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Un paio di scarpe – e nient’altro

Per una lettura non falsificante del saggio di Heidegger sull’opera d’arte

Di prossima pubblicazione su “Riga” (2013)

1. “Un paio scarpe da contadino e null’altro. E tuttavia …”. È così che la riflessione di Heidegger relativa al quadro di Van Gogh si avvia al punto culminante, cioè al conflitto tra il Mondo e la Terra: in questo conflitto sta l’”essenza”, o meglio (per evitare equivoci) lo statuto ontologico dell’opera d’arte, a cui è dedicato il saggio del 1936.1 Un saggio che forse non è mai stato compreso, se è vero che Heidegger dovrebbe venire interpretato come un pensatore modale, e non come il pensatore della differenza ontologica;2 e che è stato sovente frainteso, fino a una quasi completa mistificazione. Della più grave di tali mistificazioni è responsabile Jacques Derrida, nell’ultima parte di La verità in pittura (1978). Dopo aver scritto nel 1975 un vero e proprio sottisier anti-lacaniano (Il fattore della verità), Derrida ripete nei confronti di Heidegger un’operazione ermeneutica di inaccettabile faziosità e miopia. Cercherò di mostrarlo, sia pure in maniera molto schematica; non senza evidenziare il “metodo”, la coerenza, che ispira e guida il sottisier derridiano.

 

2. Bisogna anzitutto familiarizzarsi con il saggio sull’Origine dell’opera d’arte, e giungere a una comprensione corretta delle sue tesi principali. Provo a enunciarle:

a) l’opera d’arte non è una cosa, e neanche un mezzo (uno strumento), benché presenti similarità empiriche con entrambi. Non è la specie di un genere, e non può venire descritta con categorie “proprietarie”. Le mele di Cézanne non sono una specie di mele, e le scarpe di Van Gogh non sono una specie o un tipo di scarpe. L’opera d’arte non è un ente intramondano;

b) diversamente dagli enti che chiamiamo “cosa” e “mezzo”, lo statuto ontologico dell’opera d’arte è dinamico, e si manifesta nella lotta (nel conflitto);

c) la lotta è una relazione tra gli opposti, dunque un’estetica conflittuale – come quella di Nietzsche e di Heidegger, di Freud e di Lacan, di Benjamin, di Bachtin, ecc. – esige che venga elaborata una teoria delle relazioni oppositive. Bisognerà distinguere anzitutto le relazioni disgiuntive (i contraddittori e i contrari) e le relazioni congiuntive: i correlativi, cioè quegli opposti che già in Aristotele vengono definiti attraverso la presupposizione reciproca.

d) soltanto un esame della relazione agonistica permette di comprendere i termini, di cui essa instaura l’esistenza, e che al di fuori di essa non potrebbero esistere. Sembra perciò opportuno considerare i termini Mondo e Terra anzitutto come simboli vuoti (o puri significanti): in ogni caso – e solo un lettore sprovveduto potrebbe ignorarlo -, questi termini si sottraggono al loro significato empirico (ontico) quotidiano;

e) nel conflitto enunciato da Heidegger gli opposti si oppongono e contemporaneamente si includono. All’interno del lessico heideggeriano, il termine che meglio indica questa dipendenza reciproca e paradossale è Zusammengehörigkeit (co-appartenenza). Chi non comprende la logica della co-appartenenza non può accedere, se non illusoriamente, a nessuno dei testi di Heidegger;

f) tuttavia Heidegger non ha scelto la via della logica, bensì quella dell’ontologia, per formulare la sua concezione. Che le straordinarie innovazioni della sua filosofia non vengano mai espresse in una prospettiva direttamente logica, esplicitamente logica, è un fatto di cui bisogna tener conto. Come i problemi esistenziali, così i concetti della logica vengono ontologizzati ed elaborati in una prospettiva, per così dire, straniata. Risulta perciò opportuno un esercizio anche lessicale di trasposizione e deciframento;

g) il conflitto tra il Mondo e la Terra potrebbe venire riformulato mediante la relazione tra articolazione e densità. Tentiamo una verifica minima: il Mondo, dice Heidegger, è il costantemente inoggettivo, è ciò in cui si aprono le vie della nascita e della morte, della grazia e della maledizione; invece la Terra è l’emergente-custodente, l’autochiudentesi per essenza (OA, 30-31). Come è evidente, Heidegger fa ricorso a un lessico non teoretico, come se ritenesse possibile la nascita (o il rafforzamento decisivo) di un’estetica conflittuale, e al tempo stesso volesse sottolineare la mancanza di un linguaggio. E comunque l’inopportunità di legarsi a categorie già esistenti (materia/forma, informe/forma, dionisiaco/apollineo, ecc.).

Tuttavia, l’opposizione semantica – affidata a forme verbali “in movimento”, come i participi presenti, e a verbi che de-cosalizzano i sostantivi (Welt weltet) – è estremamente chiara. La Terra ha i tratti della chiusura, dell’oscurità, della reticenza, della compattezza: è la densità portata all’estremo. Ciò non implica che possa o voglia sottrarsi a ogni tentativo di articolazione: né potrebbe tentarlo, in quanto congiunta essenzialmente con il suo antagonista, il Mondo, che è “volontà” di articolazione, cioè apertura, esposizione, illuminazione, messa in forma, organizzazione. Provo a condurre il lettore su un terreno più familiare, e certamente meno ermetico. Ciò che per Heidegger è la Terra, Ezra Pound lo avrebbe formulato in questo modo: “La grande letteratura è semplicemente linguaggio saturo di significato al massimo grado”. Ciò che per Heidegger è il Mondo, Šklovskij lo indicava così: “L’opera è interamente costruita. Tutta la sua materia è organizzata”.3

Trasponendo il conflitto tra il Mondo e la Terra in quello tra articolazione e densità si rinuncia a cogliere tutta la ricchezza del saggio di Heidegger? Quasi certamente sì, ma si acquisiscono vantaggi notevoli: ci si svincola da una ripetizione scolastica, si evita di riproporre una suggestione destinata a svanire nel tempo, e si intraprende la via dell’analisi concettuale.

h) la lotta tra Terra e Mondo non è una rissa o una zuffa bensì un nobile agonismo. Questa lotta riguarda la genesi dell’opera d’arte, la sua Ur-sprung, il balzare fuori da un contesto storico che non la prevedeva e non sarà più in grado di spiegarla. L’arte è la negazione permanente di ogni contesto. I contestualisti – dalla vecchia critica letteraria fino ai cultural studies – considerano l’opera come una grandezza statica, la cui genesi potrebbe venir chiarita dalle condizioni di produzione (l’autore, i rapporti familiari e sociali, la sessualità, i pregiudizi razziali, l’ideologia, ecc.): ma per la teoria della letteratura e per l’estetica del Novecento, nei suoi maggiori rappresentanti, l’opera è una grandezza dinamica. È la combinazione di un artefatto e di un oggetto virtuale (Mukařovský). Vive nel tempo dell’interpretazione, nel “tempo grande “ (Bachtin).

 

3. L’anti-contestualismo di Heidegger sembra innegabile. L’estetica heideggeriana è un’estetica dell’opera – e della ricezione, perché un’opera non esiste se non viene continuamente rinnovata dai processi di interpretazione. Si dirà che l’accento, nel saggio del 1936, cade prevalentemente sull’opera; senza dubbio, ma concepire l’opera come grandezza dinamica implica necessariamente il riconoscere un ruolo attivo all’interprete: altrimenti, come sarebbe possibile il dinamismo? In che modo l’opera d’arte potrebbe trasformare la sua identità? Heidegger avrebbe condiviso l’affermazione di Conrad: “Si scrive soltanto la metà di un libro, l’altra metà è opera del lettore”.4

In questa sede non potrò affrontare se non in maniera indiretta il problema della verità – relativamente all’opera e ai processi di interpretazione. Vorrei sottolineare ancora che questo saggio, che contiene nel titolo la parola origine (Ursprung), in un’accezione ontologica, è radicalmente ostile all’origine intesa come intentio auctoris, o come contesto genetico, in qualunque senso. E lo è al punto da servirsi di una formulazione che non può evidentemente venire presa alla lettera: dopo aver descritto il quadro di Van Gogh, Heidegger dice: “È il quadro che ha parlato” (OA, 21). Al comune buon senso questo enunciato appare bizzarro o assurdo, come la più celebre affermazione “il linguaggio parla”.5 Ma, in entrambi i casi, chi è disponibile a prendere visione dei contesti legittimi, cioè dei testi nella loro integrità,6 è anche in grado di comprendere che qui si critica la concezione strumentale del linguaggio: l’idea di una esteriorità del linguaggio al soggetto, l’idea di una padronanza, come quella che si potrebbe avere nei confronti di un mezzo (o utensile) qualsiasi. Una concezione fallace ma largamente diffusa, e implicitamente condivisa dalle cosiddette “scienze del linguaggio”. La tesi di Heidegger è che non si è mai padroni del linguaggio, e neppure del significato di un’opera d’arte. Nessuno lo è, neanche il suo autore.

 

4. Se proviamo adesso a leggere, o a rileggere, il saggio che conclude La verità in pittura, per verificare se Derrida, nella sua implacabile requisitoria anti-heideggeriana, abbia tenuto conto di queste tesi, la risposta non potrà che essere la seguente: le tesi principali di Heidegger vengono completamente ignorate e tutt’al più evocate con qualche cenno. Là dove ci si attenderebbe un’onesta Auseinandersetzung incontriamo il gusto della deformazione e dell’invettiva, e strategie retoriche risibili nella loro meschinità. C’è da restare increduli, perché questo saggio è stato scritto da un filosofo importante, e contiene alcune osservazioni di grande interesse, che riprenderò tra breve. Avremo modo di constatare che le considerazioni più acute nascono da quella prospettiva che ho chiamato estetica conflittuale, dunque, in fin dei conti, sono perfettamente solidali con l’impostazione heideggeriana, di cui confermano la fecondità.

Ma, nelle sue intenzioni, il saggio di Derrida mira a una delegittimazione completa del grande avversario.7 Con quali accuse? Quelle più importanti sono poche, e sovente ripetute, in un testo nel quale la tortuosità avvolgente finisce con l’incrementare una sterile ridondanza. In base alla presentazione del pensiero di Heidegger, il lettore potrà riscontrare la totale infondatezza, anzi la falsità, di tutte le affermazioni polemiche.

A cominciare da quella su cui è imperniato l’intero impianto accusatorio: secondo Derrida, esisterebbe una corrispondenza, sia pure segreta, implicita – uno strano accordo (VP, 349) - tra il testo di Heidegger e un articolo di Meyer Schapiro, storico dell’arte. Corrispondenza significa qui una solidarietà di carattere teorico, una complementarità di prospettive, egualmente erronee. Questa tesi viene ribadita non si sa quante volte – come se Derrida temesse di non essere compreso o creduto dai suoi lettori: un timore legittimo, perché la simmetria o solidarietà tra un’estetica ontologica e un’impostazione storicistica è francamente inverosimile. Ma in che consisterebbe tale corrispondenza? I due professori, come li chiama Derrida – e che Heidegger sia un professore nello stesso senso di Schapiro è un’esasperazione caricaturale del concetto di “somiglianze di famiglia” -, i due illustri professori occidentali (VP, 250) avrebbero posto al quadro di Van Gogh (ancora da individuare con esattezza) la medesima domanda: da dove vengono le scarpe?, divergendo solo nella risposta: dai campi, avrebbe detto Heidegger, dalla città, dice Schapiro. Entrambi i saggi sarebbero dunque animati da una volontà di restituzione: vorrebbero rendere l’oggetto raffigurato al loro legittimo proprietario.

Nel caso di Heidegger, il proprietario sarebbe un contadino, o forse una contadina (terribile ambiguità !). Che Heidegger abbia usato l’espressione ein Paar Bauernschuhe (un paio di scarpe da contadino) sarebbe prova sufficiente di questo desiderio di attribuzione che è anche un desiderio di appropriazione (VP, 249). In effetti, sembra che ci troviamo di fronte a un’attribuzione incauta – evidenziata se non smascherata dall’interpretazione di Schapiro, secondo cui queste scarpe apparterebbero invece al pittore. Perché Heidegger non ha avuto nessun dubbio? E noi, non dovremmo scandalizzarci di tanta imprudente sicurezza?

A meno di non tornare al testo di Heidegger, e rileggerlo con un minimo di onesta attenzione. Forse potremo replicare anche alla più sguaiata delle critiche che Derrida rivolge a questo scritto, quando accusa la descrizione del quadro di Van Gogh di essere “un momento di abbandono patetico, ridicolo e sintomatico” (VP, 251). Riprendiamo dunque questo “passo famoso” (le fameux passage):

“Nell’orificio oscuro dall’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce” (Zur Erde gehört dieses Zeug und in der Welt der Bäuerin ist es behütet )” (OA, 19).

 

Ho riportato la traduzione di Pietro Chiodi, che, in questo caso, ha scelto le lettere minuscole per “terra” e “mondo”. Nell’originale, i termini sono in corsivo: è così che Heidegger segnala al lettore l’imminente nobilitazione concettuale di due parole del lessico quotidiano, che qui appartengono ancora, prevalentemente, a tale lessico. Decidendo di usare le minuscole, il traduttore italiano ha colto con intelligenza un aspetto essenziale di questo passo: non è Heidegger che sta parlando qui.

Ma se questa non è la voce di Heidegger – se questi enunciati non hanno nell’autore della Ursprung des Kunstwerkes la loro autentica origine -, qual è il soggetto dell’enunciazione che li emana? Ebbene, un soggetto intramondano, che non è ancora approdato alla differenza tra cosa, mezzo, e opera, e che descrive il quadro di Van Gogh come potrebbe farlo l’anonimo visitatore di un museo. L’ontologia dell’opera deve ancora fare irruzione in questa percezione ontica, nella quale – è facile verificarlo – non emerge nessuno dei tratti che caratterizzano l’estetica heideggeriana. Qui il mondo e la terra non sono ancora il Mondo e la Terra: stanno per diventarlo, ma non hanno ancora oltrepassato la dimensione dell’usabilità e della fidatezza (Verlässigkeit).

Non si tratta dunque di negare il pathos agreste di questo passo, ma di indicare correttamente la sua origine. L’abbaglio di Derrida è clamoroso ma non inspiegabile: deriva dalla mancanza di una teoria dell’enunciazione, come quella di Bachtin o di Lacan (per menzionare autori che vanno al di là di una strumentazione meramente tecnica). Ma c’è almeno una seconda ragione per giudicare del tutto arbitrarie le espressioni spregiative di Derrida: l’opera d’arte per Heidegger non è un ente proprietario, in un duplice senso: non può essere descritta mediante proprietà, e non ha (non avrà mai) un proprietario (un auctor di cui bisognerebbe ricostruire l’intentio). Ciò a cui l’opera d’arte appartiene – in un senso “non proprietario” di appartenenza: dobbiamo ancora ribadirlo? – è il conflitto tra il Mondo e la Terra. Essa appartiene all’intelligenza di chi interpreta conflittualmente oggetti che non sono oggetti, e sa di dover oltrepassare i confini del tempo empirico.

 

8. Nel “passo famoso” che abbiamo riportato vi sarebbe però un altro indizio della mancanza di cautela di Heidegger – di una disinvoltura a cui l’occhio severo di Derrida conferisce la dimensione della ubris: le scarpe dipinte da Van Gogh sarebbero un paio. E gli interlocutori tra cui si svolge il dialogo derridiano lo fanno notare più volte:

“- ma come può essere sicuro che si tratti proprio di un paio di scarpe”. Che cos’è un paio?

- Io non lo so ancora. In ogni caso, Heidegger non ha nessun dubbio a questo proposito, è un paio-di-scarpe-da-contadino (ein Paar Bauernschuhe)” (VP, 249).

 

È su questo punto che Derrida offre un importante contributo di analisi, e non vi è motivo per non riconoscerlo (a meno di non voler ricambiare la sua faziosità con una faziosità, di cui, per quanto mi riguarda, non sento affatto l’esigenza). Limitiamoci perciò a dire che Heidegger è sicuro di sé, e di quanto afferma, esattamente come lo è Derrida nell’attribuire la descrizione di quel paio di scarpe alla voce, all’estetica, di Heidegger. Osservate con più attenzione, in almeno uno degli otto quadri che Van Gogh ha dedicato a quest’oggetto, le scarpe sembrano mostrare quella che chiamerò una dissonanza interna, e che Derrida descrive così:

“Il loro distacco (détachement) è evidente. Slacciate (délacées), abbandonate (délaissées), separate (détachées) dal soggetto (portatore, detentore o proprietario, cioè autore-che-firma) e separate in se stesse (détachées en elles-mêmes) ( le stringhe sono separate).

- separate l’una dall’altra, anche se formano un paio, ma con un supplemento di separazione (un supplément de détachement), nell’ipotesi che non formino un paio” (VP, 250-51).8

 

Due scarpe, l’una accanto l’altra, apparentemente un paio, collegate da un supplemento di separazione: potrebbero essere più simili di quanto non sembrino, due scarpe destre, oppure due scarpe sinistre.9 Si inizia a percepire qualcosa di inquietante, in un quadro che sembrava, a uno sguardo distratto, semplicemente mimetico. Ma come nominare l’inquietante, il perturbante, das Unheimliche, senza evocare Freud? Tra i temi che secondo Freud caratterizzano la costellazione del perturbante vi è il doppio. Dunque, qualcosa di sinistro nel quadro di Van Gogh, qualcosa di diabolico. E qui dobbiamo constatare un’altro slittamento nel discorso di Derrida (vedremo tra poco che lo slittamento sull’asse paradigmatico è il tratto più caratteristico del suo metodo): il doppio, dunque il diavolo. E poiché il diavolo non smette mai di inquietare, i due illustri professori occidentali si sarebbero rifugiati nella rassicurante quotidianità del paio: “hanno legato, incatenato, represso, l’aspetto diabolico (le diabolique), quello di una duplicità senza parità, di un doppio senza paio (un double sans paire). Le hanno allacciate per limitare uno smembramento inquietante (VP, 315)”. Ebbene, l’ipotesi che questo paio di scarpe non sia un paio è senza dubbio suggestiva, e non infondata: bisogna dunque riconoscere i meriti di Derrida. Ma perché il diavolo o il diabolico? Sarebbe lecito attendersi un riferimento non troppo affrettato al saggio di Freud del 1919; ma Derrida preferisce dare per scontato che di questo saggio esista già una buona lettura, quella di Sarah Kofman, che si intitola per l’appunto Le double e(s)t le diable.10 Una legittimazione incauta, perché la Kofman fraintende e banalizza il testo di Freud.11

Lasciamo dunque perdere le diable – e anche tutto il pathos dello spettro e dello spettrale, i fantasmi di cui Derrida avverte al presenza (“Non ricordo più chi ha detto “non vi sono fantasmi nei quadri di Van Gogh”. Invece qui c’è proprio una storia di fantasmi”, VP, 248), e dedichiamo la nostra attenzione all’analisi del quadro. Analisi che indubbiamente manca in Heidegger; si tratta di valutare però la gravità di questa omissione. Come è già stato indicato, il quadro di Van Gogh viene utilizzato da Heidegger in una fase ancora introduttiva della sua riflessione: è semplicemente un esempio, e come tale va giudicato. Non vi è alcuna pretesa di completezza, né in questo passo né nelle pagine, certamente più analitiche, dedicate al tempio greco. Dunque, una prima considerazione: o riteniamo che menzionare un’opera d’arte senza accompagnarla ogni volta da un’adeguata analisi sia sbagliato – ma allora, chi potrebbe sottrarsi a tale critica? Compreso lo stesso Derrida, evidentemente, data la tendenza di quest’autore a moltiplicare gli accenni rapidi a possibilità interpretative che non vengono poi sviluppate. Oppure rinunciamo a inutili aggressioni, e ammettiamo la legittimità di menzionare anche un’opera d’arte, e non solo oggetti della quotidianità, all’interno di una determinata strategia argomentativa, tanto più se quel discorso mira alla costruzione di un nuova teoria. Nella conferenza del 1935 – perché il famoso saggio di cui stiamo discutendo nasce da una conferenza, rielaborata a distanza di un anno prima di venire inserita in Sentieri interrotti (1950) -, non vi era lo spazio per analisi testuali. Di qui la semplice menzione di opere come l’Antigone di Sofocle (OA, 26) e il riferimento approssimativo a un quadro di Van Gogh: quale? Ciò che interessa Heidegger è affermare che il linguaggio dell’arte è una messa-in-opera della verità: non solo di esperienze esistenziali rilevanti, ma anche del più umile degli oggetti quotidiani. Nel contesto di una riflessione che mira inizialmente a chiarire le differenze tra cosa, opera, e mezzo, il punto d’arrivo è che “solo nell’opera e attraverso di essa viene alla luce l’essere-mezzo del mezzo” (OA, 21). L’accento cade sulla valenza alethica dell’arte, non su una singola opera. Il che non significa che Heidegger non ne avesse in mente una in particolare, ma che il movimento concettuale del suo discorso non esigeva in quel momento una sosta “individualizzante”. Perciò alla curiosità di Schapiro Heidegger ha probabilmente attribuito la medesima importanza che Hegel aveva riservato alla penna del signor Krug. Ciò non implica che Heidegger avesse in mente un quadro “in generale”; e a questo proposito non si può non plaudire, per una volta, Derrida:

“(Heidegger) Avrebbe concepito una specie di “quadro generale” conservando, per via d’astrazione e di sottrazione, i tratti comuni, o presunti tali, di tutti una serie? Questa ipotesi – la più grave – possiamo escluderla, basandoci sull’opera complessiva di Heidegger. È sempre stato molto critico nei confronti di questo concettualismo a cui, in questo caso, si aggiungerebbe anche un rozzo empirismo” (VP, 293).

 

Così come non si può non approvare l’attenzione che Derrida dedica alle dissonanze interne al quadro: ma che cos’è una dissonanza? Per Derrida, manifesta la différance (la differenza con la “a”, e non semplicemente con la “e”). A questo punto dovremmo aprire una riflessione sulla differenza ontologica, e su come Derrida ha cercato di riformularla in una conferenza del 1969.12 Dovremmo mettere in discussione tutta l’interpretazione di Heidegger da parte di Derrida: dovremmo concedere spazio adeguato alla differenza tra il “non” della differenza e il “non” del conflitto, e mostrare che questa seconda possibilità non è riducibile all’opposizione hegeliana (o hegelo-marxista), come dogmaticamente asserito dai filosofi francesi ostili alla dialettica negli anni ’60 del secolo scorso. Ho discusso questi problemi nei testi già menzionati alla Nota 2. Qui vorrei almeno ricordare una questione decisiva: il “non” heidegegriano va pensato a partire dai correlativi, cioè da opposti non-sintetizzabili, eternamente divisi. Dunque le dissonanze che riscontriamo nelle opere d’arte vanno intese come gli indizi del polemos che lega stili combattenti: nelle sue pratiche di analisi, un’estetica conflittuale tende a valorizzarle. Bisogna comunque essere grati a Derrida per aver richiamato l’attenzione su quegli aspetti del quadro di Van Gogh che egli presenta come il disparato (il rifiuto del simmetrico, della complementarità, la scommessa sul dispari) (VP, 352-53).

Nell’individuazione, nel censimento delle dissonanze, l’estetica della differenza e quella del conflitto trovano sicuramente un terreno comune e continue occasioni di confronto: le distanze tornano a manifestarsi quando si inizia a interrogarsi sul ruolo delle dissonanze nel dinamismo dell’opera, e sulla coerenza flessibile che ne è il motore. Perciò questo intervento, che mira se non altro a ristabilire le condizioni per una lettura corretta del saggio heideggeriano del 1936, non può sfociare in una conclusione irenica. Vorrei indicare adesso la causa principale degli sproloqui di Derrida.

 

9. Sproloquio è una parola fortemente polemica. Ne sono consapevole. Tenterò di trasformare un termine spregiativo nella descrizione di un metodo che ha suscitato per un certo periodo molte adesioni, ma di cui sono emersi sempre più chiaramente i limiti. Derrida è uno dei maggiori responsabili dell’enorme discredito che attualmente grava sulle pratiche e sul concetto stesso di interpretazione. Dunque la questione del “metodo” – o dello stile di analisi – che contraddistingue il decostruzionismo è oggi un problema impossibile da ignorare.

Il miglior punto di partenza è un articolo che Roland Barthes scrisse nel 1963 per descrivere il modo in cui lavora uno strutturalista, e soprattutto l’idea-guida della rivoluzione strutturalista: il primato dell’asse paradigmatico. In breve: un qualunque testo letterario si presenta come una sequenza lineare, cioè una concatenazione sull’asse sintagmatico; la critica tradizionale si è sempre lasciata ipnotizzare da questa linearità, e ne ha sempre accettato le mortificanti restrizioni. In primo luogo, la concezione veicolare del senso, dunque l’idea che il significato di un testo scorra in una sorta di tubatura, o, se si preferisce, come scorre l’acque nel fiume Po a Torino e non negli intricati canali di Venezia. Il gesto sovversivo degli strutturalisti consiste nel distruggere il primato del sintagmatico. Sono due, infatti, le operazioni fondamentali, mediante cui si intraprende l’analisi di un testo: il ritaglio e il coordinamento (découpage et agencement).13 Ritagliare un testo vuol dire sconvolgerne la fissità – e così inteso è un gesto applicabile anche ai testi visivi: si tratta di disfarne l’ordinamento sequenziale o la combinatoria, e riportarlo all’instabilità caotica da cui proviene. In seguito, tuttavia, bisognerà cogliere le sue possibili coerenze, i nessi, perché mantenerlo in uno stato di dispersione equivarrebbe a indebolirne la forza.

Derrida si è limitato al primo gesto: il découpage disseminante. Dunque ha colto acutamente la novità dello strutturalismo, e ha voluto esasperarla. In questa sede non posso che ribadire quanto ho scritto altrove: Derrida non è un post-strutturalista, bensì un iperstrutturalista o uno strutturalista obeso. Obesità inevitabile, se si decide, contro la concezione riduttiva di Jakobson che assegnava all’asse paradigmatico soltanto scelte prefabbricate, di moltiplicare i nessi associativi e di ignorare, e comunque svalutare, minimizzare, quelli coordinanti. Consideriamo adesso l’attuazione di questo atteggiamento metodologico nel saggio finale di La verità in pittura.

Il proliferare iniziale delle domande è del tutto legittimo, anche soltanto come scelta retorica. Ma una prima perplessità sorge quando Derrida fa sbucare dai campi, luogo in cui Heidegger intenderebbe riportare le scarpe di Van Gogh, dei topi – “topi a cui mi accorgo che esse assomigliano” (VP, 247). Una metafora che appare piuttosto arbitraria, e che è seguita da una prima associazione intertestuale: i topi fanno venire in mente l’uomo dei topi (celebre caso clinico di Freud) (ibidem), Freud suggerirà il tema del feticismo (le scarpe come oggetto con forte potenzialità feticistica), ma anche das Unheimliche. Tutto ciò non sarebbe illegittimo, a condizione di non ridurre volgarmente Freud al simbolismo, e di assumere il saggio sul perturbante nella ricchezza delle indicazioni che esso offre, anziché privilegiare le diabolique. Ma questo è solo uno dei molti fili associativi: perché, ricominciando dalle scarpe, altre versioni di quest’oggetto diventano comparabili, ad esempio quelle di Magritte. E si possono accentuare i suoi tratti, dall’essere staccate, una parte staccata (come l’orecchio di Van Gogh), ai lacci, di cui la versione del 1886 (Amsterdam, Museo nazionale: cfr. VP, 248) offre una raffigurazione davvero straordinaria. I lacci, le trappole – con innumerevoli variazioni. Ecc. ecc. Ma lo slittamento sull’asse paradigmatico va a investire non solamente il quadro bensì il discorso che lo descrive; ecco un paio (absit iniuria verbis) di esempi:

“(Heidegger e Schapiro) hanno scommesso sul paio (Ils ont parié pour la paire), sul confronto (lacomparaison), sulla scommessa (un pari) che limita i rischi della scommessa assoluta … perché la scommessa assoluta non deve mai escludere il disparato (le disparat) o il dispari assoluto (l’impair absolu)” (VP, 352-53)

 

“Se tutte queste calzature restano qui, a saldo, è possibile allora paragonare (comparer), appaiare (appareiller), scompagnare (dépareiller), scommettere (parier) o no sul paio (paire) (VP, 356).

 

Questo stile discorsivo, inaugurato da Heidegger – vale la pena di ricordarlo, per dare un senso più equo al titolo Restitutions – consiste nell’aprire come un ventaglio alcuni termini-chiave e nell’affidare a tale gesto la funzione di un moltiplicatore di prospettive. In via sperimentale, quest’operazione è legittima: ma bisognerà valutarne gli effetti, e in particolare la proliferazione dei possibili. Se ogni possibilità viene legittimata, la parità trionfa. Curioso effetto-boomerang di chi intendeva scommettere sul disparato.

E se è vero che, grazie a questa tecnica, si aprono prospettive non prevedibili sintagmaticamente, cioè non più inibite dalla soggezione alla linearità di un testo, è altrettanto vero che vanno perdute possibilità essenziali: tutte quelle che rinviano a procedimenti complessi. Totalmente smembrato, sparpagliato, il saggio di Heidegger del 1936 diventa incomprensibile: vengono cancellate le sue tesi fondamentali, vengono recisi i nessi che gli conferivano forza. E tuttavia, anche per le opere filosofiche vale la metafora di Flaubert: ciò che tiene insieme una collana non sono le perle, bensì il filo. Questa metafora non va presa alla lettera perché in oggetti più complessi di una collana i fili possono essere molti: a maggior ragione, non possono essere ignorati o arbitrariamente spezzati.

 

10. Quanto ai due illustri professori occidentali: sono davvero una coppia, una complementarità, una dualità convergente? Come è possibile che Derrida ne sia stato tanto sicuro? Trattati come due vecchie scarpe, e nient’altro, rimangono abissalmente separati l’uno dall’altro, “anche se formano un paio, ma con un supplemento di separazione, nell’ipotesi che non formino un paio” (VP, 251).

1 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, 1936; trad. in Sentieri interrotti, la Nuova Italia, Firenze 1968, p. 19. D’ora in avanti in sigla: OA, con la pagina della traduzione italiana.

2 Sono costretto a rinviare ad alcuni miei testi: Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino 2006 (in particolare, il capitolo sesto), e La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013. Eviterò di citare ancora le mie ricerche; ritengo che il lettore possa trovare in esse le giustificazioni adeguate per le affermazioni rapide e perentorie di quest’articolo.

3 V. Šklovskij, La terza fabbrica, 1926, citato da Todorov, Critica della critica, Einaudi,Torino 1984, 18.

4 J. Conrad, lettera a Graham del 5 agosto 1897.

5 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, 1959; trad. it. Mursia, Milano 1979, p. 28.

6 Forse è il caso di precisare che una buona teoria del testo non esclude affatto i contesti, e non demonizza affatto questa nozione; si oppone invece al contestualismo, cioè all’incapacità di analizzare i testi nel loro funzionamento.

7 A cui Derrida non può non rendere omaggio: “Sono sempre stato convinto dell’assoluta necessità delle interrogazioni poste da Heidegger” (La verità in pittura, 1978; trad. it. Newton Compton, Roma 1981, p.251). D’ora in avanti, il testo di Derrida sarà citato in sigla: VP, seguito dal numero di pagina della traduzione italiana.

8 Ho mantenuto la traduzione italiana del 1981, correggendo un errore evidente.

9 “Io trovo questo paio, se mi è permesso dirr così, alquanto sinistro, nel suo insieme. Osservate i particolari, l’aspetto del loro interno: sembrano due piedi sinistri” (VP, 265).

10 In Kofman, Quatre romans analytiques, Galilée, Paris 1973.

11 Non posso dimostrarlo in questa sede. Vorrei accennare però a un punto essenziale: come molti lettori di Das Unheimliche, la Kofman non capisce l’importanza della distinzione freudiana tra ritorno del rimosso (che riguarda i desideri) e ritorno del superato (che riguarda invece le credenze). Trascurando questa distinzione, finisce col privilegiare la seconda modalità del perturbante.

12 J. Derrida, La differanza, ora in Margini della filosofia, 1972; trad. it. Einaudi, Torino 1997.

13 Roland Barthes, L’attività strutturalista, in «Lettres nouvelles», 1963, ora in Saggi critici (1964); trad. it. Einaudi, Torino 1972, p. 311.