Soggetto atopos e limite del mondo
Una riflessione su stile e identità
Ciò che viene notato come singolare nel re di Macedonia Perseo, che cioè il suo spirito, non legandosi ad alcuna condizione, andasse vagando per ogni genere di vita e mostrando costumi così volubili e vagabondi che né lui stesso né alcun altro uomo sapeva quale egli fosse, mi sembra adattarsi pressapoco a tutti
(Montaigne)
1. Tipi di logica.
“Qual è la natura di una persona? Cos’è che fa di una persona in due momenti diversi un’unica e medesima persona? Cos’è che implica necessariamente l’esistenza continuativa nel tempo di ciascuna persona?” (Parfit 1984, p. 261). A queste domande, che non sono le uniche possibili ma che indubbiamente sono fondamentali, si possono dare risposte diverse; in quest’articolo vorrei però riflettere, anzitutto, sui diversi modi in cui è possibile affrontarle. Modi significa qui “stili di pensiero”. Con l’espressione stile di pensiero intendo un luogo di elaborazione dei concetti e dei problemi. Questa definizione è alquanto generica e sembra confermare la difficoltà di chiarire una nozione intuitivamente afferrabile ma che ha svolto finora nel dibattito epistemologico un ruolo essenzialmente polemico. Negli autori che contrappongono la molteplicità degli stili all’unicità del metodo, l’identità dello “stile” viene resa accessibile richiamandosi all’”esaurimento dell’idea del metodo unico esclusivo e privilegiato” (Gargani 1993, p. 7), al ruolo ineliminabile del soggetto nella conoscenza, alle radici storiche di ogni paradigma, ecc.; anziché chiedersi se esistono regole nello stile (regole non rigide, non grammaticali) si preferisce contrapporre all’idea di “regola” la varietà dei contesti. Ci si accontenta del prefisso “post” e della preposizione “contro”, come se ciò fosse sufficiente a indicare una nuova via filosofica.
Sono convinto che la molteplicità degli stili possa venire tipologizzata mediante distinzioni che non sfociano in un “discorso logicizzante, il quale classifica i materiali verbali senza sondarne le seduzioni interne, cioè perdendone la passione” (Gargani, ibid., p. 55). Distinguere non è classificare, se non come primo passo. Ancora una volta, è lo stile delle distinzioni che conta. Ciò che generalmente viene chiamata classificazione è il risultato di un approccio separativo o disgiuntivo. Ebbene, credo che sia un errore rinunciare alle potenzialità dell’analisi quando ci troviamo di fronte a fenomeni, che sprigionano un potere di seduzione proprio per la loro “natura” congiuntiva. Esiste una logica delle congiunzioni, che può e deve essere almeno in una certa misura chiarita; non penso che una buona descrizione di questa logica ne annullerà il fascino.
Proveremo anzitutto a distinguere tra due famiglie di stili di pensiero, che si riferiscono a due tipi diversi di logica, disgiuntiva e congiuntiva1. Questa distinzione può essere rifiutata, naturalmente; tuttavia è stata avanzata e difesa da una tradizione di pensiero che inizia forse con Eraclito, e che comprende Hegel e Heidegger. Una metafora heideggeriana mi sembra particolarmente efficace per introdurre il problema:
“Le parole non sono termini e quindi non sono simili a secchi e botti, da cui si possa far uscire un contenuto esistente. Le parole sono sorgenti che il dire scava, sorgenti che di continuo devono essere cercate e scavate, che facilmente franano, ma che a volte anche sgorgano all’improvviso. Senza il continuo rinnovarsi dell’accesso alle sorgenti, i secchi e le botti restano vuoti o ciò che li riempie resta qualcosa di stantio” (1954, II, p. 23)
Qui Hedegger distingue una logica separativa o disgiuntiva, un pensiero univocizzante, che delimita, fissa e smorza definitivamente l’energia fluida (del mondo e del linguaggio), e una logica congiuntiva, un pensiero fluido che scavalca le morte barriere e ristabilisce la continuità della vita. L’isotopia del fluido svolge un notevole ruolo nel caratterizzare le forme di pensiero ostili alle divisioni, e allo spirito stesso della scienza inteso come catalogatore. Non mi sembra arbitrario indicare un Leit-motiv che dal fiume eracliteo giunge alla fluidità del movimento pensante nella Fenomenologia di Hegel 2, sino alla denuncia della convenzionalità separatrice in Feyerabend: “Un fiume può essere diviso da confini politici fra nazioni, ma questa divisione non lo trasforma certo in un’entità discontinua” (1975, pp. 135-36).
Esiste una logica del pensiero fluido o congiuntivo? La Scienza della logica di Hegel è una risposta positiva, anche se inadeguata (e, per molti, fallimentare) a questo interrogativo. Ma quali sono le ragioni dell’inadeguatezza, o del fallimento? Perché l’impresa non è stata più ritentata, almeno in maniera così sistematica? Qui la risposta non può che essere parziale e affrettata; vorrei comunque indicare schematicamente due direzioni di ricerca:
- il nucleo fondamentale di quella versione della logica congiuntiva che è la dialettica hegeliana va individuato nei correlativi, cioè in un tipo di relazione oppositiva già definito da Aristotele, ma rimasto sempre ai margini nella riflessione filosofica europea. I correlativi hegeliani prevedono una possibilità di sintesi, possibilità esclusa o almeno elusa dai correlativi differenziali (senza sintesi) di Heidegger. La logica congiuntiva in Heidegger sarà imperniata sulla nozione di co-appartenenza (Zusammengehörigkeit). Riprenderemo più avanti questa nozione, esaminando il saggio Identità e differenza. Non mi sembra arbitrario affermare che la nozione, difficile e in una certa misura paradossale, dei correlativi 3 non è mai stata chiarita neanche nelle accezioni fondamentali (esistono tipi diversi di correlazione, e non solo tipi diversi di opposizione);
- il pensiero congiuntivo non è mai riuscito a pensare - cioè a far emergere concettualmente, portandola a trasparenza e facendone scaturire le conseguenze - la possibilità di un’ulteriore distinzione, di una scissione interna alla logica congiuntiva: la differenza tra il confusivo e il distintivo. Nella pratica teorica di alcuni autori questa differenza è riconoscibile, in quanto “messa in atto”: ma non viene portata a consapevolezza. Vorrei tentare ora di rendere comprensibile una distinzione da cui dipende l’autonomia di quella famiglia di stili che ho chiamato distintivo. I criteri a cui far riferimento sono più di uno, ma vorrei privilegiare quello che mi sembra più convincente. Com’è noto, la linguistica moderna (con Saussure) ha definito il linguaggio come “il regno delle articolazioni” (1916, p. 137). Poiché il linguaggio è un sistema di segni, l’articolazione indica una doppia segmentazione che avviene contemporaneamente a livello dei significanti e a quello dei significati: in tal modo si creano legami reciproci e stabili tra le due facce di ogni segno. Benché l’identità del segno sia oppositiva e differenziale (l’identità è il valore nel sistema), ogni segno risulta ben delimitato, e somiglia più a un secchio che a una sorgente (per riprendere le immagini di Heidegger). Potremmo anche dire che ogni elemento del sistema possiede una “buona distanza” rispetto agli altri elementi, con i quali non può essere confuso (le possibilità dell’omonimia e della sinonimia sono affrontabili con le risorse interne, di cui ogni linguaggio normalmente dispone). Quanto al contesto, esso agisce, nella normalità della situazioni comunicative, come un agente di “disambiguazione”.
Supponiamo ora di ridurre le distanze che separano i segni. Decidiamo di enfatizzare le loro interazioni, e di rendere fluide le loro frontiere. Diremo per esempio che l’identità del termine co-appartenenza (Zusammngehörigkeit) dipende dai legami con parole derivanti da hören (ascoltare), a loro volte collegate con la semantica di eigen (proprio):
“Nell’uomo s’impone un appartenere (Gehören) all’essere, un appartenere che si pone in ascolto (hört) dell’essere, poiché ad esso è trasferita la sua proprietà (übereignet)” (Heidegger 1957, p. 9).
Ecco un esempio di stile confusivo, e non soltanto congiuntivo. La correlazione è diventata mescolanza, le sfere del proprio (eigen), dell’appartenere (Gehören), dell’ascolto (Gehör), dell’ubbidienza (Gehorsam), dell’evento (Ereignis), si sovrappongono ondeggiando liberamente, insieme (zusammen). So quanto possa essere irritante, per i filosofi di formazione analitica, questo stile di pensiero. Non credo però che lo si possa respingere o liquidare, senza averne compreso le ragioni e la “logica” (uso le virgolette con intento propiziatorio, nella speranza che il lettore di formazione rigorosamente analitica sia indotto a pazientare). Nei termini della linguistica strutturale, Heidegger sta esasperando le relazioni sull’asse paradigmatico (come lo hanno chiamato Hjelmslev e Jakobson), affidando alle interazioni lungo quest’asse un ruolo preponderante rispetto alle relazioni sintagmatiche. La sensazione, per chi pratica un altro stile argomentativo, è che qui sia riscontrabile l’abbandono di qualunque tecnica di argomentazione, in nome di pure suggestioni verbali.
Ma forse questa sensazione è ingiusta. Se è vero che, con diversa frequenza, l’asse sintagmatico - quello in cui termini e argomenti vengono disposti linearmente e consecutivamente - viene risucchiato dal paradigmatico, è altrettanto vero che un pensatore congiuntivo non rinuncia completamente alle distinzioni. Il confusivo non è semplicemente la confusione.
Vorrei presentare un paio di esempi per chiarire quella che può sembrare una distinzione implausibile. Come abbiamo visto, il confusivo è quel regime che riduce le distanze tra i segni, favorendone l’incollamento o la sovrapposizione. L’effetto è l’affievolimento del principium individuationis, sia all’interno del sistema, sia per coloro che ne fanno uso. I contesti vedono indebolito il loro potere di disambiguazione; le coordinate spazio-temporali risultano come sospese. È in questo regime semiotico che diventa comprensibile - e non appare soltanto ingenua o comica - l’affermazione di quel re dei Goti, che, quando udì per la prima volta la storia della crocifissione, rispose che se egli e i suoi guerrieri fossero stati informati per tempo sarebbero ben intervenuti (cfr. Adorno 73, p. 55). Qui l’effetto confusivo nasce da una formidabile riduzione della distanza temporale tra i due contesti, e anche della distanza spaziale: il Golgota appare improvvisamente vicino a colui che ascolta il racconto, reso quasi accessibile dalla forza evocatrice del linguaggio. Ma la perdita della buona distanza non è meno percepibile in un’altra scena, infinitamente meno drammatica, descritta da Wittgenstein: “Immagina che uno dica: “Io so quanto sono alto!”. E, così dicendo, si metta una mano sul capo per indicare la propria statura” (1953, par. 279).
Ho scelto intenzionalmente due esempi molto diversi. In entrambi manca la distanza necessaria al pensiero, nel primo caso per l’eccessiva contiguità tra due contesti, nel secondo perché l’enunciatore è come una figura “schiacciata” sullo sfondo, chiusa nella sua prospettiva come in angolo. Comunque sia, questi due casi esemplificano la confusione, cioè il confusivo inferiore. Sono errori infecondi, mentre le interazioni etimologizzanti di Heidegger aprono, almeno virtualmente, nuove vie di significato.
2. E tipi di identità.
Nella conferenza sul Principio di identità, Heidegger comincia con il rifiutare una formula che appartiene con tutta evidenza alla logica separativa: A = A. Perché una cosa possa essere se stessa, aggiunge Heidegger, è sufficiente un solo termine; ma l’identità di ogni cosa non se stessa non equivale all’uniformità rigida; dobbiamo piuttosto pensare a una mediazione, che, nello stile “tautologico” a cui Heidegger fa spesso ricorso, suona così: con se stessa ogni A è essa stessa se stessa. Il vantaggio di questa mossa tautologica consiste nell’aver spostato l’attenzione sul verbo “essere”. In “A è A” (formula più appropriata) viene enunciata una legge, la quale afferma che a ogni essente appartiene in quanto tale l’identità, l’unità con se stesso.
Ma l’essere non è un ente. Riferendosi alla nozione di differenza ontologica - che è il cuore della sua meditazione -, Heidegger decide di esaminare la celebre asserzione di Parmenide “tò gar autò noein estin te kai einai” (Lo stesso è infatti è percepire (pensare) e altrettanto anche essere”, dove cose differenti, pensare e essere, sono indicate come lo stesso (das Selbe). Ma che significa precisamente lo stesso?
“La parola-guida nella sentenza di Parmenide, tò autò, lo stesso, resta oscura. Noi la lasciamo nella sua oscurità. In pari tempo, però, facciamo sì che la sentenza, al cui inizio è posta quella parola, ci conceda un cenno” (1957, p. 7).
Lo stesso (das Selbe), dirà altrove e più di una volta Heidegger, non è l’uguale (das Gleiche). “Nell’uguale scompare la diversità. Nello stesso appare la diversità” (1957, 19). La relazione di “identità” come Selbigkeit indica una co-appartenenza (Zusammengehörigkeit) tra i due componenti. È dunque questa la parola da chiarire, almeno parzialmente: coappartenenza, appartenenza reciproca. Senza alcun margine di dubbio, Heidegger sta mostrando il principio di una logica congiuntiva - di una, non dell’unica possibile.
Il discorso heideggeriano non può essere collocato nell’ambito del confusivo inferiore, della mera confusione. Ma probabilmente non può essere accolto neanche nell’ambito del distintivo, per quanto egli tenti di sottrarlo all’oscurità. Un momento decisivo, nell’esposizione heideggeriana, concerne la doppia accezione di Satz: questo termine indica il principio di identità come asserzione relativa all’ente (A è A), ma significa anche salto (Sprung). Ed è precisamente un salto che Heidegger propone, per staccarsi dal pensiero rappresentativo, dall’identità come eguaglianza o medesimezza, e per dirigersi verso la provenienza essenziale dell’identità. L’identità non è, l’identità proviene, accade e giunge: l’identità va pensata come Ereignis.
“L’Er-eignis è l’ambito - dotato di oscillazioni sue proprie - attraverso il quale uomo ed essere si raggiungono a vicenda nella loro essenza, ottengono ciò che per loro è essenziale e perdono, intanto, quelle determinazioni che la metafisica ha loro conferito” (ibid., p.13)
“L’Ereignis traspropria (vereignet) uomo ed essere nell’insieme (Zusammen) proprio della loro essenza” (ibid., p. 14).
Sembra che la nozione di Ereignis non chiarisca più di tanto, almeno per ora, la nozione di Zusammengehörigkeit. Ma c’è almeno un’indicazione importante, cioè l’invito a sottrarsi alle categorie del “pensiero rappresentativo”, ad abbandonare il nostro più abituale atteggiamento di pensiero:
“Questo abbandono è un salto, un salto che comporta un distacco dalla rappresentazione corrente dell’uomo come animal rationale, che nell’epoca moderna è diventato il soggetto per i suoi oggetti” (ibid., p. 10).
L’essenza dell’uomo non consiste in una specificazione del genere “animale”; ma -possiamo aggiungere - neppure in una razionalità virtualmente disincarnata dal biologico, in una mente che può cambiare il proprio supporto corporeo e definirsi fondamentalmente nella sua operazionalità. Bisogna però approfondire il significato di questo duplice rifiuto.
3. L’identità divisa.
Può darsi che la perentorietà con cui Heidegger respinge la definizione dell’identità mediante genere e specie sia dettata da una visione semplificata dell’atteggiamento metafisico. L’immagine dell’uomo come doppia natura, come integrazione tra biologico e culturale, è stata recentemente riproposta da John McDowell con riferimento ad Aristotele: che la nostra natura sia prevalentemente una seconda natura, implica che l’uomo è un animale flessibile. Non semplicemente “l’animale meglio riuscito”, definizione che Heidegger menziona altrove con una certa ironia, ma un essere la cui vita è sempre già modellata - e resa problematica - dal significato (McDowell 1994, p. 102).
Anche se queste precisazioni riescono a non far gravare sull’identità degli esseri umani le catene di una concezione rigida e metastorica, la prospettiva heideggeriana resta irriducibilmente diversa. Torniamo alla coappartenenza di essere e pensiero. Se intendiamo il pensiero come segno distintivo dell’uomo, allora lo Zusammengehören riguarda l’uomo, o meglio l’Esserci, e l’essere (Heidegger 1957, p. 8). La co-appartenenza rinvia alla logica congiuntiva; sarebbe però un grave fraintendimento credere che la logica congiuntiva, per il solo fatto di essere imperniata sui correlativi, ignori o indebolisca la differenza ontologica. Al contrario: la logica congiuntiva è nata, e ha continuato ad essere nella nostra tradizione (in Eraclito, in Hegel e in Heidegger), una logica del conflitto, del dissidio. La verità stessa, in Heidegger, manifesta un’essenza conflittuale 4. Dunque, la logica congiuntiva è scaturita dalle insufficienze della logica disgiuntiva, e più precisamente dall’incapacità del pensiero separativo ad analizzare fenomeni essenziali per l’esistenza e l’identità degli esseri umani - fenomeni che soltanto il pensiero dei correlativi è in grado di descrivere e di affrontare. Ma, lo ripeto, ciò non implica l’assenza o l’abolizione del conflitto.
Al contrario: proprio perché l’esistenza degli esseri umani è legata, per molti aspetti, a distanze brevi e reciproche, proprio perché queste distanze sono difficili da pensare, e diventano impensabili per il pensiero “cosale” e “fattuale”, la logica congiuntiva deve intervenire come logica della divisione, come logica dell’identità divisa.
In Heidegger, il dissidio ontologico si manifesta nella necessità, per l’Esserci, di non pensarsi sul modello dell’ente intramondano, dunque di non pensarsi come una res (e sia pure come una res cogitans). Dovrebbe essere chiaro fin d’ora come la diverse versioni della mente computazionale, le varie forme di funzionalismo, siano lontanissime dalla concezione dell’identità divisa. Anche in Freud l’identità è divisa. Come? Le scissioni più note sono quelle “regionali” (distinzione tra Io, Es, Super-io). Ma la divisione in luoghi psichici come metaforizzazione spaziale può nascondere - e, di fatto, nasconde non solo agli occhi dell’opinione comune ma anche a quelli di molti filosofi della mente - altre scissioni, di carattere non cosale bensì modale. Determinante, nella teoria freudiana, è la differenza tra diversi regimi di pensiero, quello che dipende dai processi primari (energia libera), e quello che afferisce ai processi secondari (energia legata): chi legge gli scritti di Freud in questa prospettiva non fatica a riconoscere nei processi primari una logica che coincide con la logica che qui abbiamo chiamato congiuntiva (più precisamente, si tratta del regime confusivo), e nelle attività mentali legate ai processi secondari la logica disgiuntiva. Dunque, in Freud, la differenza tra la cosiddetta sfera cosciente e la sfera inconscia non è né una differenza di natura né una differenza di grado bensì una differenza di stile. Una differenza modale.
Purtroppo, e ciò mi pare assai deplorevole, la maggior parte dei filosofi della mente non legge Freud, oppure si ferma agli stereotipi più diffusi. Il nome di Freud non è mai menzionato, per esempio, in Ragioni e persone di Parfit, in Uno sguardo da nessun luogo di Nagel, in La natura della mente e la struttura della scienza di Churchland. È menzionato e discusso, più o meno rapidamente, più o meno superficialmente, da Dennett, da Minsky e da Searle. Esaminerò anch’io rapidamente, ma - spero - senza fraintendimento grossolani, l’immagine di Freud in questi tre autori.
Lo stereotipo che accomuna Dennett e Searle è quello dell’inconscio come serbatoio di rappresentazioni:
“Freud postula un ampio e arcano reame di stati mentali inconsci” (Dennett 1991, p. 350);
“Semplificando molto, potremo paragonare i nostri stati mentali inconsci a un branco di pesci che nuotano sotto il pelo dell’acqua: sebbene non possiamo vederli, essi hanno la stessa forma di quelli che nuotano in superficie. Potremmo analogamente immaginarli come oggetti stipati in un oscuro ripostiglio della nostra mente: anche se non possiamo vederli, essi conservano la propria forma e le proprie caratteristiche” (Searle 1992, pp. 167-68).
Semplificando molto: ma dov’è la semplificazione? Nell’uso di una metafora, e di oggetti e luoghi concreti per la dimensione mentale? È questo che sembra credere Searle, a giudicare dalla serietà con cui più avanti insiste - senza più scusarsi per l’eventuale banalizzazione - sull’identità di forma tra rappresentazioni mentali consce e inconsce. Questa è anche l’opinione che Searle attribuisce a Freud: gli stati mentali inconsci “si differenzierebbero da quelli coscienti unicamente per il loro essere, appunto, inconsci” (ibid., p. 180);
“L’inconscio avrebbe dunque, secondo la tesi freudiana, tutti i requisiti posseduti dal conscio tranne la coscienza stessa” (ibid., p. 184).
Queste affermazioni costituiscono non soltanto una semplificazione, ma - sia detto senza alcuna animosità - un’autentica falsificazione della teoria freudiana. Per Freud, come è già stato ricordato, esiste una scissione fondamentale tra due tipi di processi psichici, a cui corrispondono due logiche eterogenee : in una di esse vale il principio di non contraddizione, nell’altra no; nella logica “primaria” o confusiva sono lecite relazioni simmetriche proibite dalla logica “secondaria”: ad esempio, il cosiddetto “inconscio” tratta la relazione padre/figlio come la “coscienza” tratta la relazione tra due fratelli. Il cosiddetto “inconscio” è anzitutto ed essenzialmente una logica confusiva - e non un luogo dove le rappresentazioni coscienti perdono la qualità “coscienza”.
Tutto ciò è affermato da Freud innumerevoli volte. Benché abbia presentato la propria ricerca come imperniata sulla scoperta dell’inconscio, Freud è stato il primo a rendersi conto dei rischi di un grave fraintendimento; perciò egli scrive, nella Metapsicologia, che
“la consapevolezza, l’unica caratteristica dei processi psichici che ci si rivela con immediatezza, non si presta affatto a fungere da criterio per la distinzione tra i sistemi” (1915, p. 76)
“Se vogliamo conquistare la capacità di considerare metapsicologicamente la vita psichica, dobbiamo imparare a emanciparci dall’importanza del sintomo “consapevolezza” (ibidem).
I diversi sistemi psichici sono dunque, metaforicamente, luoghi che elaborano con differenti modalità linguistiche i contenuti di cui si impadroniscono. La tesi di Lacan, l’inconscio è strutturato come un linguaggio, ha spostato definitivamente l’accento - per chi è stato in grado di accorgersene - dalla qualità “inconscio” al regime linguistico di elaborazione e di traduzione. L’inconscio è una macchina che traduce la coscienza, e viceversa. Data l’eterogeneità degli stili, la traduzione non può essere completa. Per capire ciò che si perde - e quanto sia falso il principio di connessione di Searle: “tutti gli stati intenzionali inconsci sono in linea di principio accessibili alla coscienza” - si immagini un quadro di Tiziano “tradotto” dal Picasso cubista o da Kandinsky (e viceversa). Differenza tra regimi linguistici, differenza tra stili, e non tra qualità o gradi.
Se questo è l’autentico pensiero di Freud, com’è possibile che Searle, e con lui tanti filosofi della mente, siano caduti in un equivoco così clamoroso? È un interrogativo che non possiamo eludere, per più di una ragione. Si può rispondere, in primo luogo, che la comprensione della psicoanalisi è fortemente condizionata anche in ambito filosofico dalla sua immagine “popolare”: il cinema hollywoodiano ha contribuito in misura assai notevole a quest’immagine proponendo, a partire da Spellbound di Hitchcock, la concezione dell’inconscio come una cantina o come un solaio - non è casuale l’uso di questa seconda metafora in Searle - in cui certi eventi traumatici giacciono dimenticati, in attesa che qualcuno vi si rechi e li illumini con la luce della percezione (Searle 1992, p. 183).
In secondo luogo, l’idea dell’inconscio come serbatoio di rappresentazioni perdute (rimosse) accompagna effettivamente la psicoanalisi nei suoi inizi, e tende a persistere per la sua immediatezza ed efficacia sul piano della comunicazione. La teoria freudiana nasce come terapia fondata sulle reminiscenze, e sul potere catartico delle reminiscenze: ci sono episodi dimenticati che, grazie alla verbalizzazione, non svolgono più un’azione patogena. Ma qui si sta parlando dei primi passi della psicoanalisi. Freud ha faticato a conquistare sino in fondo l’idea di un’autonomia dello psichico ; decisiva è stata la scoperta che alcuni episodi narrati dai pazienti non avevano corrispettivo nella realtà, non erano ricordi bensì fantasie. Autonomia di elaborazione da parte dello psichico significa indipendenza dal regno dei fatti: i desideri sgorgano da una miscela modale in cui l’effettività non ha il primato rispetto al possibile e al necessario 5.
In terzo luogo, non si può escludere che l’inconscio ospiti avvenimenti dimenticati, desideri sconosciuti o meglio allontanati dal livello cosciente ad opera della censura. Dobbiamo introdurre a questo punto la distinzione tra desideri con rappresentazione (di un oggetto) e desideri, cioè desideri non identificabili tramite un oggetto o una rappresentazione. In quanto attinge all’energia pulsionale, il desiderio non ha né soggetto né oggetto: non ha un soggetto sufficientemente unitario ed è troppo flessibile nelle sue modalità di appagamento per poter essere riferito a un oggetto privilegiato. Parlare del desiderio, e del desiderio inconscio, come di un “drammaturgo interno” che, per esempio, “compone delle opere da sogno a beneficio dell’io e che abilmente supera l’ostacolo di un censore interno camuffando il loro vero significato” (così si esprime Dennett, 1991, p. 23), è ancora una volta una semplificazione inaccettabile e una falsificazione della teoria di Freud.
Se il concetto di “identità” nella psicoanalisi va riferito a una identità divisa, è perché il desiderio stesso è diviso, cioè non è unitario. Soltanto in una traduzioneseparativa il desiderio diventa un agente fornito di una precisa direzione, di un oggetto e di una meta. Dovrebbe essere chiaro come, nel tentativo di rendere comprensibile il regime confusivo - e il desiderio è prima di tutto ed essenzialmente confusivo -, l’interprete dia una forma, che è inevitabilmente una forma narrativa, a un’identità che non esiste se non nelle sue forme possibili. Il carattere di “virtualità” del desiderio, e la sua conflittualità interna, vengono sottoposte - ed è necessario che lo siano, nel corso della formazione di ciascuno - a processi di irrigidimento che sfociano in racconti. L’Edipo, come intreccio narrativo, non è altro che la “messa in forma” di desideri che non sono mai riducibili a un desiderio di amore per una persona, e a un desiderio di morte per un’altra persona - anche perché quelle “persone”, nella prospettiva di chi non ha ancora propriamente un’identità, non sono individui circoscritti da un elenco di proprietà o di tratti.
Minsky sfiora il problema quando scrive: “Come si può imporre la coerenza a una moltitudine di agenzie prive di mente? Freud è stato forse il primo a capire che essa potrebbe emergere per effetto dell’attaccamento infantile” (1986, p. 351). Qui ci avviciniamo ulteriormente al fondamentale contributo della psicoanalisi alla teoria dell’identità: l’identità non è altro che identificazione, storia dei processi di identificazione.
4. Il “diviso” e il “molteplice”.
Nell’ambito della filosofia della mente è stata dichiarata da qualche tempo una guerra contro il soggetto unitario, l’illusione dell’io, il grande Homunculus che dirigerebbe le nostre operazioni mentali. Ecco degli esempi:
“l’immagine di un agente unico è ormai diventata un grave impedimento per la scoperta di buone idee in ambito psicologico” (Minsky 1986, p. 91)
“Nel nostro cervello c’è un’aggregazione un po’ abborracciata di circuiti cerebrali specializzati, che, grazie a svariate abitudini indotte in parte dalla cultura e in parte dall’autoesplorazione individuale, lavorano assieme alla produzione più o meno ordinata, più o meno efficiente di una macchina virtuale, la macchina joyciana. Facendo lavorare per una causa comune questi organi specializzati che si sono sviluppati indipendentemente, e dando quindi alla loro unione dei poteri ampiamente potenziati, questa macchina virtuale (...) opera una sorta di miracolo politico interno: crea un comandante virtuale dell’equipaggio, senza conferire a nessuno dei poteri dittatoriali a lungo termine. Chi comanda? Prima una coalizione o poi un’altra ...” (Dennett 1991, pp. 255-56).
Senza dubbio è curioso che, a distanza di quasi un secolo dalla Traumdeutung freudiana, la non unitarietà della psiche venga presentata come una scoperta. Tuttavia, agli occhi di chi crede che l’inconscio freudiano sia un “regista occulto” delle nostre azioni e dei nostri pensieri, e che a tale regista manchi solo la qualità “coscienza” per essere un soggetto completamente unitario come l’Io cartesiano, la teoria di Freud appare come uno sdoppiamento - misterioso, stravagante - dell’antico soggetto filosofico centrato su di sé. La buona fede di chi nutre questa convinzioni non giustifica, a mio avviso, l’adesione a stereotipi inammissibili. Non intendo però negare che da riflessioni filosofiche estremamente unilaterali possano giungere stimoli importanti; e poiché questo è (almeno nelle mie intenzioni) un contributo di ricerca, e non una polemica, non rinuncerò ad analizzare più da vicino gli schemi argomentativi utilizzati dalle teorie “dissolutive”.
Lo schema principale - il frame filosofico dominante - in queste teorie è l’oscillazione tra l’Uno e il Molteplice. Evidentemente la fiducia in quella che è una delle più antiche coppie filosofiche rimane intatta. Credo però che tale fiducia conduca lungo strade sbagliate, che favorisca la costruzione di modelli della mente troppo semplici, e comunque inferiori alla complessità del modello psicoanalitico.
Credo altresì che sia necessario distinguere tra modelli della molteplicità che si prefiggono compiti descrittivi, e modelli in cui domina l’euforia del molteplice. Iniziamo da questi ultimi. Non è difficile riscontrare oggi una confluenza tra filosofie genericamente post-nietzscheane, che hanno ereditato ma anche trasformato in chiacchiera la distruzione dell’Uno, e un pensiero “cyberfilosofico” (diciamo così), che contamina il mito delle nuove tecnologie con la vulgata sociologica postmoderna. Unità e coerenza sono diventate parole connotate negativamente, mentre si esalta “la formazione di sé sempre più numerosi, sempre più divergenti e sempre più frammentari” (Mantovani 1995, p. 207). Viene descritto come ormai possibile, se non proprio imminente, un mondo in cui la straordinaria flessibilità del soggetto acentrato e pulviscolare consente ad ogni attore l’accesso a “personalità multiple, da indossare e deporre a piacere” (ibidem). Quanto ai modelli descrittivi, l’infatuazione per il molteplice è tale da farli apparire preferibili all’Uno, anche nel caso in cui essi manchino della qualità “intelligenza”:
“quando una teoria chiama in causa gli homunculi, è bene che siano funzionari relativamente stupidi - non come il brillante drammaturgo freudiano” (Dennett 1991, pp. 22-23).
Commenta Di Francesco:
“Il comportamento “intelligente” è in realtà per Dennett il risultato dell’azione di una quantità di agenzie cognitive complesse, ognuna delle quali può essere scomposta in subagenzie meno complicate (e meno “intelligenti”) e così via, fino a operatori (omuncoli) estremamente stupidi, capaci di rispondere solo di sì o di no a una gamma specificata di domande, attraverso un processo che non esibisce mai, a nessun livello, qualcosa di simile all’intenzionalità “intrinseca” di cui parla Searle” (1996, p. 146).
Il riferimento esplicito e positivo alla stupidità non va trascurato . Le teorie dissolutive non dovrebbero aggirare il problema della bêtise, in quanto l’indebolimento dei vincoli e dei nessi in cui consiste l’identità (nell’accezione tradizionale) minaccia non solo l’identità della persona ma l’efficacia e soprattutto la complessità dei percorsi intellettuali. Nella loro enfasi sui processi di frammentazione, i discorsi postmoderni e più in particolare “cyberfilosofici” ignorano il rischio di favorire non solamente una teoria stupida della mente e dell’intelligenza, ma la stupidità - forse la “stupidità intelligente” di cui parla Musil, indicandola come specifica dell’epoca moderna 6. È dunque importante, e merita di essere attentamente considerata, la tesi “desublimante” di Dennett, secondo cui i processi mentali superiori sono interamente riconducibili a processi inferiori.
Cerchiamo anzitutto di definire il problema riducendo le pressioni esercitate dall’attualità, dal presente, e recuperando una prospettiva più ampia. La nozione di “soggetto metonimico” - chiameremo così ogni caratterizzazione dell’identità personale fondata prevalentemente su nessi aggregativi, su relazioni à côté - fa il suo ingresso nel dibattito filosofico moderno con Hume, e trova nella pars destruens del pensiero nietzscheano una ripresa e una prosecuzione tra le più fascinose. Non si può peraltro ridurre la teoria nietzscheana del soggetto al soggetto metonimico. Devo procedere molto rapidamente per ovvie ragioni di spazio, ma vorrei ricordare che Nietzsche ha saputo cogliere come nessuno prima di lui il nesso tra molteplicità e mediocrità, tra molteplicità e bêtise. Nella Seconda Inattuale (1872), egli sviluppa una critica dell’uomo moderno come soggetto metonimico - come persona disgregata, senza un’identità stabile, come attore sociale elastico e in grado di indossare e svestire continuamente nuove maschere e nuove identità. Questa riflessione mira prevalentemente a mettere in luce l’atteggiamento onnivoro e volubile dell’uomo moderno nei confronti del passato, considerato come luogo di saccheggio o, diremmo noi oggi, come un ipermercato che ci inonda con un numero elevatissimo di opzioni: ma descrive un gusto del molteplice che si è affermato nella maniera più riconoscibile nell’epoca che siamo ormai abituati a chiamare postmoderna. Nell’incapacità di coordinare Io troppo numerosi e che affiorano casualmente, nell’incapacità di dare uno stile alla propria esistenza, il grande distruttore dell’Io come illusione metafisica e superstizione grammaticale ha diagnosticato una patologia, la diminuzione della nostra forza plastica e delle nostre energie creative.
Mi sembra che dopo aver individuato un nesso tra molteplice e bêtise non sia più possibile contrapporre i Molti all’Uno come il positivo al negativo, come la verità alla repressione e alla menzogna. Soltanto l’ideologia - che è sempre complice della stupidità - può accontentarsi di riproporre ingenuamente l’antica dicotomia filosofia, rovesciata di segno.
Torniamo a Dennett, e alle teorie descrittive. Qui la nozione di “molteplice” svolge un ruolo diverso. Nella misura in cui è ancorata alle ricerche nel campo della neurofisiologia, essa riflette tutta una serie di processi su cui il filosofo non ha competenza per intervenire. Limiterò dunque le mie considerazione all’immagine della mente, che emerge nei testi di Dennett. Che la mente debba venire studiata nella sua molteplicità funzionale, mi sembra del tutto fuori discussione. Chi negherebbe la legittimità di descrivere la cabina di una locomotiva (l’esempio è in Wittgenstein), imparando a distinguere le diverse funzioni di impugnature che hanno tutte, più o meno, lo stesso aspetto? “Ma una è l’impugnatura di una manovella che può venir spostata in modo continuo (regola l’apertura di una valvola); un’altra è l’impugnatura di un interruttore che ammette solo due posizioni utili: su e giù; una terza fa parte della leva del freno: più forte si tira più energicamente si frena”; ecc (1953, p. 15). Ma se l’obiettivo è la spiegazione del comportamento, di ciò che fa e di ciò che potrebbe fare un esistente, allora il problema della differenza ontologica tra gli esistenti torna a riproporsi. E se il quadro comandi di una locomotiva racchiude tutte le possibilità d’azione di questo “ente intramondano”, bisogna chiedersi dove sia il quadro comandi che determina le possibilità di un ente, che si pone invece e cerca di affrontare problemi non esclusivamente tecnici. O meglio, che può anche scegliere la dimensione esclusivamente tecnica, pagando però il prezzo di una riduzione delle sue virtualità, ed entrando a far parte di quel “ceto medio dello spirito (dem geistigen Mittelstande), che non può scorgere i veri grandi problemi e interrogativi” (Nietzsche 1882, af. 373).
Per descrivere le possibilità della persona la nozione di “molteplicità” è necessaria ma insufficiente. E tale insufficienza può venir indicata schematicamente in questi motivi:
- il molteplice tende a contrapporsi all’uno come la dimensione flessibile alla rigidità. Ma la vera flessibilità non può consistere semplicemente nella moltiplicazione dell’uno. Si può cambiare ogni giorno la propria rigidità senza per questo diventare elastici - si diventa solo “multi-rigidi”;
- se vuole tener conto di tutti i tipi di molteplicità, il pensiero del molteplice deve considerare anche la molteplicità degli stili. Ma qui, come in altri ambiti, molteplicità significa eterogeneità, e dunque il pensiero del molteplice deve saper dividere ;
- l’identità di una persona consiste nella serie delle identificazioni, dei molti modi in cui quella persona è diventata altro, ha interiorizzato un altro. Ora, soltanto se accettassimo senza riserve la nozione di “soggetto metonimico”, potremmo pensare alla serie delle identificazioni come a un processo cumulativo. L’inadeguatezza di questa concezione mi sembra abbastanza evidente (potrà essere argomentata a lungo in altra sede). La storia delle nostre identificazioni è un processo conflittuale, non solo perché vi si affrontano identificazioni diverse dello stesso tipo ma a causa dell’eterogeneità di quegli altri che noi diventiamo, per poter giungere a noi stessi. “Diventare ciò che si è” è un compito che implica costantemente il rischio dell’alienazione.
Le divisioni regionali nel modello freudiano riflettono l’eterogeneità della psiche. In questa concezione del soggetto diviso, vi sono due regioni che non hanno nulla di “soggettivo” se con il termine soggetto indichiamo la prospettiva in prima persona. L’Es e il Super-io non sono soggetti, non possiedono la prospettiva della prima persona, sono piuttosto quelle “altre persone” che io stesso sono 7.
Infine - questo punto va ribadito - l’identità divisa nella psicoanalisi non rinvia soltanto a divisioni regionali, a un’allegoria della psiche come territorio scisso in regni combattenti: le scissioni più importanti nascono dall’eterogeneità delle logiche, dei “modi di pensare” parzialmente intraducibili fra di loro.
5. Analizzando il limite del mondo.
Tra gli studiosi della mente prevale oggi l’adesione a un programma di “naturalizzazione” , che può venir indicato con i termini materialismo, eliminatismo, riduzionismoforte. Al di là delle differenze tra diverse posizioni (cfr. Searle 1992, p. 21-26), ciò che caratterizza questo programma è la convinzione di poter fare a meno della nozione di “coscienza” intesa come prospettiva in prima persona, di poter prescindere totalmente dalla visione ordinaria che ciascuno di noi ha di se stesso, di poter eliminare una dimensione fenomenologica imperniata sull’intenzionalità e su altre operazioni eminentemente “soggettive”. Contro questo ventaglio di posizioni viene condotta una battaglia difensiva, che trova le sue argomentazioni migliori nelle difficoltà concettuali ed empiriche del programma di naturalizzazione completa, e nella forte implausibilità delle tesi eliminativiste. Searle ritiene che solo il terrore di ricadere in quella che sembra l’unica alternativa possibile, cioè il dualismo cartesiano (o una qualunque concezione di tipo religioso), alimenti tesi così implausibili, e la cui formulazione sembra confermare la massima di Hobbes sul privilegio dell’assurdità, “al quale nessun essere vivente soggiace, fuorché l’uomo, e tra gli uomini vi soggiaciono di più quelli che professano una filosofia” 8.
Credo che la diagnosi di Searle sia ampiamente condivisibile, e altrettanto condivisibile mi sembra il suo rifiuto di considerare la concezione eliminativista e materialista come l’unica interpretazione filosofica legittima dei progressi registrati nelle neuroscienze. Il limite della battaglia condotta da Searle, e da altri studiosi, va peraltro individuato nel carattere prevalentemente difensivo con cui essa viene condotta. Lo conferma la frequenza con cui si fa ricorso alla nozione di “irriducibilità”: irriducibilità della coscienza, dell’esperienza in prima persona, dell’intenzionalità, dell’attribuzione di senso, e così via. Ebbene, l’affermazione di irriducibilità, per quanto accompagnata da argomentazioni rigorose e convincenti, non basta, e non può sostituire un programma di analisi che miri a rendere conto della complessità dei fenomeni mentali, e più in generale dell’identità di una persona.
Ritengo che la teoria degli stili di pensiero debba costituire non solo una componente essenziale di questo nuovo programma d’analisi, ma la prospettiva filosofica che può illuminare la ricerca, aiutandola a non ricadere nelle false alternative già esistenti. Non posso offrire, in questa sede, che indicazioni minime; tuttavia c’è ancora un punto fondamentale che vorrei chiarire molto rapidamente.
Sto delineando una concezione modale della soggettività. In base a tale concezione, l’identità soggettiva non è una res e non è nemmeno un insieme di eventi o di processi (non si corregge la “fallacia cosale” dilatandola nella “fallacia fattuale”). I processi cerebrali sono ovviamente il supporto della soggettività, così come lo è tutta la sfera corporea. Ma l’identità non è un luogo, non è una porzione del mondo: essa consiste in modi d’essere, dunque è atopos 9.
Si può attribuire una prospettiva modale a Wittgenstein:
“il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo” (1922, 5.632).
“L’io filosofico non è l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite - non una parte del mondo” (ibid., 5. 641).
Non intendo però sostenere che Wittgenstein adotti sempre e coerentemente una prospettiva modale; resta un lavoro enorme da compiere. Resta anzitutto il problema: il soggetto atopos - il limite del mondo - è analizzabile? Ovviamente non è analizzabile come una cosa o un evento o un processo. Ma perché dovrebbe risultare impossibile analizzarlo come modo? Come fonte di giochi linguistici, di regole, ma soprattutto come portatore di stili? Il termine portatore sembra materializzare il soggetto atopos e inserirlo nuovamente nella sfera fattuale e mondana. Ebbene, la possibilità che il soggetto appartenga e nello stesso tempo non appartenga al mondo è una possibilità da esaminare, con gli strumenti di una logica congiuntiva. A questi strumenti si chiederà di liberarci da inutili crampi mentali, senza pretendere nondimeno che essi possano risolvere subito una questione tra le più difficili, che abbiamo già incontrato, e che torna a riproporsi: la mente “modalizzata” non è un contenitore di rappresentazioni, ma può contenere rappresentazioni? Il contenuto di una rappresentazione si risolve interamente nei suoi modi? Domande a cui non si può rispondere sbrigativamente.
Come sempre, le difficoltà vengono ingigantite dagli equivoci. Qui l’ostacolo di un “contenuto” generato dallo stile sembra insuperabile, e certamente lo è se si pensa allo stile come a una “forma”, destinata a delimitare e a racchiudere un contenuto già quasi completamente determinato - un contenuto a cui mancherebbe solo la forma! Ora, in una prospettiva modale le cose nascono dalle frontiere e dalle relazioni, e una frontiera non è un involucro bensì un modo di articolazione. Questo non basta per rispondere alle domande formulate nel paragrafo precedente, ma può aiutarci a non sottovalutare il ruolo del modus nella costruzione del dictum. È necessaria una rivoluzione modale anche per il problema dell’identità.
I “contenuti” vengono resi visibili, o invisibili, dalla scelta di prospettive. Se torniamo a considerare le domande di Parfit, con le quali avevamo iniziato la nostra riflessione, ci possiamo rendere conto dei loro limiti, cioè della parzialità di quella prospettiva: così la distinzione tra identità numerica e identità qualitativa, fondamentale secondo Parfit, presuppone uno spazio separativo. Gli esperimenti mentali di teletrasporto implicano individui già formati, e soprattutto individui che coincidono con se stessi - perciò si pone il problema della loro continuità come persone nel tempo. Ma se si cambia punto di vista, se si considera essenziale la problematica dell’identità come identificazione, se si considerano le persone come individui che non coincidono mai con se stessi 10; se, inoltre, si comprende l’identificazione non solo come un processo temporale (storia delle molteplici forme del diventare-altro), ma come un processo conflittuale, legato essenzialmente a problemi di significato, e se la sfera semantica viene percepita nella sua conflittualità, nell’intreccio e nel dissidio degli stili di pensiero: allora i concetti modali non appariranno più come secondari, esteriori, aggiuntivi, ma come determinanti anche sul piano del contenuto.
Che non si possa prescindere dal modo quando si entra nella dimensione semantica, è una tesi riconoscibile nella moderna filosofia del linguaggio, a partire dalla distinzione tra Sinn e Bedeutung in Frege. Ma il Sinn di Frege o la forma aspettuale di Searle non bastano ad aprire la problematica dei regimi e degli stili. Le differenze tra separativo, confusivo, distintivo non possono emergere dalla differenza tra “la stella del mattino” e “la stella della sera”. Occorre pensare a nuovi tipi di logica, che possono nascere solo dall’analisi di casi che non provengono dal separativo.
La pluralità degli stili non conduce al relativismo e non cancella la distinzione tra lo spazio pubblico del Sinn e quello soggettivo e privato della Vorstellung. Ma è certamente una scissione della sfera pubblica, la rinuncia al luogo in cui verrebbero resi visibili gli universali, il passaggio a una razionalità flessibile - il superamento di quello che è forse il quarto dogma dell’empirismo, la “monotonia” della ragione.
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Note
- Per le nozioni di “logica”, “regime”, “stile” qui utilizzate mi permetto di rinviare a Bottiroli 1997.
- “L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti (der Prozess, der sich seine Momente erzeugt und durchläuft) ...”; “il vero è il trionfo bacchico (der bacchantische Taumel) dove non c’è membro che non sia ebbro ..” (Hegel 1807, pp. 37 e 38).
- Non sempre in egual misura, e non sempre paradossale: correlativi sono anche la metà e l’intero.
- “Si tratta però di pensare sino in fondo quell’essenza conflittuale della verità che da duemilacinquecento anni illumina in segreto tutte le luci” (Heidegger 1942/43, p. 57).
- Per il concetto di “miscela modale”, e per la proposta di una “rivoluzione modale”, mi permetto di rinviare a Bottiroli 1997 e 1998.
- Per quanto riguarda il rapporto tra tecnica e bêtise, mi limito a ricordare un passo di Weber: “per gli ultimi uomini di questa evoluzione della civiltà potrà essere vera la parola: specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore: questo nulla si immagina di essere salito a un grado di umanità, mai prima raggiunto” (1905, p. 306)
- Il soggetto freudiano appare dunque una combinazione - una formazione di compromesso - tra prima e terza persona.
- Hobbes, Leviatano, Parte prima, cap. V, trad. it. Laterza, Bari, p. 36.
- Ho scelto questo termine pensando, fra l’altro, alla figura del filosofo come individuo “che non ha un luogo” , delineata nel Fedro di Platone. Cfr. L’introduzione di Fulvia De Luise, ed. Zanichelli, Bologna 1997, p. 26.
- La distinzione tra “coincidere” e “non coincidere con se stesso” è fondamentale nella teoria del personaggio (e più in generale nella concezione antropologica) di Bachtin.