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Polisemia e teoria dello stile

in “Le immagini della critica” (a cura di Ugo Olivieri), Bollati Boringhieri, Torino 2003

1. È quasi inevitabile, quando si esamina la nozione di “stile”, iniziare con un catalogo delle sue accezioni. Come ha osservato Compagnon,

“Lo stile è lungi dall’essere un concetto puro; è una nozione complessa, ricca, ambigua, molteplice. Invece di spogliarsi delle sue precedenti accezioni man mano che ne acquisiva di nuove, il termine le ha accumulate …” 1.

Assumerò anch’io come punto di partenza un elenco di natura metonimica (lo stile è norma, scarto, ornamento, genere, sintomo, visione, ecc), ma per valutare la possibilità immediata di un distacco, di una rottura epistemologica. Tutto quanto dirò presuppone la mia ricerca precedente 2, ma cercherò di non darla per scontata e nello stesso tempo di ripetermi il meno possibile,per ciò che riguarda le motivazioni del mio progetto.

Una teoria dello stile non può evidentemente appoggiarsi in egual misura a tutte le proposte di definizione storicamente reperibili. Si tratta dunque di selezionare; cioè di scegliere, tra le molteplici accezioni di “stile”, la più promettente, la più feconda, la più plausibile? Io vorrei invece riflettere anzitutto sul significato di termini come molteplicità e polisemia.


2. Se mi rivolgo al pensiero di Aristotele, non è dunque per cercare subito una definizione di stile bensì per indagare il significato della polisemia, una nozione che appare strettamente connessa alla dimensione ontologica: “L’essere si dice in molti modi”, afferma Aristotele (Metafisica, libro IV, 1003 a 33). In questa definizione, l’avverbio pollakòs sembra prefigurare per l’essere (o per l’ente) uno spazio di oscillazione delimitato dalla relazione tra l’uno e il molteplice. Ma si tratta dello spazio “più originario”? L’uno e il molteplice hanno una sorta di precedenza rispetto alle altre proprietà ontologiche?

In tal caso la polisemia andrebbe intesa così: l’identità semantica di un termine consiste nelle sue divaricazioni, nei molti delle sue differenze. Definizione che appare fortemente plausibile, almeno per il senso comune: un termine polisemico – come essere, o stile – raggruppa e accoglie un ventaglio di significati, una serie o un elenco in cui è possibile mettere ordine. Tra la via rigida dell’univocità e quella dispersiva, eccessiva, dell’omonimia, si potrà scegliere e mantenere una via intermedia: così afferma una lunga tradizione di lettura della filosofia aristotelica. Dovremmo però chiederci se questa concezione della polisemia non sia già “stilisticamente determinata”, e se non risulti solidale con un particolare stile di pensiero che chiameremo separativo.

Quale che possa essere la definizione di “stile di pensiero”, non c’è dubbio che lo stile determini i modi della definizione e della predicazione. Dobbiamo allora ampliare il nostro discorso, e passare dalle categorie (cioè dai termini) ai predicabili (cioè ai modi della predicazione, ai tipi di combinazione tra soggetto e predicato). Aristotele ne distingue quattro:

  1. P viene predicato di S convertibilmente ed essenzialmente = l’essenza;

  2. P viene predicato di S non convertibilmente ma essenzialmente = il genere;

  3. P viene predicato di S convertibilmente ma non essenzialmente = il proprio (l’idion) ;

  4. P viene predicato di S non convertibilmente e non essenzialmente = l’accidente.

Si sono così ottenuti quattro tipi di definizione. Ad esempio l’uomo potrà venir definito come “animale razionale” (è l’essenza, la differenza specifica), o semplicemente come “animale” (il genere), o come “capace di ridere” (l’idion), o come “geometra”, ecc (accidente). Questa tipologia non è ancora completa, come vedremo fra poco; ciò che dobbiamo chiederci subito è se una tipologia sia soltanto una molteplicità, una manifestazione organizzata del molteplice.

Penso che una tipologia non costituisca tanto una moltiplicazione quanto piuttosto una divisione dell’uno. Certamente non si può attribuire esplicitamente ad Aristotele questa formulazione; però l’idea della polisemia come “molteplicità divisa”, l’idea che la polisemia non sia semplicemente una omonimia attenuata, mi sembrano idee non estranee allo spirito della filosofia aristotelica in quanto filosofia pluralista.

Non posso approfondire quest’ipotesi sul versante dell’ontologia, e mi concentrerò dunque sul linguaggio, o meglio sul linguaggio-pensiero. Se si prende sul serio il pluralismo aristotelico e la sua regola fondamentale, saper distinguere i diversi significati di una stessa parola (Topici), non apparirà illegittima una lettura pluralista delle forme di intelligenza – e forse neanche l’ipotesi che in Aristotele sia presente, benché non tematizzato, il nesso tra intelligenza e stile: se il pensiero si dice in molti modi, e gli stili sono per eccellenza modi, allora la nozione di “stile di pensiero” deve essere presente nel progetto aristotelico. Per individuarla, bisogna però riconoscere a tale progetto l’orizzontalità che generalmente le viene negata.

Orizzontalità vuol dire:

  1. che esiste una pluralità di standard per valutare il rigore dei differenti discorsi. Secondo Aristotele “è proprio dell’uomo colto cercare per ciascun genere tanto rigore (akribes) quanto ne permette la natura della cosa, poiché sembrano essere la stessa cosa il pretendere discorsi persuasivi da un matematico e il richiedere dimostrazioni da un retore” (Etica Nicomachea, I 3, 1094b 23-27); è troppo azzardato mettere in relazione questo passo con l’osservazione di Wittgenstein, per cui “in momenti diversi sono diversi i nostri ideali di esattezza”, e soprattutto “nessuno di essi è il supremo? 3;
  2. che la tripartizione analitica, dialettica, retorica non va intesa come una gerarchia rigida. In particolare, la dialettica non è solo un’analitica più debole, meno certa. Il grado di certezza di un ragionamento non è l’unico criterio per misurarne la validità. La dialettica per Aristotele non è solo la logica del probabile; essa è l’arte di affrontare la polisemia, e corrisponde alla capacità di riconoscere (o inventare) divisioni tipologiche 4. La polisemia dell’essere – il più difficile dei problemi – viene indagata dalla dialettica, non dall’analitica;
  3. anche la tipologia delle definizioni non va interpretata con il criterio dell’indebolimento progressivo. La definizione dell’essenza (genus proximum, differentia specifica) è soltanto un tipo di definizione, benché la propensione alla rigidità nella tradizione filosofica abbia fatto sì che venisse presentata come la definizione per eccellenza. A conferma di ciò si noti l’eterogeneità della tipologia aristotelica: mentre l’essenza, il genere e l’accidente indicano aspetti dell’ente che appartengono alla sfera dell’effettualità, l’idion si colloca in un’altra dimensione modale, quella del possibile.

La sterilità e l’immobilità della definizione essenzialista vengono clamorosamente contrastate dal pluralismo dell’idion; già in Aristotele il “proprio” dell’uomo è più di uno, poiché all’animale razionale vengono attribuite sia la capacità di ridere sia quella di imparare la grammatica. Successivamente, lo spazio dell’idion non ha fatto che arricchirsi. Si può dire che ogni grande autore abbia aggiunto una sua definizione per ciò che concerne l’idion dell’uomo, individuandone la peculiarità nel privilegio dell’assurdo (Hobbes), nella nevrosi (Freud), nella festa (Bachtin), ecc. Sino a proporre una trasformazione dell’essenza in idion: “intendo confutare la falsa definizione dell’uomo come animal rationale e dimostrare che esso può essere soltanto rationis capax”, così scrive Swift a Pope; lettera del 29 settembre 1725). Per Swift, la ragione appartiene alla dimensione del possibile, non a quella dell’effettuale.

3. Dunque la polisemia non è un’omonimia indebolita – è un’altra cosa. E la dialettica come arte distintiva, come capacità di scindere i diversi significati senza allinearli semplicemente in una serie metonimica, ma introducendo “differenze di famiglia”, non è una forma inferiore di analiticità – è un tipo di razionalità, è uno stile di razionalità del tutto diverso.

Possiamo ora riproporre l’interrogativo sulla coppia “uno/molteplice”: questa coppia merita il primato che tante volte le è stato conferito? O non si deve riconoscere un ruolo altrettanto importante, nel processo di differenziazione e di articolazione dell’uno, al principio della divisione? Quando viene interpretata nella prospettiva del molteplice, la polisemia è soltanto un’omonimia controllata, messa in forma di elenco; è un’orizzontalità inerte. Quando viene interpretata nella prospettiva del diviso, la polisemia si scinde in diverse famiglie di significati e, soprattutto, diventa la premessa a distinzioni ulteriori (ad esempio, la differenza modale tra l’idion e gli altri predicabili). Nella teoria aristotelica della polisemia dell’essere il principio di divisione contrasta quella di molteplicità: se non teniamo conto di questo conflitto, l’”unità dei molti” – cioè la tesi secondo cui il senso dell’essere non si dissolve in un pulviscolo omonimico – è destinata a restare misteriosa; anzi, non indagabile.

4. Torniamo alla nozione di stile. Una nozione molteplice, senza dubbio, ma anche una nozione divisa. Lo stile si dice in molti modi – definizione che sembra produrre una moltiplicazione vertiginosa non appena la trasformiamo in “il modo (il come) si dice in molti modi”. Alla teoria spetta il compito di scindere la serie delle possibilità e degli usi, e di indicare le differenze principali.

Dovremmo aver imparato che è bene non avere fretta nel costruire una definizione, sia perché ne esistono diversi tipi, e niente ci obbliga a puntare subito verso la definizione essenzialista, sia perché le possibilità indicate da Aristotele non coprono forse tutto il campo. In effetti è così: essenza, genere, idion, accidente, sono procedimenti che appartengono alla via “letteralista” e tendono a farci dimenticare l’altra grande via del linguaggio, quella “figurale”. Aristotele sa che la metafora è un tipo di definizione, oscillante tra il persuasivo e il cognitivo; tra gli esempi citati nella Retorica e nella Poetica troviamo sia enunciati di manipolazione (i ladri si autodefiniscono approvvigionatori; ecco un caso di persuasivo letterale) sia enunciati che nascono da quella particolare forma di intelligenza che consiste nel cogliere somiglianze non banali: “un arbitrio è un altare” viene apprezzato da Aristotele come un enunciato che individua una somiglianza (presso entrambi si rifugia chi richiede soccorso).

Che il linguaggio sia diviso originariamente tra letteralismo e figuralismo, che esso contempli le due possibilità senza gerarchizzarle, è un punto fondamentale per la teoria dello stile; tuttavia questa concezione è ancora inadeguata. Bisogna dunque chiedersi perché gli autori che l’hanno sostenuta, magari estremizzandola sino a affermare l’originarietà del figurale e la derivatezza del letterale (si pensi a Vico o a Nietzsche), non abbiano saputo svilupparla, e perché dalle loro opere non sia facile estrarre, se non attraverso una lunga elaborazione, le indicazioni che stiamo cercando. Di una cosa siamo convinti: che nella polisemia dello stile il principio della divisione debba contrastare e piegare quello del molteplice. È per questo motivo, e procedendo in questa direzione, che abbiamo discusso la nozione di “polisemia”. Ma non abbiamo proceduto abbastanza: oltre ad applicare il principio delle “differenze di famiglia” ad ogni nucleo polisemico, dobbiamo provare a scindere l’idea stessa di “significato”.

La differenza da indagare non è una differenza tra tipi bensì una differenza tra stili (infatti tipi diversi possono essere accomunati da un medesimo stile). Dunque, che cosa si deve intendere con stile semantico o stile di significato? La risposta può essere cercata solo nelle opere d’arte – in che senso e con quale legittimità si possa parlare di stile per un oggetto quotidiano o per un modo di agire, lo si discuterà in seguito).

Vorrei essere ancora più chiaro nell’enunciare le mie intenzioni: mentre, negli anni Cinquanta, Ullmann poteva scrivere che “La sinonimia, nel senso più ampio, si trova alla radice di ogni problema di stile” 5, io affermo la necessità di pensare la polisemia – di approfondire l’idea di una polisemia divisa. Cercherò adesso di illustrare il mio progetto con un esempio, tratto da Conrad.

In Heart of Darkness il termine meaning ricorre più volte; quasi all’inizio il narratore dice:

“The yarns of seamen have a direct simplicity, the whole meaning of which lies within the shell of a cracked nut. But Marlow was not typical (if his propensity to spin yarns be excepted), and to him the meaning of an episode was not inside like a kernel but outside, enveloping the tale which brought it out only as a glow brings out a haze, in the likeness of one of these misty halos that sometimes are made visible by the spectral illumination of moonshine”6.

L’aggettivo misty è fondamentale per un’interpretazione dell’intero racconto, e non solo di questo passo; posso soltanto accennare qui all’importanza dell’isotopia del “nebbioso” in un racconto africano, in cui il clima torrido genera a un certo punto un involucro da cui l’imbarcazione che si trascina faticosamente verso Kurz – uno steamboat paragonato a un barattolo di biscotti vuoto preso a calci lungo un rigagnolo (an empty Huntley & Palmer biscuit-tin kicked along a gutter ) 7 – viene completamente avvolta: “When the sun rose there was a white fog, very warm and clammy, and more blinding than the night8.

L’immobilità viene interrotta da “un urlio lamentoso, modulato in dissonanze selvagge”; “fu come se la nebbia stessa avesse urlato”, commenta il narratore. E mentre queste urla inarticolate si spengono, è l’intera realtà che sembra disfarsi:

“What we could see was just the steamer we were on, her outlines blurred as though she had been on the point of dissolving, and a misty strip of water, perhaps two feet broad, around her – and that was all. The rest of world was nowhere, as far as our eyes and ears were concerned. Just nowhere. Gone, disappeared; swept off without leaving a whisper or a shadow behind” 9.

Di solito le storie d’avventura si svolgono in mondi separativi, dove gli individui e gli oggetti possiedono solidità di confini; il viaggio di Marlow è invece un viaggio nell’informe, nell’inarticolato, nel confusivo: a provocarlo è stata l’attrazione di un blank space, il moto di avvicinamento consiste nello scivolare lungo una costa “quasi senza fattezze (almost featureless), come se fosse ancora in via di formazione” 10; il viaggio procede verso l’inconsistente, verso il vuoto, ed è grazie al ritrovamento di un vecchio libro – un manuale, dunque un libro che nomina le cose, che discorre di catene e di paranchi – che il narratore prova la deliziosa sensazione di essersi finalmente imbattuto in qualcosa di indiscutibilmente reale (something unmistakably real); si noti però che le condizioni di usura del libro costringono Marlow a maneggiarlo con estrema delicatezza, “per paura che mi si dissolvesse tra le mani (lest it should dissolve in my hands)” 11 .

Tutto questo suggerisce alcune domande: quand’è che il mondo inizia o smette di esistere? Il mondo può esistere senza linguaggio? In Essere e tempo, Heidegger formulava così il problema: le leggi di Newton erano vere prima di Newton? 12

Ebbene, il linguaggio non crea il mondo, come lo creerebbe dal nulla una divinità – però lo fa essere. Quando parliamo di “realtà”, noi intendiamo qualcosa che è provvisto di un nome; la realtà che sfugge o si sottrae alla dominazione è il reale (Lacan). Ma il linguaggio esercita la sua funzione demiurgica e articolatoria in diversi modi, e questi modi sono stili (o famiglie di stili). L’essere è modo.


5. Quando un marinaio racconta, il significato della sua storia sta tutto dentro un guscio di noce: potremmo dire che viene “veicolato” dal contenitore dentro cui si trova e che, per comprendere questo significato nella sua direct simplicity, è sufficiente aprire il guscio. Che cosa accade invece al significato che, in racconti come quelli narrati da Marlow, si trova fuori? L’opposizione “dentro/fuori” non deve fuorviarci: ciò che importa è la diversa strutturazione del significato, racchiuso, conchiuso e ben delimitato nel primo caso, disperso e diffuso ma non dissipato nel secondo. Mentre ciò che si trova all’interno di un guscio di noce ha una forma precisa, e può essere ancora spezzettato, un alone luminoso fa resistenza alle possibilità di segmentazione. L’opposizione “dentro/fuori” va dunque riletta come opposizione tra il “discreto” e il “continuo”. L’essenziale sta nel modo di articolazione. Ma supponiamo che all’interno del guscio di noce vi sia un contenuto poco strutturato: non è forse a questo tipo di contenuto che pensa Hitchcock quando parla di un “MacGuffin” come di un trucco, un espediente, la cui funzione è puramente narrativa? La pianta di una fortezza, una formula segreta, un campione di uranio nascosto in una bottiglia di vino – “La cosa non è importante in se stessa e i logici hanno torto a cercare la verità nel Mac Guffin”; le “carte”, i “documenti”, i “segreti” sono estremamente importanti per i personaggi della storia, ma non sono di nessun interesse per il narratore 13 (e neanche per il lettore o lo spettore) .

La descrizione di ciò che è contenuto nel guscio di noce può essere ridotta al minimo; in fondo, ci basta sapere che c’è un oggetto bramato da individui che tentano di impadronirsene. Parlo di “bramosia” e non di desiderio perché il desiderio, nella sua accezione più corretta ed estrema, si rivolge a oggetti paradossali, a oggetti divisi, e non a oggetti-cose, a semplici presenze. L’oggetto del desiderio di Marlow, in Heart of Darkness, non è un Mac Guffin: il desiderio di Marlow è tutto rivolto a Kurz, e non a Kurz come a un individuo narratologicamente “portatore di azioni”, bensì all’essere di Kurz, alla sua “nebbiosa” identità. Quando lo insegue, dopo che Kurz è fuggito dall’imbarcazione, Marlow lo vede sorgere improvvisamente “unsteady, long, pale, indistinct, like a vapour exhaled by the earth … misty and silent before me14. Nel personaggio di Kurz, così come in tutto il racconto di Conrad, assistiamo a un conflitto tra regimi di senso (in Kurz il confusivo si è impadronito del separativo, e lo ha messo al proprio servizio); ma nel racconto di Conrad vi è anche il conflitto tra Kurz e Marlow: Marlow interpreta un terzo regime, che tenta di sottrarsi all’orribile eloquenza dell’inarticolato (l’eloquenza dei riti innominabili), e che agisce con le metafore. È grazie all’azione terapeutica delle metafore, che Marlow intraprende la via del ritorno.

6. L’opera d’arte è costituita anzitutto da una scissione tra il fattuale e il semantico: questo ci dice Conrad quando distingue il significato contenuto in un guscio di noce, e il significato che splende come un alone. Chiamo fattuale il livello narrativo in quanto composto di azioni e di fatti non perché sia totalmente privo di significati, ma perché esso contiene solo significati “cosali” o “evenemenziali” (si potrebbe anche parlare di significati “funzionali”, pensando che la definizione di martello, ad esempio, consiste nella spiegazione del suo uso). Lo schema compositivo unitario di Propp è chiaramente un modello fattuale della narrazione, il che non esclude – come è stato mostrato da certe interpretazioni psicoanalitiche della fiabe - che anche nell’universo folclorico esistano testi divisi.

Determinante per l’identità dell’opera d’arte è anche una seconda scissione, quella tra stili semantici: sto parlando di una “scissione congiuntiva”, poiché i regimi di senso sono intrecciati nel loro conflitto. Quanto alla teoria degli stili, essa deve assumersi il compito di descrivere l’opera d’arte nella complessità del suo funzionamento. Bisognerà chiedersi, ad esempio, se fattuale e separativo coincidano: credo di no, e che esista anche un “confusivo fattuale”, in cui le azioni si esprimono essenzialmente come scariche di energia, come pulsionalità che si avventa contro il mondo delle forme (la possibilità, quantomeno, di una mescolanza tra regimi semantici all’interno del fattuale andrà attentamente considerata nelle narrazioni in cui, per usare i termini di Freud, l’energia “si slega” e i processi primari sommergono i processi secondari).

La teoria dello stile esige una netta distinzione tra opera in senso istituzionale (un brutto romanzo è pur sempre un romanzo, dice tra gli altri Genette) e opera d’arte: un brutto romanzo non appartiene evidentemente alla sfera estetica. Il contrasto che stiamo delineando tra il punto di vista della letteratura come istituzione e quello della letteratura come attività estetica ci offre l’occasione per considerare una proposta di definizione dello stile, a cui alcuni studiosi guardano con molto interesse: discuteremo perciò la proposta di Goodman.

7. Perché un brutto romanzo è pur sempre un romanzo? Perché esso esemplifica le proprietà fondamentali di quel genere letterario che chiamiamo romanzo. Ecco la nozione-chiave di Goodman: lo stile come esemplificazione.

Questa nozione riveste grande importanza, agli occhi dello stesso Goodman, che l’ha elaborata, e dei suoi estimatori, in quanto conferisce credibilità e solidità al nesso tra arte e conoscenza. Secondo la teoria tradizionale, a cui Goodman non aderisce interamente ma che discute e critica con molta cautela, dove c’è conoscenza ci dev’essere riferimento: e quando si parla di riferimento, s’intende la relazione tra un’espressione linguistica e una porzione del mondo esistente. La conoscenza è un’attività che si svolge all’interno dell’effettuale.

Tuttavia – e questa è la novità più rilevante del pensiero di Goodman - il riferimento non coincide con la denotazione, cioè con la relazione tra espressioni come gatto, tavolo, presidente della Repubblica francese, e gli individui (o gli insiemi di individui) che tali espressioni permettono di identificare. Si può far riferimento anche nel modo dell’esemplificazione: per esempio, in un determinato contesto, un pezzetto rettangolare di stoffa verde esemplificherà la proprietà “verde”, ma non le altre proprietà che esso possiede – tranne che qualcuno sia interessato alla forma geometrica, anziché al colore, di quel campione di stoffa. Inoltre l’esemplificazione può essere letterale oppure metaforica (figurale): un quadro esemplifica letteralmente le scelte cromatiche che lo costituiscono, mentre fornirà un’esemplificazione metaforica di una qualità come la “tristezza”. L’esemplificazione figurale viene chiamata da Goodman espressione.

Vi sono dunque tre tipi di riferimento: denotazione, esemplificazione ed espressione. Osserva ancora Goodman: “L’esemplificazione, sebbene sia una delle funzioni più frequenti e importanti in un’opera d’arte, è quella a cui si fa meno attenzione e che è stata meno compresa” 15. Eppure è proprio mediante questa nozione che si potrebbe chiarire lo statuto dello stile. Dobbiamo cercare adesso di capire come lo stile si manifesti nell’opera.

Lo stile è per Goodman un insieme di tratti, che tendono a venire percepiti globalmente “come una firma individuale o collettiva” 16. Tuttavia, precisa il filosofo americano, “pur essendo uno stile metaforicamente una firma, una firma letterale non è un tratto dello stile”. Non c’è nulla di paradossale in questa posizione: lo stile è un insieme di tratti, ma un tratto è “stilistico” solo se esemplifica il funzionamento simbolico dell’opera (e non una qualsiasi proprietà oggettuale che l’opera possiede) 17. Resta fondamentale, per Goodman, l’idea dello stile come insieme di tratti o proprietà.

Parlerò dunque di concezione proprietaria per indicare una concezione che trova la sua origine e il suo sostegno nelle ovvietà del pensiero quotidiano, non problematizzate né dalla metafisica in senso stretto né dall’empirismo (che spesso è solo una versione indebolita e accorciata della metafisica) 18. In questa prospettiva l’opera d’arte è un oggetto fornito di proprietà. E nonostante gli sforzi per riconoscerle un potere di “trascendenza” nei confronti del piano meramente oggettuale 19, l’opera viene sostanzialmente intesa come un luogo di convergenza: come un ente descrivibile in maniera adeguata con la relazione tra l’uno e il molteplice. È questa la profonda solidarietà tra Goodman e la tradizione metafisica: l’opera è un oggetto provvisto di molteplici qualità, non tutte egualmente significative dal punto di vista stilistico.

A che cosa serve riconoscere tali qualità o caratteristiche?

“In primo luogo una proprietà … vale in quanto stilistica (a property counts as stylistic) solo se associa un’opera con un artista, un periodo, un ambiente, una scuola e non con un altro artista o periodo e un altro ambiente o un’altra scuola (…)
ma in generale le proprietà stilistiche (stylistic properties) ci aiutano a rispondere alle domande: chi? quando? dove?” 20.

I tratti stilistici per Goodman sono dunque semplicemente degli stilemi, e non gli indizi della conflittualità interna all’opera d’arte. È vero che Goodman rifiuta di intendere gli aspetti stilistici solo come “strumenti per lo storico della letteratura e dell’arte”, come “dispositivi accademici per classificare le opere in base alla loro origine”. Ma se gli stili non sono semplicemente “strumenti d’archivio”, è perché le conoscenze che permettono di individuare un’opera d’arte hanno delle conseguenze anche sul piano estetico: esse ci informano sul modo in cui l’opera deve essere guardata, ascoltata o letta” 21. A ben vedere, tutto ciò è abbastanza ovvio: senza dubbio, saper distinguere i modi in cui il pittore X e il pittore Y disegnano le orecchie o le unghie dei piedi ci aiuta non solo a distinguere un’opera, in quanto opera dell’uno o dell’altro, ma anche a focalizzare un aspetto dei loro differenti stili. E tuttavia restiamo pur sempre all’interno di una concezione estetica proprietaria.

C’è ancora un punto che merita di venir discusso. Non ho ancora considerato, infatti, quello che potrebbe essere l’obiettivo principale di Goodman; il suo articolo del 1978 si apre con quest’affermazione:

“Fin troppo ovviamente, il soggetto è quel che si dice, lo stile è il come (subject is what is said, style is how). Ma appunto fin troppo, in quanto la formula è in gran parte sbagliata” 22.

Questo punto viene poi ribadito:

“Il mio proposito non era di prescrivere un sistema elaborato e rigoroso di classificazione relativo ai tratti stilistici (features of style), ma piuttosto di liberare la teoria dello stile dai vincoli deformanti di un dogma dominante – dall’opposizione fuorviante tra stile e soggetto, tra forma e contenuto, tra ciò che è, e il modo in cui qualcosa è …” 23.

Non credo che la teoria dello stile a cui sto lavorando sia seriamente minacciata dalla severità di quest’attacco. Qui Goodman fa confusione, omologando la distinzione “stile/soggetto” a “forma/contenuto”. Ma la forma può venir opposta al contenuto – e così accade tradizionalmente – solo in virtù di una “fallacia cosale”: solo se la forma viene immaginata come un involucro, un contenitore o un veicolo (concezione plausibile sole per quei racconti che il lettore comprende nella loro direct simplicity). Far corrispondere stile/soggetto a “forma/contenuto” equivale a un fraintendimento completo della problematica che il termine stile consente di introdurre. Con più precisione, andrà osservato che la distinzione tra stile e soggetto rende subito palese il fraintendimento; la verità è un’altra: in quanto modo, lo stile non è pensabile se non come “soggetto modalizzato”. L’idea di un “soggetto” anteriore o separato dallo stile – che lo avvolgerebbe o lo includerebbe, come il guscio di una noce contiene il gheriglio – è la vecchia idea dello stile: l’idea dello stile indiviso.

8. Tutto questo non ci fa ripiombare nel problema “se si possano usare modi diversi per dire la stessa cosa, o se la diversità dei modi non generi inevitabilmente cose diverse”. Non si tratta più di discutere la nozione di “sinonimia” (nozione sospetta, dice Goodman, perché non ci sono due termini che abbiano esattamente lo stesso significato), e neanche di apprezzare o meno la soluzione dello stesso Goodman, il quale non trova di meglio che introdurre un “quasi” – attenuando così la radicalità delle alternative: “È del tutto chiaro che ci sono spesso maniere molto diverse di dire quasi proprio le stesse cose” 24.

Soluzione francamente modesta 25. Come sempre, la via dell’attenuazione e dell’indebolimento rivela solo l’incapacità di affrontare un problema con i mezzi – eventualmente ancora da costruire – della teoria. La questione dello stile, come si è già detto, va impostata a partire dalla polisemia, e non dalla sinonimia: da una polisemia scissa, in quanto si sottrae al dominio dell’uno e del molteplice.

Lo stile è il linguaggio diviso, e non un insieme di stilemi. Tra le divisioni che la teoria dello stile introduce nell’idea tradizionale di linguaggio, vi sono quelle del significato: non divisioni o distinzioni tra livelli (o tipi), bensì tra modi. Questi modi sono i regimi di senso, che sono conflittualmente divisi e che solo in rapporto ai testi più semplici possono venir ricondotti a una tassonomia; la loro vocazione estrema, infatti, è il “labirinto di nessi” che costituisce l’opera d’arte 26.

Note

  1. A. Compagnon, Le démon de la théorie. Littérature et sens commun, 1998 (trad. it. Einaudi, Torino 2000, p. 188.
  2. Mi permetto di rinviare a Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1993 e a Teoria dello stile, La Nuova Italia, Firenze 1997.
  3. L. Wittgenstein, Pensieri diversi.
  4. Per Aristotele “il vero metodo della ricerca, cioè la via attraverso la quale si perviene alla conoscenza, in particolare alla scoperta della definizione”, è la dialettica. Secondo Enrico Berti, questa tesi è ormai largamente condivisa dagli specialisti (Introduzione a Aristotele, Laterza, Bari-Roma 1997, p. 41).
  5. S. Ullmann, Style in French Novel, Cambridge U.P, Cambridge 1957, p. 6.
  6. “I racconti dei marinai hanno una semplicità diretta, il cui significato sta tutto dentro un guscio di noce. In questo, però, Marlow non era tipico (ove si eccettui la propensione a raccontare storie): per lui il significato di un episodio non stava all’interno del guscio come un gheriglio, ma al di fuori, avvolgendo il racconto che lo generava come un bagliore genera tutt’attorno a sé una zona di penombra, al modo di quegli aloni nebulosi che rende talvolta visibili la spettrale luminescenza della luna” (trad. it. in J. Conrad, Heart of DarknessCuore di tenebra, Einaudi, Torino 1999, p. 11).
  7. Ibid., p. 89.
  8. “Al sorger del sole ci trovammo avvolti da una nebbia bianca, calda e appiccicosa, ancor più accecante dell’oscurità notturna” (trad. it. p. 123).
  9. “Non si vedeva altro che il battello sul quale eravamo, dai contorni indistinti come fosse stato sul punto di dissolversi, e una striscia nebbiosa d’acqua all’intorno, larga non più di quattro spanne – e questo era tutto. Il resto del mondo non esisteva più, per lo meno a giudicare dalla vista e dall’udito. Non esisteva più. Svanito, scomparso, spazzato via senza lasciare un’ombra o un sospiro dietro di sé” (trad.it. p. 125).
  10. Ibid., 35.
  11. Ibid., pp. 117-119.
  12. M. Heidegger, Sein und Zeit, 1927 (trad. it. Longanesi, Milano, pp. 344-sgg. ).
  13. F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, trad. it. Pratiche, Parma 1977, pp. 115-116 e 141.
  14. “lungo, malfermo, pallido, indistinto, simile a un vapore esalato dalla terra; e rimase lì, nebuoso e silenzioso, vacillando leggermente davanti a me” (ibid., p. 207).
  15. Lo statuto dello stile, in Ways of Worldmaking, 1978 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1988, p. 37).
  16. Ibid., pp. 39-40.
  17. Ibid., p. 41.
  18. In prima istanza l’empirismo di Goodman, il suo rifiuto dei “doppi” metafisici, dimostra solo che l’antiplatonismo è una metafisica “dimezzata”. Niente di meno, ma neanche niente di più.
  19. Cfr. G. Genette, L’oeuvre de l’art, .
  20. Ibid., pp. 39-40.
  21. Ibid., pp. 44-45.
  22. Ibid., p. 27.
  23. Ibid., p. 39.
  24. Pretty clearly there are often very different ways of saying things that are very nearly the same” (trad. it. ibid., pp. 28-29).
  25. Non è questa l’opinione di Compagnon: “Il filosofo Nelson Goodman ha risolto l’aporia con una semplicità e un’eleganza stupefacenti – è un po’ come l’uovo di Colombo, bastava pensarci … ciò porta a sostituire al principio manifestamente troppo ingenuo e insufficiente: ci sono più modi per dire la stessa cosa, un’ipotesi più liberale e ponderata: ci sono modi molto diversi per dire più o meno la stessa cosa” (Il demone della teoria, cit., pp. 205-206). Di stupefacente qui, a mio avviso, c’è solo l’entusiasmo di Compagnon.
  26. L’espressione è di Tolstoj.