volta, provvisoriamente, che tutto possa mescolarsi con tutto, che ogni ente possa sconfinare in qualsiasi altro. Perché abbiamo recuperato un’ipotesi che era già stata abbandonata? Ciò dipende, o sembra dipendere, dal fatto che persino l’identità è una relazione: in effetti, “anche nell’identità è presente un pros ti”, un relativamente a”.13 Per un attimo, vediamo aprirsi uno scenario di relazionalità sfrenata, assoluta, in cui l’identità (proprietaria) di ogni ente si dissolve nelle relazioni. Se ciò non accade è perché – perlomeno, questa è la risposta che troviamo in Platone e generalmente nella “filosofia” - l’identità è la relazione che un ente ha soltanto con se stesso. Heidegger nel suo commento lo ribadisce: “anche nell’identità è presente un pros ti, ma in questo caso il “relativamente a” rinvia unicamente a se stesso”.14

Non resta che un’ultima precisazione – che però manca in Platone e nella tradizione filosofica dominante: l’identità, così intesa, è una relazione separativa, o disgiuntiva. E se nel dialogo tra lo Straniero e Teeteto, così come nella “filosofia”, questa precisazione manca, se questo aggettivo differenziante (e non diairetico) non è stato, e non viene, inserito, è perché svelerebbe il presupposto inconfessato della “filosofia”: la negazione del pluralismo conflittuale tra modi di pensare.

“Non potrai pensare, se non separerai gli elementi dell’essere (e del logos), e se non li congiungerai, ma soltanto con relazioni separative”: questa è l’antica e veneranda proibizione, riformulata come stile di pensiero. Il cosiddetto “parricidio” consiste in questa formulazione.

Dunque, per riprendere ancora una volta quanto è stato detto: è vero che ogni ente esiste e può venir considerato in relazione ad altri enti; ma se l’identità viene intesa in senso disgiuntivo (come la relazione che l’ente ha solo con se stesso), e la differenza viene intesa a sua volta in senso disgiuntivo (come differenza tra due identità disgiuntive), allora ogni discorso si articola e si muove in uno spazio grammaticalizzato: non rigidamente parmenideo, ma comunque vincolato, selettivo. Ciò che rimane velato è che le relazioni si danno in diversi modi, o stili: esistono anche relazioni congiuntive. Ma le relazioni congiuntive sono state già espulse oltre i confini dell’essere (moderatamente mescolato con il non-essere) perché produrrebbero soltanto mescolanze confusive, contraddittorie. Tuttavia: è davvero impossibile pensare un altro modo di identità? Un’identità che non è la relazione di un ente con se stesso?

 

 

8. Ricominciamo dalla koinonia, e dall’essere come dunamis koinonias. Ci siamo accorti di non aver esplorato sufficientemente i caratteri ontologici formali, e tuttavia è in rapporto ad essi che si combatte e si decide la ghigantomachia. Lo straniero e Teeteto non sono saliti abbastanza in alto – ma una maggiore “altezza” non significa necessariamente una maggiore universalità: è la lezione di Essere e tempo. Può darsi che per salire sino al vertice sia necessario scendere, in un senso che preciseremo subito. In ogni caso, il platonismo non sale, o non scende abbastanza perché non raggiunge la dimensione modale della possibilità – e comunque non vi penetra abbastanza, dichiara conclusa l’indagine senza aver condotto un’esplorazione adeguata. D’altronde, l’obiettivo del dialogo che stiamo commentando è la cattura del sofista, e non l’indagine di tutti i modi del non-essere. Se fosse stato questo l’obiettivo – ed è tale per noi -, l’indagine sarebbe proseguita sino al punto in cui l’arte delle distinzioni deve distinguere tra due modi della possibilità, l’indiviso e il diviso.

Qui si presentano due vie – quelle indicate nel Poema di Parmenide? Per un attimo, non riusciamo a sfuggire alla sensazione perturbante di avere girato in circolo. Ebbene, le due vie sono effettivamente quelle indicate da Parmenide in quanto corrispondono all’essere e al non-essere, ma non lo sono più, perché il problema ontologico è stato profondamente rielaborato. Non guardiamo più al non-essere nella prospettiva, nello stile di pensiero di Parmenide e dei parmenidei. Non consideriamo più il “non” unicamente come un disgiuntore.

E non soltanto perché l’essere si è intrecciato al non-essere in una sumploké che riscatta il molteplice: quella di Platone è una riforma, non un parricidio. Abbiamo assimilato i progressi nella concezione del “non”, e tuttavia esso rimane un operatore disgiuntivo. Non intendiamo negarne la legittimità, purché se ne ammetta la parzialità. Il “non” è un disgiuntore anche sul piano etico, e svolge una funzione sociale irrinunciabile. Non si limita a mantenere gli enti nei loro confini, ma è in grado di porre una barriera tra le spinte imperiose dell’Es e i poteri di esecuzione dell’Io. Consente di inibire: sul “non” disgiuntivo riposano gli imperativi della legge.

Tutto ciò non impedisce al “non” di degenerare nella violenza che vorrebbe sospendere: nei termini di Lacan, la sumploké tra l’Immaginario, il Simbolico e il Reale può sciogliersi nella reciproca separazione ma anche fomentare irruzioni: è possibile che l’identità rigida della Legge diventi spugnosa, che vengano abolite le relazioni di similarità tra i simili, che l’odio spinga l’alterità nell’informe del reale, ecc. Evidentemente, in questa sede mi limito ad accennare a problemi così complessi.

Non ci sono ricette per una buona koinonia. In ogni caso, prima di iniziare a discuterne, bisogna interrogarsi su come la koinonia può essere articolata: quale tipo di distinzioni è disposta ad ospitare? Articolazioni diairetiche, relazioni separative? Soltanto le operazioni del “non” disgiuntivo?

Ma in che senso il “non” potrebbe congiungere? Certamente non potrà riuscirvi nascondendosi nell’apparenza esteriore di un enunciato (lo si è accennato nel primo paragrafo); “Dio è immortale” equivale a “Dio non è mortale”; in questo esempio, e in molti altri dello stesso tipo, egualmente triviali, il “non” svolge una funzione separativa.

Fino a quando l’identità viene pensata come la relazione che un ente ha unicamente con se stesso, il “non” rimane un disgiuntore. Ma se l’essere è dunamis, e il logos è la via d’accesso più eminente all’essere, allora il pensiero filosofico non potrà sottrarsi a un’indagine sulle relazioni più ampia di quella condotta nel Sofista: sempre che sia animato da quel desiderio di verità, di cui dichiara di essere una delle più elevate incarnazioni, e sempre che l’obiettivo rimanga quello dichiarato in questo dialogo, pervenire alla scienza degli uomini liberi 253 c 7). Che cosa significa qui libertà? Lo svincolarsi da qualunque finalità immediata e visibile? Senza dubbio, questa è una prima caratterizzazione della ricerca filosofica: dagli enti all’essere, dalle proprietà empiriche agli universali ontologici formali, i generi supremi.

Ma non basta: come si è detto, più in alto degli universali sta la possibilità del conflitto: nell’essere e nel logos. La dunamis è modo, va pensata come modo. Più in alto dell’identità stanno i modi di identità.

Che cos’è il “non” per gli uomini liberi? Semplicemente un disgiuntore? Oppure la possibilità di oltrepassare se stessi, di scindersi, di determinarsi in relazione a un’altra identità? La possibilità maggiore del “non” è la non-coincidenza di un individuo con se stesso – la possibilità (o la libertà) di interpretare il “non” come un congiuntore scissionale.15

 

1 Platone, Il sofista, in Opere complete, vol. II (Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico), Laterza, Roma-Bari 1975. La traduzione è di Attilio Zadro

 

2 La distinzione tra giudizi affermativi e negativi può essere superficiale e irrilevante per la logica. Cfr. G. Frege, La negazione (1918-1919), in Ricerche logiche, trad. it. Guerini e associati, 1988, pp. 85-86.

3 Per i problemi qui discussi mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

4 Beninteso, nell’interpretazione standard.

5 Parmenide, Poema sulla natura, fr. 2 (a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1998).

6 I. Kant, Critica della ragion pura (1781-87); trad. it. Laterza, Roma-Bari, p. 224.

7 J. Piaget, Jean e B. Inhelder, La genesi delle strutture logiche elementari. Classificazione e seriazione (1959).Trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1977.

8 E’ la posizione di Paolo Virno, Saggio sulla negazione, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

9 L. Wittgenstein, appunto del 26 novembre 1914 (in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. Einaudi 1980, p. 123).

10 M. Heidegger, “Il Sofista” di Platone (1924-25), trad. it. Adelphi, p. 577.

11 M. Heidegger, “Il Sofista” di Platone , cit., p. 549.

12 Si tratta di due forme della rigidità, anche le la seconda forma sembra sottrarsi totalmente alla prima.

13 M. Heidegger, op. cit, p. 552.

14 Ibidem.

15 Un solo esempio per quanto riguarda la differenza tra relazioni disgiuntive e congiuntive. In un passo di Cime tempestose, invitata a chiarire i suoi sentimenti, Catherine li esprime fondamentalmente in questi due enunciati: “rispetto a Edgar, io sono io” – “rispetto a Heathcliff, io sono Heathcliff”. In questo secondo caso, il verbo essere contiene una negazione: un “non” che congiunge e, per congiungere, necessariamente scinde.

Dunque Frege aveva ragione nel diffidare della distinzione tra giudizi affermativi e negativi: ma aveva torto nel credere che, affermativi o negativi, i giudizi appartengono alla logica disgiuntiva.