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Introduzione alla logica scissionale (congiuntiva)

Relazione al "Seminario sui paradossi", Università di Urbino, maggio 2006

In “Paradoxes”, a cura di Stefano Arduini, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2011

1. E' possibile fornire una definizione unitaria dei paradossi, individuarne il meccanismo comune, ricondurli a un'unica fallacia? Ci sono almeno due motivi per negare questa possibilità: anzitutto, non è certo che si possa riconoscere un meccanismo comune, restando all'interno della logica separativa o disgiuntiva; ma - e questo secondo motivo è assai più rilevante - perché lo spazio linguistico (forse anche percettivo e fisico) dei paradossi deve venire esplorato dal punto di vista del pluralismo logico. Con questa espressione non intendo semplicemente la varietà dei tipi (logica bivalente, polivalente, deontica, temporale, fuzzy, ecc.): tutti questi tipi sono accomunati dalla medesima identità stilistica; compongono la famiglia delle logiche separative. Le loro differenze non vanno trascurate, ma si ridimensionano non appena si considera un'altra possibilità, quella delle logiche congiuntive. Un ridimensionamento formidabile, anche se le differenze separative non collassano. Nasce allora la domanda: una logica congiuntivaè davvero possibile?

La sua legittimità è già stata implicitamente rivendicata, per esempio da Hegel, dalla tradizione dialettica, da Heidegger; questa logica è stata 'messa in pratica', e il suo funzionamento è percepibile in alcuni tra i più grandi testi della filosofia occidentale. Che essa sia in qualche modo percepibile o riscontrabile, lo confermano le stesse reazioni di ripulsa: l'oscurità e la confusione che guasterebbe senza rimedio le opere di Hegel o di Heidegger non sono forse la conseguenza, agli occhi dei filosofi separativi (Russell, Carnap, ecc.), del loro stile di pensiero? Sta di fatto che la logica congiuntiva non è mai stata portata a trasparenza da nessuno dei suoi interpreti. Quali sarebbero i suoi principi, i meccanismi, le regole di inferenza? E perché è così difficile affrontare queste domande? Se la difficoltà non esistesse, e in misura tale da indurre anche grandi pensatori a differire un'impresa ormai non più differibile, non ci troveremmo così disarmati di fronte alle logiche separative, a quegli stili logici i cui limiti sono evidenti, fastidiosi e inaccettabili - per chi non potrebbe mai condividerne l'unilateralità.

Portare a trasparenza il funzionamento della logica congiuntiva è un'impresa non più differibile. Non per ridurre o attenuare la distanza tra diverse tradizioni logico-filosofiche ma per mostrare la legittimità e la fecondità del loro dissenso; e per difendere la novità del 'pensiero diviso' che rischia di venire inghiottito dalle ovvietà di opposizioni più vicine alla mentalità quotidiana, e in particolare dalle oscillazioni tra l'Uno e il Molteplice.

 

2. Bisogna infatti evitare un primo equivoco: la logica congiuntiva non insiste unilateralmente sui legami, sui vincoli, insomma su forme di unità che scavalcano e aboliscono differenze e contrasti. La logica congiuntiva è una logica scissionale, e non sintetica. Perciò questo saggio non rinuncia a mettere in evidenza, già nel titolo, il nesso tra scissione e congiunzione. 1

Da questo nesso paradossale derivano, immediatamente e sia pure, per adesso, soltanto sul piano intuitivo, conseguenze di grande rilievo. Se esistono scissioni congiuntive, esisteranno anche congiunzioni separative. Perciò il significato di termini come distinzione, scissione, congiunzione, potrà venir compreso solo in riferimento al conflitto tra stili di pensiero. Cominciamo a precisare questa prospettiva.

Ogni stile introduce delle articolazioni. Ogni stile articola diversamente il flusso del linguaggio-pensiero.2Articolare significa 'distinguere': e poiché vi sono articolazioni di tipo diverso, una distinzione potrà essere separativa oppure congiuntiva. Le distinzioni separative chiudono gli individui e gli oggetti nelle loro frontiere, anche quando indicano rapporti di solidarietà, di forte somiglianza, o di interdipendenza. Per esempio, automobili della stessa marca e dello stesso tipo (con i medesimi optional e il medesimo colore, ecc.) restano perfettamente distinguibili; l'identità di Luca non viene incrinata dal fatto di essere fratello di Gabriele, anche se 'fratello di' è una relazione e non una proprietà; e così via. Nell'ambito delle distinzioni separative, l'identità numerica consente sempre di contare e di separare, insomma di non creare confusioni; e quando nasce una confusione, a proposito di una persona o di un oggetto, è sempre possibile dissolverla interamente.3 Non sembra esagerato affermare che tutte le distinzioni che riguardano l'identità ruotano, nel regime separativo, intorno all'identità numerica. Le distinzioni congiuntive, invece, sono fondate su relazioni di reciprocità in modo diverso: non che l'identità numerica venga meno; tuttavia la sua importanza viene drasticamente ridimensionata. Ci si accorge allora di dover ridefinire la nozione di 'identità' in modo intrinsecamente relazionale: l'identità congiuntiva è un'identità flessibile.

Nel regime congiuntivo l'opposizione tra rigidità e flessibilità sovrasta tutte le altre. Ma non anticipiamo troppo: questi chiarimenti preliminari sono sembrati necessari per far intuire la complessità dei problemi; ripartiamo ora dai fenomeni di 'congiunzione' che si manifestano nei paradossi.

 

3. Per molti autori, sono proprio a paradossi a offrire la migliore delle conferme all'ineludibilità e alla superiorità del pensiero separativo. Se svaniscono le garanzie che soltanto questo tipo di pensiero può fornire, nulla salus: al di là, inizia un territorio malsicuro, dove i più ambiziosi e apparentemente più solidi progetti di coerenza sono destinati a cadere in qualche imboscata mortale; un territorio non completamente bonificabile, e nel quale peraltro non ogni anomalia è pericolosa; con un'esperienza adeguata, sarà possibile riconoscere i vuoti e le fenditure in cui si potrebbe sprofondare; e se i viaggi all'esterno continuano a presentare dei pericoli, resta tuttavia la possibilità di costruire un territorio impenetrabile agli errori logici, e dal quale, in ogni caso, ogni eventuale errore potrà essere prima o poi espulso. Il lettore riconoscerà senza fatica, in questa descrizione, il programma di riforma del linguaggio naturale inaugurato da Frege. Com'è noto, l'obiettivo di questo programma, cioè la parafrasi del linguaggio naturale in un linguaggio che ne chiarisca e ne mostri la vera forma logica, è stato sviluppato in due versioni divergenti ma sostanzialmente parallele: per alcuni, la parafrasi consisterebbe in una riformulazione che non esautora completamente il modo di esprimersi ordinario, per altri, invece, sarebbe necessario un esercizio di correzione sistematica.4 Comunque sia, un filosofo separativo è facilmente riconoscibile per l'atteggiamento con cui giudica i paradossi: errori, sofismi, nodi da sciogliere e che, una volta sciolti, non potranno più riannodarsi o ripresentarsi.

Tale atteggiamento è coerente con la rigidità di questo stile di pensiero: qualunque violazione delle frontiere, che sono 'buone separazioni', è uno scivolamento nel confusivo - non è così che bisognerebbe chiamare il pensiero congiuntivo? Chi non si riconosce nella concezione separativa, chi ne diffida o ne è infastidito, proverà allora la tentazione di andare alla ricerca di paradossi insolubili; è possibile che ve siano, e che li si possa indicare come un limite alla hybris separativa. A ben vedere, però, la scoperta di paradossi insolubili costituirebbe un magro risultato (come lo sono tutti gli esiti difensivi o, direbbe Nietzsche, reattivi). Ciò che sarebbe davvero importante è un'altra cosa: scoprire che, accanto ai paradossi incatenati, ve ne sono altri di cui va riconosciuta la legittimità e la fecondità. Esiste, o potrebbe esistere, un modo di pensare in cui le catene non sono catene, non sono vincoli che rallentano o fanno incespicare, bensì il supporto e la condizione per movimenti più agili, vietati al pensiero separativo? "Danzare è un errore, limitiamoci a camminare": non sarà questa, in ultima istanza, la prudente fallacia del pensiero disgiuntivo?

 

4. Abbiamo intrapreso, a quanto sembra, una 'lettura sintomale' dei paradossi ma anche dei modi per affrontarli. Che cosa mostrano o rivelano, sintomalmente, i paradossi? L'imperfezione del linguaggio ordinario? Confusioni, aporie, malattie, da cui ci si può peraltro difendere costruendo un linguaggio in grado di non ingannarsi mai sulla propria forma logica? Oppure un insieme di legami che soltanto in alcuni casi può essere indagato con successo dalla logica separativa? Ma per dare forza a questa ipotesi dovremo ampliare l'elenco dei casi paradigmatici, trovare dei casi genuinamente 'congiuntivi': situazioni in cui l'intervento delle procedure separativi risulti non impossibile - purtroppo, in un ambito di flessibilità come è il linguaggio, la cattiva rigidità è sempre possibile - ma sterile, miope, se non addirittura stupido.

Ciò che va dunque rifiutato è l'addomesticamento preliminare del problema. Dove cercare però casi paradigmatici, tali da rendere evidente il fallimento di un certo tipo di parafrasi logica? Ad esempio, in un linguaggio che il programma di ricerca inaugurato da Frege ha svalutato, esiliandolo nella sfera delle emozioni; un linguaggio dimenticato, persino come oggetto di critica e di correzione.

Ha scritto Wittgenstein: "Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano".5 Che qui si dichiari la rinuncia alla ricerca di una lingua artificiale, disastrosamente impoverita dal proprio ideale igienico, è senza dubbio un fatto di grande rilievo; ma non basta. E' l'alternativa enunciata da Wittgenstein che appare inaccettabile. Contro di essa, dunque, si dovrà dire, parodisticamente: "Noi intendiamo riportare le parole, dal loro impiego nella metafisica oppure nella quotidianità, indietro, fino alla dimensione estetica. Vogliamo guardare e giudicare ogni linguaggio dal punto di vista dei linguaggi dell'arte". Da Wittgenstein, vogliamo tornare a Nietzsche.

 

5. Quello che verrà ora esposto è un programma di ricerca concettuale, ispirato a filosofie che, lo si è detto, non hanno mai tentato di rendere trasparente il proprio funzionamento logico. Non ho le competenze di chi si occupa professionalmente di logica, dunque è probabile che la formulazione delle mie tesi contenga delle imperfezioni. Ritengo preziosa, e la auspico, ogni critica di carattere tecnico, per poter emendare e perfezionare una proposta che considero non strettamente individuale, ma condivisibile e aperta alla collaborazione. Come ho detto all'inizio di questo saggio, un'indagine sulla logica congiuntiva non è più differibile: essa offrirebbe enormi vantaggi a tutti coloro che, nella diversità delle prospettive, sono accomunati dal rifiuto dello stile separativo.

Auspicare una collaborazione 'tecnica' non significa mirare a una formalizzazione: che la logica congiuntiva, almeno in qualche versione, sia trasponibile nel linguaggio della logica simbolica, ebbene, su ciò è lecito avere forti dubbi. La sensazione è che non si possa formulare una logica flessibile per mezzo di un linguaggio che si affida essenzialmente alla rigidità. Una trasposizione parziale, limitata ad alcuni aspetti, potrebbe risultare tuttavia plausibile; in ogni caso non va affrettata. Anteporre la tecnica all'analisi concettuale sarebbe un errore gravissimo.6

Inoltre: la logica congiuntiva non è forse chiamata a rovesciare la prospettiva fregeana? Uno dei suoi obiettivi non dovrebbe forse consistere nel mostrare le fallacie che pervadono la logica simbolica? Si badi che una fallacia non è un errore. Le due nozioni possono venir confuse, e ciò accade sovente tra i filosofi analitici, perché ci si limita a fallacie 'locali', circoscritte.7 Ma il termine fallacia dovrebbe venir usato anche, e preferibilmente, per indicare deformazioni o distorsioni che non sono riducibili a meri sofismi, localmente individualizzabili: con questo termine bisognerebbe indicare errori diffusi, così diffusi da risultare difficilmente percepibili - salvo fare un passo indietro per ritrovare il pluralismo logico, il conflitto tra stili. La maggiore fallacia che pervade la filosofia analitica consiste infatti nel monostilismo, nella superstizione del separativo: ma di questa fede superstiziosa i filosofici analitici non sono per nulla consapevoli.

Torniamo ora alla necessità di allargare il campo d'indagine, e di trovare casi paradigmatici diversi dal Mentitore o dal sorite o dalla classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse. Si è deciso di cercare paradossi congiuntivi (e non semplicemente confusivi) nella letteratura; ma il funzionamento di una logica flessibile dovrebbe venire indagato anche nel campo delle relazioni esplicitamente strategiche, e dunque nell'arte militare e nella politica o, per certi aspetti, nella psicoanalisi. Vorrei esprimere tuttavia la mia curiosità anche nei confronti della fisica.

Una curiosità da non addetto ai lavori. Può darsi che nessun fenomeno congiuntivo sia rintracciabile nel campo di indagine della fisica o di altre scienze della natura. Ne sarei deluso, ma ciò non mi indurrebbe evidentemente a modificare le tesi fin qui enunciate, la cui legittimità va cercata nel pluralismo logico della mente umana e nei linguaggi flessibili. Sarebbe di grande interesse, però, ricevere dagli specialisti una risposta positiva alla domanda: "esistono paradossi nel mondo della fisica?". I motivi di questo interesse dovrebbero essere evidenti. Ci sono enunciazioni paradossali a cui non corrisponde nulla, come nei casi di contraddizione: non vi è nulla che possa corrispondere a "Piero è seduto e nello stesso tempo non è seduto", e si può dire lo stesso per quanto concerne il paradosso del barbiere.8 L'inesistenza di un riferimento nella dimensione effettuale sembra confermare l'opinione di chi considera i paradossi come qualcosa di ludico, oppure come qualcosa la cui serietà è effimera; prima o poi esso verrà risolto. L'ostacolo scomparirà nel nulla da cui proveniva.

I paradossi più stimolanti non si lasciano circoscrivere nella dimensione linguistica ma riguardano la realtà, in un'accezione ampia: tra di essi, vi sono quelli relativi all'identità personale. Ecco perché la fisica può interessare anche i letterati, e i filosofi che trovano un'ispirazione logica nella letteratura e più in generale nelle arti: se vi sono paradossi nel mondo della natura, è la realtà fisica a funzionare in modo paradossale; avremmo un'ulteriore conferma dell'esistenza di paradossi che non nascono dai bernoccoli che la mente si fa cozzando contro i limiti del linguaggio.9 La logica congiuntiva potrebbe risultare pertinente per descrivere alcuni fenomeni fisici, se non l'intera natura? La totalità ininterrotta dell'universo (unbroken wholeness) ha qualcosa a che vedere con l'idea nietzscheana secondo cui "tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate"?10

Tocca agli specialisti chiarire se ci troviamo di fronte a vere affinità, o soltanto a somiglianze suggestive ma equivoche. Ad esempio, il principio di separabilità di Einstein va incluso nell'ambito del pensiero separativo, secondo la definizione fornita in questo saggio? E quale tipo di logica potrebbe descrivere adeguatamente i sistemi non separabili della meccanica quantistica? 11

 

6. Diamo un rapido sguardo ai paradossi discussi soprattutto dai logici e dai filosofi del linguaggio. Sono molto numerosi: qualche studioso sembra essersi rassegnato alla loro varietà, qualcun altro ha scelto di presentarli selettivamente in un elenco alfabetico.12 Il numero e la varietà dei paradossi, tanto più se vengono presentati senza tener conto del grado di complessità, e mescolando i casi più impegnativi con quelli ludici, producono un senso di dispersione; eppure, se ci si concentra sui casi più celebri, è possibile percepire un'aria di famiglia. E' da questa sensazione che sono scaturite tipologie elementari, come la distinzione di Ramsey in due soli gruppi, i paradossi insiemistici (ad esempio il paradosso di Russell) e i paradossi semantici (ad esempio il Mentitore).13 Com'è noto, Bertrand Russell non era convinto dell'utilità di questa distinzione, e riteneva che tutti i paradossi fossero il risultato di una sola fallacia, consistente nel violare il principio del circolo vizioso. Probabilmente non è così: bisognerebbe distinguere diversi meccanismi, il ricorso all'infinito, l'autoreferenzialità, il legame tra gli opposti. Non tutti i paradossi nascono dall'autoriferimento; e comunque vi sono molti enunciati auto-referenziali innocui, come "Questo enunciato è in italiano". Se si considera inoltre che alcune argomentazioni matematiche, tra cui la dimostrazione di Gödel dell'incompletezza dell'aritimetica, fanno uso di enunciati auto-referenziali, risulta evidente il danno che conseguirebbe dall'eliminazione dei meccanismi riflessivi.14 Quanto al legame con l'infinito, anch'esso caratterizza solo un certo numero di paradossi, i più favorevoli a soluzioni aritmetiche.

Vi è ancora il legame tra gli opposti, in diverse forme: il rinvio circolare, come nel paradosso del Mentitore, o della cartolina; la scelta aporetica, come nel caso di Oreste, destinato a compiere un terribile crimine, uccidere la propria madre per poter compiere un atto di giustizia, vendicare l'uccisione del padre; ecc. Sembra opportuno non lasciarsi suggestionare dall'aria di famiglia, che circola in tutti questi esempi, e concentrarsi sulle differenze.

Bisognerebbe sperimentare nuove distinzioni: ad esempio, perché non accentuare la differenza tra i paradossi della finitezza e quelli dell'infinità? Zenone non deve far dimenticare Eraclito, e i paradossi impregnati di tragicità e agonismo: ma quale agonismo, quale conflitto potrebbe esserci nell'infinito? L'attrazione per l'infinito non dipenderà forse da un desiderio di sospensione dei conflitti? Una freccia che vola e resta immobile, Achille che non raggiunge mai la tartaruga. Si è tentati di dire: lasciamo l'infinito ai teologi e ai matematici, e occupiamoci di conflitti e di strategia. Dedichiamo le nostre energie a chiarire i paradossi della flessibilità, paradossi che esaltano, e non legano, o meglio non incatenano. E perché non esplorare a fondo l'ipotesi che i paradossi incatenati, le aporie, derivino tutti dalla rigidità?

 

7. Non è difficile trovare subito qualche conferma: per sciogliere, ad esempio, il paradosso del sorite, è sufficiente la logica fuzzy, che non è la logica della flessibilità alla quale abbiamo più volte accennato, ma è comunque una logica un po' più flessibile di quelle che hanno dominato il pensiero separativo fino ai nostri giorni.15 Consideriamo un altro esempio, di maggior peso concettuale: il problema di come imparare una regola (capirla, applicarla). Poiché qualunque regola può essere interpretata e applicata in modo sbagliato, sembra che nasca la necessità di almeno una metaregola per indirizzare la mente nella giusta direzione. Ma per assimilare correttamente una metaregola, sarà necessaria un'altra metaregola; e così via. Questo regresso ad infinitum, discusso da Kant e da Wittgenstein, non trova forse la sua origine nella rigidità? Soltanto una forma d'intelligenza non flessibile sente l'esigenza di apprendere quello che - osservava Kant - nessuna scuola può insegnare.16

E che sarebbe una fonte di paralisi. La soluzione del paradosso non va cercata insistendo nella distinzione e nella moltiplicazione dei livelli - da ciò possono nascere fallacie che la razionalità separativa non riesce a cogliere -, bensì nel pluralismo dei modi (o stili) di razionalità. Nessuna metaregola potrebbe impedire a un soggetto rigido di cadere nella rete inventata dalla duttilità dell'avversario.

Questa conclusione è generalizzabile? Forse. Ma occorre in ogni caso precisarla. Una volta ipotizzato che tutti i paradossi incatenati derivino dalla rigidità, ci troviamo ancora in una fase iniziale: la rigidità manifesta la sua efficacia in molti modi, e noi dobbiamo riuscire a comprenderla nei dettagli. Decidiamo quindi di concentrare l'attenzione soltanto su un paradosso: se riusciremo a chiarirne il meccanismo meglio dei nostri rivali - una lunga tradizione, dominata comunque dal pensiero separativo -, la nostra analisi assumerà immediatamente un valore paradigmatico.

Prenderemo in esame il paradosso del mentitore, che richiama nozioni di straordinaria importanza come 'verità' e 'significato', e discuteremo anzitutto la soluzione più nota, quella di Tarski. Consideriamone gli aspetti più salienti:

a) la concezione semantica della verità. Tarski propone una semantica fattuale, orientata all'effettualità: "La semantica è una disciplina che, in senso piuttosto vago, si occupa di certe relazioni tra le espressioni del linguaggio e gli oggetti (o 'stati di cose') 'indicati' da tali espressioni".17 Tarski aggiunge:

"Come esempi tipici di concetti semantici potremmo ricordare i concetti di designazione, soddisfacimento e definizione, impiegati negli esempi seguenti:
l'espressione 'il padre della patria' designa (denota) George Washington;
la neve soddisfa la funzione enunciativa (la condizione) "x è bianco"
l'equazione "2 . x = 1" definisce (determina in modo univoco) il numero ½".18

b) la concezione proprietaria (la chiameremo così) della verità. Vale a dire che 'vero' viene considerato una proprietà che caratterizza certi enunciati.19 Gli enunciati sarebbero dunque oggetti genuini, diversamente da quanto viene asserito dai deflazionisti. Secondo Ramsey, ad esempio, le proposizioni (e non gli enunciati) sono costruzione logiche, e non vanno considerate come oggetti sia pure astratti;20

c) il rapporto con la concezione della verità come corrispondenza ai fatti. Questo punto è controverso. Secondo Popper, Tarski avrebbe riabilitato la teoria della corrispondenza:21 data una qualunque ricorrenza dello schema (T), ad esempio

«La neve è bianca» se e solo se la neve è bianca

Popper sembra ritenere che il lato sinistro si riferisca al linguaggio e il lato destro ai fatti. Questa interpretazione è stata sovente criticata, poiché contrasta con ciò che Tarski scrive e con la novità della sua impostazione. Nello schema (T)

X è vera se e solo se p,

il simbolo «p» sta per un enunciato qualsiasi del linguaggio-oggetto, mentre il simbolo «X» rappresenta il nome dell'enunciato.22 Dobbiamo quindi giudicare la lettura di Popper come un totale fraintendimento? La questione è resa complicata dall'ambiguità di Tarski, il quale, da un lato, afferma che lo schema (T) è neutro sul piano epistemologico, cioè rispetto al dibattito tra realismo e idealismo, dall'altro dichiara che "la nostra formulazione è conforme al contenuto intuitivo di quella di Aristotele" e, in sostanza, conforme all'uso comune, al punto di vista della quotidianità.23 Ebbene, se la novità della proposta di Tarski consiste nello spostare il problema della verità dal rapporto tra linguaggio e realtà ad un rapporto (di equivalenza) interno al linguaggio, queste ultime dichiarazioni la smentiscono.

Perciò l'interpretazione di Popper non sembra un banale fraintendimento, bensì una decisione interpretativa: egli avrebbe colto la solidarietà implicita tra la teoria di Tarski e la teoria tradizionale della verità come corrispondenza. E la sua decisione appare più plausibile se si considera lo schema (T) in qualunque versione satura, in cui diventa possibile intendere, ad esempio, «La neve è bianca» come un enunciato, e non come un nome.

La proposta di Tarski risulta meglio comprensibile se si considera lo schema (T) in una versione insatura (X è vera se e solo se p). Vediamo allora nitidamente l'obiettivo di Tarski, definire da nozione di 'verità' tramite quella di 'soddisfacimento'. 24

d) quali sono i vantaggi di questa concezione? Bisogna riconoscere che lo schema (T) è inattaccabile, e in ogni caso è più perspicuo rispetto alla nozione di "in accordo con la realtà". A conforto della sua impostazione Tarski menziona anche un test:

"non sono stato per nulla sorpreso di apprendere che in un gruppo di persone interrogate solo il 15% ha convenuto che per esse 'vero' significa 'in accordo con la realtà', mentre il 90% ha convenuto che un enunciato come 'sta nevicando' è vero se e soltanto se sta nevicando".25

Naturalmente questo test non ha grande importanza; non si può fare a meno di rilevare, piuttosto, come l'ambiguità della posizione di Tarski torni a manifestarsi: qui egli parla, innegabilmente, del rapporto tra un enunciato e un fatto;

e) la distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio. Tale distinzione consente di evitare o risolvere paradossi e, in particolare, di affrontare con successo il paradosso del Mentitore. Tarski si affida dunque alla gerarchia dei linguaggi: la verità di un enunciato per un dato livello è sempre espressa da un predicato del livello seguente (se O è il linguaggio-oggetto, il metalinguaggio M dovrà contenere i mezzi per riferirsi alle espressioni di O, e quindi i predicati "vero-in-O" e "falso-in-O", e così via). L'aporia del Mentitore "Questo enunciato è falso" assumerà allora una forma innocua "Questo enunciato è falso-in-O"; quest'ultimo enunciato apparterrà ad M, e non potrà quindi essere vero-in-O. Ne risulta che esso è semplicemente falso e non paradossale.26

 

8. Ammettiamo provvisoriamente che la concezione di Tarski non contenga errori. Il difetto che le si può rimproverare è molto più grave: essa condensa una serie di fallacie, di deformazioni - somiglia a un individuo che calza scarpe talmente strette da riuscire solo con fatica, in maniera rigida e priva di grazia, a camminare.27 Nel loro insieme, queste fallacie costituiscono un errore di prospettiva sul funzionamento della nostra intelligenza. Cercherò adesso di giustificare un'accusa così pesante e grave. Le principali deformazioni contenute nella concezione di Tarski sono:

i) la semantica che egli propone è una semantica fattuale, cioè eteronoma, plausibile solo in una miscela modale dominata dall'effettualità. Tarski nega al significato ogni possibilità di svincolarsi da un'elaborazione rispecchiante, servile; nega l'autonomia del significato. A questa fallacia si oppone quella che chiamerò la legge di Nietzsche, cioè la non-derivabilità del semantico dal fattuale: è così che propongo di intendere la celebre tesi "non ci sono fatti ma solo interpretazioni".28 La non-derivabilità non esclude una derivabilità parziale: afferma però l'autonomia del semantico, la possibilità che i significati si appoggino sull'empiria per assumere identità imprevedibili e in ogni caso non modellate su enunciati come "La neve è bianca" (si potrebbe parlare di un principio di appoggio (Anlehnung), pensando a come, in Freud, le pulsioni sessuali si appoggiano su quelle autoconservative per rendersi autonome grazie a una superiore flessibilità;29

ii) lo schema (T) è probabilmente inattaccabile, ma è vacuo. Ha un carattere tautologico, non ci dice nulla circa la verità né dal punto di vista filosofico né dal punto di vista epistemico.30 All'accusa di vacuità filosofica si potrebbe replicare osservando che Tarski non intendeva fornire un contributo filosofico, e che aveva detto di non riuscire a capire che cosa fosse 'il problema filosofico della verità'.31 Ma questa replica presuppone un concetto stereotipato e inadeguato di 'filosofia', intesa come ricerca di generalità e di essenze, e come una disciplina incapace di scendere sul terreno delle tecniche. Indubbiamente la filosofia non va confinata in discussioni tecniche; in tal caso essa potrebbe criticare soltanto gli errori, e non le fallacie. L'espressione 'il problema filosofico della verità' appare già meno misteriosa se si utilizza questa distinzione. Quello che il lettore sta leggendo è un saggio filosofico perché vuole mettere in evidenza, tra l'altro, alcune fallacie nei riguardi della verità;

iii) ci sono zone dell'argomentazione in cui la filosofia tiene conto dei dettagli tecnici, sia pure in una prospettiva più ampia. La fiducia di Tarski nella distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio viene scossa da Kripke.32 Consideriamo questi due enunciati:

(1) "Tutte le affermazioni di Nixon sul Watergate sono false", dice Jones

(2) "Tutte le affermazioni di Jones sul Watergate sono false", dice Nixon

In questo caso non si riesce a individuare un livello appropriato di metalinguaggio: (1) è di un livello più elevato rispetto alle affermazioni di Nixon, ma (2) è ad un livello più elevato delle affermazioni di Jones. Dobbiamo constatare una rincorsa all'infinito come nel paradosso della cartolina.

Siamo ripiombati in una difficoltà di ordine tecnico, da cui potremo uscire soltanto con un adeguato artificio tecnico? Oppure è necessaria una riflessione più ampia, di carattere filosofico? Qual è il limite di cui dobbiamo diventare consapevoli, se vogliamo oltrepassarlo? Il dibattito a cui ci stiamo riferendo - ai nomi di Tarski e di Kripke se ne potrebbero aggiungere altri, ad esempio quello di Russell - si svolge interamente nell'ambito del pensiero separativo, e della fiducia nelle distinzioni di un certo tipo: distinzioni tali da escludere ogni sovrapposizione, quale che sia la dimensione, orizzontale o verticale, in cui esse vengono articolate. La costruzione gerarchica dei livelli è una delle opzioni più caratteristiche dello stile separativo: quando si presenta una difficoltà, la si attribuisce a una perdita della buona distanza, a un accorciamento oppure, come nell'esempio del Mentitore e in quello di Kripke, a una lacuna o un'interruzione nella gerarchia. L'obiettivo del logico separativo resta invariato: ritrovare un punto di separazione, che a sua volta interrompa il vortice.

Non sorge mai il sospetto di una fallacia livellare, cioè di una malattia generata dalla cura. Eppure la ricerca di un livello meta può creare patologie: non è forse così - e lo abbiamo visto - nel regresso ad infinitum derivato dall'inseguimento di una metaregola? E' la rigidità, e non l'infinito, a causare la paralisi. Da questa consapevolezza nasce, in alcuni autori, ad esempio in Lacan, il rifiuto del metalinguaggio. Ciò non vuol dire che non si possano mai creare distanze interne al linguaggio, che non si possa mai parlare del linguaggio mediante il linguaggio: la fallacia livellare, che diventa fallacia metalinguistica, dipende dal fatto che non esiste un linguaggio-oggetto come quello descritto dai logici separativi, tranne che nell'ambito dei linguaggi formalizzati. Con maggior precisione: non può diventare linguaggio-oggetto (nell'accezione separativa) nessun linguaggio che sia pensabile come linguaggio diviso.33

iv) ogni fallacia è un ostacolo epistemologico che blocca la ricerca, e comunque la semplifica e la immiserisce. La fallacia livellare impedisce di approdare a quella nuova terra che è il linguaggio diviso e di iniziarne l'esplorazione. La fallacia proprietaria - perché la concezione proprietaria, a cui si è accennato, è anch'essa fallace - consiste nel trattare il predicato 'vero' come un predicato empirico, cosale. E tuttavia, soltanto un'ingannevole somiglianza grammaticale può far credere che esista qualche analogia predicativa tra "la neve è bianca" e l'enunciato «la neve è bianca» è vero". Questa riflessione è senza dubbio condivisa da altri studiosi. Sembra però che la stranezza del predicato 'vero' sia stata percepita soprattutto come un sintomo della sua superfluità: per i deflazionisti, la ridondanza della parola 'vero' va riconosciuta in base al fatto che essa

"non dà con il suo senso alcun contributo essenziale al pensiero. Se asserisco che «L'acqua di mare è salata» asserisco la stessa cosa che se asserissi «E' vero che l'acqua di mare è salata»".34

Quest'osservazione di Frege, che peraltro non può essere considerato un deflazionista, potrebbe richiamare quella di Kant, relativamente al carattere 'vuoto' delle categorie modali.35 Esse non contribuiscono alla determinazione semantica degli enti: ma potremmo trascurare la differenza tra un oggetto pensato come soltanto possibile e pensato invece come esistente? Certamente no. Che il predicato 'vero' non contribuisca alla determinazione del senso non giustifica quindi la sua eliminazione; ma qual sarebbe il suo contributo? Dobbiamo cercarlo sul piano della forza, e intenderlo come un operatore di asserzione? La motivazione appare plausibile ma anche debole: il 'problema filosofico della verità' viene banalizzato, entra in una zona di tediosità quotidiana: la non sopprimibilità del predicato 'vero' finisce con l'assumere un carattere routinier, diventa simile alla necessità di perdere un po' di tempo facendosi la barba tutti i giorni o perlomeno ogni tanto.36

Consideriamo di nuovo l'ipotesi secondo cui 'vero’ è un predicato modale. Quale sarebbe il ruolo conoscitivo, il contributo conoscitivo della sua vuotezza? Non lo si dovrà cercare sul piano dei contenuti (cose, proprietà, fatti, eventi), perché vero ha un significato prospettico. Se non si può eliminarlo, dunque, è perché esso è ineliminabile come lo sono le prospettive, i modi, gli stili - che soltanto il pensiero zerostilistico, zeroprospettico, cioè separativo, può illudersi di eliminare.

Per giustificare queste affermazioni ci si può evidentemente richiamare a Nietzsche e ad Heidegger, alla verità come aletheia e non come adaequatio. Ma non sembra facile convincere un filosofo analitico dell'opportunità di perdere un po' di tempo leggendo Heidegger, dunque bisognerebbe trovare qualche argomentazione rapida, concisa. Ebbene, la necessità di un punto di vista modale sul problema della verità potrebbe venire illustrata con un esempio che aiuti a riflettere sui limiti della logica simbolica come forma di pensiero. Com'è noto, uno degli aspetti più innovativi della concezione di Frege consiste nell'aver rinunciato alla coppia soggetto/predicato a favore di un'altra coppia concettuale, predicato e argomento. Ogni proposizione viene considerata anzitutto come una formula insatura, del tipo "X conquistò la Gallia"; questa formula, o funzione proposizionale, diventerà vera se assumiamo come argomento, e collochiamo al posto di X, Giulio Cesare, falso in altri casi.

Indubbiamente. Consideriamo però un altro esempio:

"Una volta Sherlock Holmes mi chiese: «Caro Watson, cosa deduci dal fatto che vedi il cielo stellato sopra di te?». Risposi: «Deduco che la mia posizione è orientata verso il nord; di fatto le costellazioni a cielo sereno permettono di orientarsi non solo al mare, ma anche in montagna, dove noi appunto siamo». Felice della mia riposta, che mi appariva profonda e complessa a un tempo, sorrisi all'amico e compagno di tante disavventure, il quale rispose, accendendosi con calma la pipa: «Caro Watson, non manchi mai di stupirmi; non vedi che ci hanno rubato la tenda?». Perbacco, non ci avevo pensato!".37

Perché la risposta di Watson appare comica? Non perché sia falsa, e neppure inesatta: ma perché non è pertinente. Alla domanda, formulata in termini fregeani, "quale valore di X soddisfa la funzione proposizionale «deduco x vedendo il cielo stellato sopra di me»?", egli risponde "che la mia posizione è orientata verso il nord, ecc.". Trascurando il fatto che la visibilità diretta del cielo dovrebbe suggerirgli, in quel momento, che lui e il suo celebre compagno sono stati vittime di un furto, Watson non dice nulla di falso; la sua risposta va a saturare correttamente, dal punto di vista dei valori di verità, la domanda insatura sopra enunciata. Correttamente, ma anche scioccamente.

Ciò che la concezione di Frege trascura - e di questa lacuna i logici separativi, per tutto il XX secolo, non si sono mai accorti - è la differenza tra modi di saturazione. Frege non distingue tra ciò che è 'scioccamente vero' e la verità accompagnata (modalizzata) dall'intelligenza; non considera casi del tipo "x soddisfa scioccamente y".

A questa lacuna si potrebbe porre rimedio con una nuova attenzione ai contesti? Tener conto del contesto, unire l'esattezza alla pertinenza, è senza dubbio un progresso importante; ma è del tutto insufficiente se le differenze contestuali restano interne alla razionalità separativa, e se dalle differenze tra i contesti non si procede alla divisione degli stili.

 

9. Vale la pena di riflettere ancora per un istante sui limiti della "svolta pragmatica" o svolta contestuale, che si può effettivamente riscontrare nella linguistica oltre che nella logica, durante gli ultimi decenni. D'altronde era inevitabile che in una prima fase ci si concentrasse sulle relazioni e sulle strutture interne al linguaggio: così il principio del contesto, affermato da Frege, è risultato assai meno contestuale di quanto non avrebbe potuto, e non abbastanza sensibile ai contesti extralinguistici. Sarebbe davvero semplicistico, tuttavia, credere che la svolta pragmatica abbia coinciso con la scoperta della flessibilità come razionalità autonoma, e con il riconoscimento del pluralismo logico, e che abbia voluto procedere al di là dell'intento di salvaguardare la ragione rigida dalle sue goffaggini. Nessuna rivoluzione, dunque; soltanto un'evoluzione inevitabile, prudente, capeggiata dal buon senso.

Sarebbe semplicistico, ancora, credere che il problema dei modi di saturazione possa venir affrontato, oltre che introdotto, soltanto tramite casi che contengono effetti di comicità; e che la dimensione modale del pensiero, che la logica simbolica non riesce ad analizzare neanche quando si occupa delle modalità, sia da individuare unicamente nel problema dei modi di saturazione. Dato il carattere introduttivo di questo saggio, sarà bene però non disperdersi su troppi fronti e tornare ai paradossi come sintomo di un 'pensiero dei legami', e non soltanto di un pensiero aporetico.

Si era deciso di concentrarsi sul paradosso del mentitore; di lì l'attenzione si è spostata allo scritto di Tarski, in cui sono state individuate numerose fallacie, e tra di esse la fallacia dei livelli. La distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio è apparsa valida in ambiti limitati: non è efficace per casi di circolarità come quello indicato da Kripke, e che presenta affinità con il Mentitore, ma potrebbe venire ancora utilizzata per quest'ultimo caso. Perché? Perché il separativo può ottenere dei successi, innegabilmente, quando va a contrastare il confusivo: ma il confusivo è solo una possibilità del pensiero congiuntivo. Bisogna dunque cercare altri casi paradigmatici.

Altri casi di correlazione: nel paradosso del mentitore l'implicazione reciproca del vero e del falso può essere interpretata come un determinato tipo di relazione tra gli opposti. E i correlativi non sono forse quegli opposti che si presuppongono reciprocamente, quanto all'esistenza e alla definizione? Così li presenta Aristotele in un quadro tipologico che merita di essere riscoperto dopo un lungo periodo di oblio. Ma procediamo con ordine.

 

10. Proviamo a considerare il paradosso del Mentitore non come una confusione di livelli, determinata dall'autoriferimento, ma come un nodo tra termini opposti, che si implicano anziché escludersi. Come è possibile che ciò accada? Abbiamo bisogno anzitutto di una mappa che ci permetta di muoverci nell'intricata polisemia delle relazioni oppositive: una zona parzialmente ma costantemente sommersa dal confusivo, da intrecci alla cui suggestione è difficile sottrarsi, e che una certa tradizione chiama coincidentia oppositorum. La difficoltà di analizzare queste zone intricate del pensiero è innegabile, e si può comprendere l'impazienza con cui la mente separativa ha sentito il desiderio e la necessità di allontanarsene, con grandi colpi di scure che recidevano grovigli e tracciavano una via d'uscita. Troviamo la prima, e straordinaria descrizione, di questa 'selva oscura' in Aristotele, e nella sua tipologia degli opposti ( αντικείμενα ):

- i contraddittori (αντίφασις )

- i contrari ( ταναντία )

- la privazione/possesso ( στέρεσις και έξις )

- i correlativi ( τα πρός τι ).38

La relazione di contraddittorietà riguarda opposti incompatibili: "Socrate è seduto" e "Socrate non è seduto" sono proposizioni che si escludono a vicenda, in quanto riferite contemporaneamente a uno stesso individuo. La relazione di contrarietà è più debole, ammette casi intermedi: il bianco e il nero possono mescolarsi generando il grigio. Privazione/possesso viene esemplificata da "non avere/avere la vista". Quanto ai correlativi, gli esempi menzionati da Aristotele sono "metà/intero" e "padrone/servo"; la caratteristica dei correlativi è la presupposizione reciproca: non si può pensare a un padrone se non in rapporto a un servo, e viceversa. Dunque la relazione tra correlativi appare subito nella sua paradossalità: qui gli opposti sono vincolati, se non proprio incatenati, l'uno all'altro; opponendosi, si richiamano a vicenda, necessariamente.

In questa breve presentazione, desunta da Aristotele, è facile scorgere un'ambiguità: gli esempi utilizzati comprendono sia nozioni isolate ("bianco", "metà") sia proposizioni ("Socrate è seduto"). La differenza non è affatto trascurabile poiché una nozione isolata non può venir giudicata né vera né falsa; la dimensione minima della verità è costituita dalla proposizione, cioè dal nesso tra due nozioni (o concetti). Tale ambiguità viene soppressa nella costruzione in cui i logici medioevali ripresero i quattro tipi fondamentali di proposizioni assertorie distinte da Aristotele: nel quadrato degli opposti vi sono unicamente proposizioni, e non termini singoli.

In questa sistemazione, però, viene parzialmente cancellata la ricchezza della tipologia aristotelica. Scompare la relazione 'privazione/possesso', e fin qui nulla di grave perché si tratta del tipo meno interessante sul piano concettuale: Aristotele gli assegna dei limiti ben precisi, riferendolo a stati di natura 39 e caratterizzandolo come un mutamento univoco: dal possesso alla privazione, e non viceversa. Ma scompare anche il rapporto tra correlativi. Rimangono le relazioni di contraddittorietà e di contrarietà, e la loro affinità va individuata nel fatto che entrambe mettono l'accento sull'esclusione reciproca. Nel rapporto tra proposizioni viene meno la possibilità di un compromesso, come accade considerando invece i termini isolati: la contrarietà tra nozioni ammette casi intermedi; una possibilità che, peraltro, appare assai diversa dall'interdipendenza dei correlativi, perché nessuna necessità obbliga il bianco a mescolarsi con il nero. La loro reciprocità (come elementi che fanno parte di un medesimo paradigma, nel senso in cui questo termine viene usato dai linguisti) è differenziale, e non conflittuale o strategica. Si dirà che neppure la relazione tra metà e intero è conflittuale, e questo è vero; ma ciò significa che si dovrà perfezionare la tipologia aristotelica, non abbandonarla.

Il quadrato logico medievale è, stilisticamente, una costruzione separativa: ogni elemento, collocato in uno dei quattro vertici, è ben distinto dagli altri; gli opposti sono ben separati, così da non generare paradossi o aporie. I paradossi sono sempre aporetici, dal punto di vista separativo: nodi da sciogliere, confusioni da eliminare. Ecco perché è stato eliminato il caso dei correlativi: in questa relazione, gli opposti non sono più separati o separabili. Tutt'altro: sono inseparabili, definiti dalla loro congiunzione.

Si noti che la vicinanza o la mescolanza tra opposti non presenta di per sé rischi particolari: purché le mescolanze risultino chiaramente come un caso derivato, e non originario, il pensiero le ammetterà e le osserverà senza preoccupazione alcuna. Ma quando gli opposti affermano la loro dipendenza reciproca, quando il loro legame appare decisivo per definire l'identità di ciascuno, allora la logica separativa percepisce un rischio di confusione e di dissoluzione, anche per se stessa. Impotente ad analizzare questo tipo di relazione, se ne sente invasa. La reazione successiva è del tutto conseguente: occorre espellere i correlativi, i 'non separativi', nel regno dell'illogico.

La rimozione dei correlativi, ratificata nel quadrato medievale, verrà ereditata dalla tradizione dominante nella filosofia occidentale: ad esempio, Kant ammetterà soltanto due tipi di relazione oppositiva, la contraddizione logica e l'opposizione reale (Realrepugnanz), tipi che rispecchiano i contraddittori e i contrari aristotelici. A partire dall'idealismo tedesco, però, la barra della rimozione viene sollevata: si enfatizza il diverso funzionamento di due modi dell'intelligenza, l'intelletto (Verstand), la facoltà che opera per disgiunzioni e la ragione (Vernunft), la facoltà che opera congiuntivamente. Si critica la sterilità della relazione 'A = A', si teorizza un superamento del principio di non-contraddizione, offrendo così una conferma a quelli che erano stati i timori (impliciti?) dei filosofi separativi: l'interdipendenza necessaria tra concetti, la relazione tra correlativi, rappresenta una minaccia per il principio logico supremo. Una minaccia reale per un verso, benché irreale per un altro: reale e pericolosa come ogni contagio, irreale e infondata come lo è un delirio. Le aggressioni del pensiero dialettico al principio di non contraddizione sarebbero puramente velleitarie, insensate.

In effetti, se la logica congiuntiva fosse una "logica della contraddizione", se essa riuscisse davvero a sospendere il principio definito per la prima volta da Aristotele, come si potrebbe giustificarla? In nome di una mimesi rispetto alle contraddizioni che costituirebbero la realtà, soprattutto la realtà sociale? Ma i conflitti sociali non esemplificano affatto le contraddizioni in senso logico. E' evidente che la tradizione dialettica, soprattutto nella sua versione ideologica (quella marxista), si è resa colpevole di un abuso terminologico, con ricadute disastrose sul piano concettuale: se ci si abitua a chiamare contraddizione ogni tipo di conflitto, non si presterà alcuna attenzione alla polisemia degli opposti. E anziché distinguere tra contraddittori, contrari, e correlativi, si affermerà il primato della contraddizione sia nella logica che nella realtà. Il principio di non-contraddizione verrà criticato come il baluardo logico dell'ideologia, mediante cui le classi dominanti tentano di nascondere i conflitti sociali. Sì, c'è davvero molto delirio in questa concezione, bisogna riconoscerlo.

Le cattive critiche rafforzano la posizione dell'avversario. Se al pensiero separativo si potesse opporre solamente una "logica della contraddizione", ebbene, la logica congiuntiva non avrebbe chance. Non sarebbe una logica flessibile e guerriera, ma una caricatura della ragione. Affrettiamoci dunque a precisare che la relazione tra correlativi non viola necessariamente il principio di non-contraddizione: né questa è l'intenzione che la ispira. Ad esempio, una determinata relazione tra padrone e servo costituirebbe una violazione del principio aristotelico soltanto se fosse e nello stesso non fosse la relazione tra un padrone e un servo. E nessuna trasgressione logica si manifesta nel rovesciamento del rapporto di dominio.

Dunque la relazione tra correlativi non è un superamento, bensì una versione, un'interpretazione del principio di non-contraddizione; ma se un principio logico è suscettibile di interpretazioni diverse, ciò vuol dire che esso ha un'identità stilistica. Decisivo è lo stile di pensiero che lo interpreta.

Ogni tipo di relazione oppositiva interpreta diversamente il principio di non-contraddizione. Pertanto non bisogna confondere il principio di non-contraddizione con la relazione tra contraddittori, che ne è solamente una versione. E non bisogna neanche pensare, forse vale la pena di ripeterlo, che una determinata versione del principio, quella dei correlativi, possa invalidarlo, sospenderlo o superarlo. Ha torto l'estremismo dialettico che crede di poter scavalcare il principio di non-contraddizione, ma ha torto anche la filosofia separativa in quanto crede che ogni legame tra gli opposti generi una contraddizione (perciò essa esclude dal campo d'indagine i correlativi, gli inseparabili).

 

11. Abbiamo compiuto un progresso importante nella nostra ricerca, e ci sembra legittimo enfatizzarlo: rivisitando il principio di non-contraddizione, ci siamo resi conto che la sua neutralità - ciò che lo rende irrinunciabile e sovrano - non esclude la flessibilità. L'interpretazione separativa è soltanto una delle possibili interpretazioni: è il risultato di una fallacia, che consiste nel sovrapporre principio di non-contraddizione e relazione tra contraddittori.

Si potrebbe modificare quest'ultima affermazione, osservando che la razionalità separativa contempla altri tipi di rapporto, ad esempio quello di contrarietà o di subcontrarietà. In effetti è così, la precisazione va senza dubbio accolta. Ciò che importa è non smarrire la differenza - si potrebbe anche parlare di 'eterogeneità' - tra le relazioni disgiuntive e quelle congiuntive. Il principio di non-contraddizione presiede a tutte le relazioni tra gli opposti:40 ciò non significa che tali relazioni appartengano a una medesima famiglia logica.

Le differenze di famiglia sono diventate visibili confrontando la tipologia quadripartita di Aristotele con il quadrato logico medievale: come mai erano stati eliminati i tipi della privazione/possesso e dei correlativi? Mentre la privazione/possesso può venir considerata una variante o una sottospecie della contrarietà, i correlativi contengono qualcosa di irriducibile ai tipi precedenti: il vincolo enigmatico che lega i termini nella relazione non può che risultare incomprensibile a una razionalità che funziona disgiuntivamente, anche quando congiunge e collega (termini che restano disgiungibili, potenzialmente autonomi). Ne consegue la distinzione tra diversi stili logici. Questa necessità potrebbe essere negata, se si dovesse constatare che i correlativi violano il principio di non contraddizione; in tal caso, non potrebbero generare un'altra logica, ma unicamente fornire materiali di lavoro - enigmi, puzzle, antinomie - alla logica separativa. E' stata però mostrata la compatibilità tra correlativi e principio di non-contraddizione. I correlativi sono la versione più flessibile di questo principio, e ne rivelano comunque la flessibilità.

I contraddittori non sono affatto il caso più forte di opposizione, come si ritiene abitualmente: sono il caso più rigido. E' assolutamente scorretto utilizzare la rigidità dei contraddittori come criterio per giudicare le altre relazioni, e per disporle secondo una crescente attenuazione, assumendo dogmaticamente che tutte le relazioni che chiamiamo oppositive siano, in virtù del fatto che le denominiamo così, omogenee tra di loro. La flessibilità non è rigidità indebolita, non è la rigidità più debole, è un'altra cosa. I correlativi non sono contraddittori indeboliti, sono un'altra cosa. La tipologia aristotelica va criticata in quanto non riconosce, anzi tende a mascherare, l'eterogeneità tra relazioni rigide e flessibili; ma ancora più criticabile è la riduzione del quadrato logico, nella versione medioevale come in quella di Frege.41

 

12. Immaginiamo però un interlocutore che non voglia apparire dogmatico, e che insista nell'affermare l'omogeneità delle relazioni oppositive; proviamo a immaginare qualcuno dei suoi argomenti. Egli potrebbe menzionare il verso di Catullo, "Odi et amo", e sostenere che questa "et" è un nesso di congiunzione perfettamente ammissibile e pienamente comprensibile nella logica separativa; e che, dunque, non vi è alcuna necessità di scindere stilisticamente le logiche, ipotizzando una logica dei legami. Come bisognerebbe descrivere la relazione conflittuale tra amore e odio? Evidentemente, non come un caso di contraddizione - qui gli opposti sono reciprocamente compatibili, pur nell'asprezza del conflitto - ma come un caso di contrarietà: uno di quei conflitti tra forze riscontrabili sia nel mondo della natura sia nel mondo psichico.

Quest'interpretazione è possibile: ma possiamo ritenerla adeguata? Nella sua apparente neutralità, questa descrizione opta per una determinata relazione oppositiva: la contrarietà, o meglio la subcontrarietà. In effetti, poiché la psiche di un individuo contiene una quantità finita di energie emotive, il conflitto tra amore e odio, decritto in base alla logica separativa, andrebbe trascritto così: "in parte amo, in parte odio". Entrambe le affermazioni sono vere (come può avvenire soltanto nell'ambito dei subcontrari).

Tra le relazioni contemplate nel quadrato logico, la subcontrarietà è la meno conflittuale, quella che si articola sull'incompatibilità meno forte:42 "alcuni hanno la proprietà y" - "alcuni non hanno la proprietà y" (oppure: esiste almeno un individuo che ha proprietà y" - esiste almeno un individuo che non ha la proprietà y"). Tuttavia nel caso che stiamo considerando, lo stato psichico descritto da Catullo, la conflittualità presenta un altro grado di intensità.

Proviamo un certo disagio: c'è qualcosa che non funziona, c'è come una stonatura nel nostro tentativo di analisi. Cerchiamo di comprenderne le ragioni.

 

13. Una persona ama e nello stesso tempo odia un'altra persona: dove possiamo collocare questo conflitto, guardando al quadrato degli opposti? E' già stata enunciata la risposta più plausibile: la relazione tra subcontrari. Tuttavia la relazione di subcontrarietà asserisce la possibilità di un individuo che smentisca la proposizione universale negativa, oppure di un altro individuo che smentisca la proposizione universale negativa; non sembra adatta a indicare il caso di un individuo che ospita predicati conflittuali.

In effetti è così: il quadrato logico riguarda i rapporti tra i quantificatori, universale ed esistenziale, e in ciò esaurisce la sua funzione. Se si vuole descrivere un conflitto tra predicati in un individuo, occorre considerare la versione linguistica-semiotica del quadrato, come l'ha proposta ad esempio Greimas. Qui non troviamo proposizioni, ma termini (nozioni).43 Questa costruzione è del tutto estranea alla dimensione del vero e del falso; in compenso, aggiunge nuove possibilità: un termine complesso, generato dall'unione dei contrari, e un termine neutro, generato dalla negazione dei sèmi che occupano i luoghi della subcontrarietà. Il carré sémiotique è una costruzione astratta, e dunque prescinde dal concreto investimento semantico dei luoghi che esso prevede. Nel caso che stiamo discutendo, peraltro, i termini misti non sono possibilità vuote:

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Dopo aver spostato la relazione amore/odio sul terreno pertinente, non possiamo fare a meno di riproporre tutti gli interrogativi precedenti: il quadrato semiotico presenta difetti analoghi a quelli del quadrato logico, cioè stile separativo e rimozione dei correlativi? Senza dubbio. E la differenza tra stili può venir chiarita proprio in rapporto ai casi misti.

Ciò che Greimas chiama termine complesso non è altro che il caso intermedio, indicato da Aristotele come possibile nella relazione fra termini contrari.44 Ma l'ambivalenza è una mescolanza tra amore e odio paragonabile, per esempio, a una mescolanza tra colori, dove il bianco e il nero producono il grigio? Sembra proprio di no. Ci sono mescolanze in cui ciascuno degli opposti rinuncia alla propria caratteristica, per dare luogo a un composto pacificato. Non è così che avviene in un sentimento di ambivalenza, dove gli opposti non si sciolgono l'uno nell'altro; semmai, lottano furiosamente.

A questo punto il filosofo, o il linguista, separativo potrebbe avanzare ancora una proposta: distinguere, nell'ambito dei termini complessi, casi irenici (sintesi più o meno armoniose) e casi conflittuali. L'ambivalenza amore/odio andrebbe a collocarsi in quest'ultimo sottinsieme.

Come valutare questa proposta? Le si può concedere una parziale plausibilità: d'altronde, il pensiero quotidiano non ci offre continuamente delle mezze verità? Bicchieri mezzo vuoti e mezzo pieni? Bisogna riflettere tuttavia sulle conseguenze di questa ostinata propensione al compromesso. Odi et amo significa "in parte ti odio, in parte ti amo"? Oppure "qualche volta ti odio, altre volte ti amo"? Talvolta questa descrizione potrebbe risultare accettabile: si tratterebbe di casi in cui il sentimento si è intiepidito, e risorge in maniera intermittente. Ma l'interpretazione migliore di Odi et amo è "ti odio proprio perché ti amo": i due sentimenti sono opposti, e tuttavia si alimentano reciprocamente, sono il sostegno l'uno dell'altro. La loro lotta conosce momenti in cui una delle due passioni prevale unilateralmente, un po' come nel ciclo cosmico di Empedocle: amore assoluto, oppure odio assoluto. Bisogna constatare però come il trionfo di una delle due passioni non sia mai definitiva: anzi, è la premessa alla resurrezione della passione opposta; e così si torna a stati di mescolanza furiosa. Tutto ciò accade perché le due passioni, benché inseparabili, non riescono a unificarsi. L'impossibilità di fare-uno è la maledizione che pesa sul loro infrangibile legame.

Questa è davvero l'interpretazione pertinente, se ci riferisce a casi realmente complessi, e ai quali si ha un accesso adeguato anche dal punto di vista delle dimensioni. Per restare nell'ambito del linguaggio: un micro-testo come "Odi et amo" si presta a letture semplificate, e anche a discussioni sterili. Soltanto se il contesto viene ampliato ci si può rendere conto della perdita, sul piano cognitivo, causata dal ricorso a nessi separativi.45

Perciò la tipologia degli opposti non deve venire ridotta, e il ventaglio delle possibilità dev'essere sempre disponibile. Un altro errore da evitare, infatti, è l'irrigidimento tassonomico: dati due termini che si oppongono, siamo in grado di stabilire con certezza, e definitivamente, quale tipo di relazione li lega? No, perché il linguaggio è abbastanza flessibile da rendere possibili torsioni e intensificazioni che soltanto la sua struttura più rigida tende a proibire. Consideriamo la distinzione tra opposti graduabili (come caldo - freddo) e opposti non graduabili (come maschio - femmina). "Gli opposti non-graduabili - osserva Lyons - quando vengono impiegati come espressioni predicative, dividono l'universo di discorso (cioè gli oggetti di cui sono predicabili) in due sottoinsiemi complementari".46 Però le lingue naturali non funzionano rigidamente: si può dire di una ragazza che è 'molto femminile' o 'poco femminile', ecc. "In casi come questo noi modifichiamo il sistema linguistico, sia pure temporaneamente. Riconoscere la possibilità di graduare antonimi di norma non-graduabili non implica che non vada fatta una netta distinzione tra antonimi graduabili e non-graduabili in un sistema linguistico".47

Nascono altre domande: fino a che punto una tassonomia può conservare la propria indipendenza, e anteriorità, rispetto agli usi effettivi dei parlanti? E viceversa: fino a quando l'esuberanza degli usi - il fattore pragmatico - lascia intatta una tassonomia?

In quella di Lyons i correlativi sono classificati come inversi: espressioni predicative a due posti che riguardano ruoli sociali reciproci (dottore / paziente, signore/ servo, ecc.), relazioni di parentela (padre/ figlio, ecc.), relazioni temporali e spaziali (sopra / sotto, davanti / dietro, prima / dopo, ecc.).48 Sarebbe davvero difficile giustificare la riflessione che è stata condotta finora, sulla base di questa classificazione. La banalizzazione è in parte comprensibile se si tiene conto di quello che è l'obiettivo di Lyons: una tassonomia, che si applica a lessemi. Nessuna apertura sulla dimensione della logica e della filosofia, e neanche dell'analisi letteraria. Ma a questa mortificante limitazione si ha il diritto di ribellarsi: perché riconoscere la legittimità (o la neutralità) di una tassonomia che ignora completamente un campo di problemi ai quali non può non riferirsi? Problemi non così lontani, tant'è vero che il libro di Lyons contiene capitoli dedicati alla logica e alla filosofia del linguaggio.

Appare quindi fortemente auspicabile il confronto, lo scambio di idee, tra specialisti di diverse discipline. Quanto ai correlativi, si dovrà riconoscere la loro specificità, irriducibile, e la ricchezza delle varianti. Mi limito a indicare tre direzioni di lavoro:

  • il legame tra correlativi non è riducibile a una ripartizione o ad una somma (a seconda che si considerino le parti oppure l'insieme). La solidarietà tra correlativi non è semplicemente una complementarità, ma un nesso molto più forte; si tratta di un'implicazione reciproca (mentre in una complementarità prevale comunque l'aspetto distributivo);
  • spesso i correlativi vengono pensati staticamente o come una simultaneità: "sembra che le cose relative siano simultanee per natura", dice Aristotele.49 Non è così: i due termini di una correlazione possono essere consecutivi, secondo un'alternanza obbligata; si pensi agli oggetti tossici, e alla circolarità delle due fasi di privazione e appagamento;
  • nessuna sostanza prima (nessun ente individuale) può avere un contrario, e tanto meno un contraddittorio.50 Quale potrebbe essere il contrario di Gabriele o di Luisa? Per Aristotele un individuo può accogliere in sé qualità contrarie in tempi diversi, restando il medesimo individuo, numericamente uno: chi è ricco può diventare povero, chi è grasso magro, e viceversa. Anche ipotizzando un caso limite, in cui due individui fossero completamente caratterizzati da predicati diametralmente opposti, è dubbio che si possa parlare di un rapporto di contrarietà.

Due individui possono essere amici o nemici, ecc: ma non contrari. E' possibile tuttavia che tra di essi s'instauri una correlazione; e non si tratta di un caso limite, quasi impensabile, bensì di una realtà facilmente e frequentemente riscontrabile. Ecco un altro motivo per non cancellare i correlativi dalla tipologia aristotelica: sono l'unico caso di opposizione che riguarda gli individui, e non i predicati o i quantificatori.

 

14. I correlativi sono l'ostacolo o meglio l'avversario che fa inciampare il pensiero separativo, smascherandone la rigidità; perciò si tenta in ogni modo di dissolvere la specificità di questa relazione o di risolverla entro una tassonomia addomesticata. Rivendicando la specificità dei correlativi non si mira però, semplicemente, a una tipologia più accurata - quest'obiettivo sarebbe davvero misero: la specificità dei correlativi è irrinunciabile perché è la possibile fonte di una logica non-separativa.

Torniamo al principio di non-contraddizione. Mettendolo in rapporto con la tipologia degli opposti, con la varietà dei tipi che esso presiede, ne abbiamo mostrato l'identità stilistica: il principio di non-contraddizione è sempre implicitamente modalizzato da uno stile di pensiero. Può agire nell'ambito di un pensiero rigido o di un pensiero flessibile: quest'insieme di possibilità implica che la flessibilità abiti nel cuore stesso di tale principio, di cui è quasi sempre stata valorizzata la versione rigida.

La differenza tra versioni può influire sui modi di formulazione? Secondo la formulazione aristotelica, il principio di non-contraddizione stabilisce che non è lecito attribuire la proprietà y a un soggetto A e nello stesso tempo negargliela, sotto lo stesso rispetto.51 Esiste un'altra formulazione, generalmente accettata come equivalente: il principio di identità, "A = A". Ma queste due formulazioni sono davvero equivalenti, nella sostanza? La risposta di Heidegger è negativa. A suo avviso, accade qualcosa nel passaggio dalla formulazione tradizionale a quella che si serve del segno di 'eguale': viene eliminata la polisemia del verbo essere a favore di un'indicazione univoca.

La polisemia non è un difetto, una lacuna, una fonte di disordine e di confusione, bensì un insieme di possibilità. Certamente, si può ridurre la polisemia di un concetto a un elenco, nel cui ambito ogni significato si allinea accanto all'altro nella reciproca indifferenza: in effetti è questo il modo di procedere della filosofia separativa, e non solo nell'epoca moderna. Nel caso del verbo essere, il più carico di suggestione ma anche di vaghezza nel linguaggio filosofico, per dissolverne l'aura, per abolirne la misteriosa riserva di senso, sarebbe sufficiente distinguere tra la funzione di copula, quella di identità, e quella di esistenza.52 Naturalmente la filosofia congiuntiva non rifiuta queste distinzioni; però ritiene indispensabile analizzare un quadro di distinzioni (elenco, tassonomia, tipologia) dal punto di vista stilistico. Così ogni polisemia si scinde, potenzialmente, nei modi di articolazione: ci sono tipologie che presentano una molteplicità ordinata e omogenea, senza alcun dissidio interno; altre, invece, e lo si è visto nel caso delle relazioni oppositive, sono il prodotto della fallacia separativa che tenta di cancellare l'eterogeneità dei tipi. Occorre dunque ritrovare il conflitto che le attraversa.

Se Heidegger propone di ritradurre "A = A" in "A è A", è per ritrovare una polisemia frettolosamente indagata e che si crede a torto di padroneggiare completamente; e comunque senza possibili sorprese. Il ritorno al verbo 'essere' consente di accedere al problema della differenza ontologica, ma anche di pensare il nesso indicato da "è" non come identità /eguaglianza, né come esistenza, né come appartenenza, bensì come Zusammengehörigkeit (co-appartenenza). Heidegger fa ricorso con frequenza, e sempre in momenti decisivi del suo discorso, a questa nozione che indica reciprocità, inclusione reciproca, e dunque correlazione. Non possiamo aprire qui una parentesi sul funzionamento della Zusammengehörigkeit nei testi heideggeriani; limitiamoci ad alcuni passi in cui viene affrontato il problema dell'identità.

Il punto di partenza è la scissione di una sinonimia. Heidegger rifiuta l'equivalenza tra l'eguale, il medesimo (das Gleiche) e lo stesso (das Selbe): "Nell'eguale scompare la diversità. Nello stesso appare la diversità".53 Vale a dire che das Selbe non esclude, ma include la differenza: il concetto di "stesso" in Heidegger viene interpretato congiuntivamente. Cerchiamo di chiarire ulteriormente questa posizione traducendola nel nostro linguaggio.

L'identico, inteso come 'il medesimo, l'eguale', esclude il non-identico. I due concetti sono incompatibili, che vengano pensati come contraddittori oppure come contrari: rigidamente incompatibili, così afferma il pensiero separativo. Heidegger afferma invece che è pensabile una relazione in cui l'opposizione tra identico e non-identico sia inclusiva. Come potremmo chiamare questa relazione? Disponiamo già di un nome, e di un'elaborazione concettuale, in grado di riferirsi ad essa e di descriverla correttamente? Sembra proprio di sì: se l'identico e il non-identico si co-appartengono, è perché sono correlativi. La Zusammengehörigleit di Heidegger è un'interpretazione dei correlativi aristotelici.

Con qualche novità, senza dubbio. La tipologia di Aristotele ha un carattere 'constativo': dice che esistono casi di correlazione. Abbiamo visto però, in precedenza, che qualunque tipologia può venir interpretata dinamicamente, grazie alla inesauribile flessibilità del linguaggio. Antonimi non graduabili, come maschile e femminile, possono venir trattati come graduabili, e comparire in enunciati perfettamente sensati. Anche la logica può agire flessibilmente, trasformando un'opposizione tra contraddittori o tra contrari in un'opposizione tra correlativi. Problema: ciò è sempre possibile, in linea di principio?

 

15. Scindendo la sinonimia tra das Gleiche e das Selbe, Heidegger scinde la nozione di 'identità'. Identità non significa necessariamente 'coincidenza': può venire intesa anche come 'non coincidenza'.

Definire l'identità soltanto come coincidenza è dunque una fallacia. Per quanto ci riguarda, non diremo più che "A = A" è il principio d'identità, se non aggiungendo una precisazione: è il principio d'identità separativo, è la versione separativa dell'identico.

Riprendiamo la domanda lasciata in sospeso: è sempre possibile trattare relazioni tra contraddittori o tra contrari come relazioni tra correlativi? Vale a dire: il principio di non-coincidenza - chiameremo così la versione scissionale-congiuntiva del principio di identità - è riferibile e applicabile a qualunque ente? Dobbiamo riflettere ancora sul significato della correlazione, nell'identità, tra identico e non-identico. Questa concezione dell'identità potrebbe venir giudicata bizzarra e incomprensibile: come negare che ogni cosa è eguale a se stessa, e a nient'altro? L'identità in senso stretto, cioè il rapporto tra un ente e se stesso, non ha forse necessariamente un significato separativo? Ogni cosa è separata da tutte le altre, ed è inseparabile da se stessa.

Ebbene, la tesi dell'identità scissionale (imperniata sulla correlazione tra identico e non-identico) va a colpire un doppio bersaglio: nega l'inseparabilità di una cosa da se stessa negando la sua separabilità da altre cose. L'identità è una relazione; ma non necessariamente la relazione che disgiunge un individuo dagli altri, bensì - per un certo tipo di enti - la relazione che lo congiunge a qualcuno di essi. L'identità viene intesa allora come identificazione'.

 

16. Ci serviamo di questo termine nell'accezione psicoanalitica.54 Secondo Freud l'identità di ogni essere umano coincide con la serie delle sue identificazioni: l'identificazione non è semplicemente immedesimazione, bensì un processo ampio, sovente conflittuale, in gran parte inconscio, e che modifica in maniera notevole la personalità precedente. Non esiste un Sé anteriore a un qualche processo di identificazione. La relazione tra il Sé e l'altro è dunque costitutiva, essenziale. Fa parte del carattere menzognero dell'Io la non consapevolezza di questi processi, e il porsi come soggetto pienamente autonomo. Si noti che il processo di identificazione è asimmetrico: A diventa B, interiorizzandolo parzialmente, ma B non diventa A. 55

Il concetto di identificazione sconvolge la teoria classica della predicazione, da Aristotele a Frege, a Quine, ecc. In base alla distinzione tra termini singolari (come Socrate) e termini generali (come ateniese, mortale, ecc.), si afferma abitualmente che un termine singolare è suscettibile di predicazione (posso dire che "Socrate è ateniese") ma non può occorrere come predicato (non posso dire "Platone è Socrate"). Per la logica congiuntiva, invece, anche i termini singolari possono trovarsi in posizione predicativa. In base alla teoria dell'identità come identificazione, è assolutamente legittimo dire che Platone è (stato) Socrate: con ciò si indica il fatto, difficilmente contestabile, che Platone si è identificato con il suo maestro, ne ha ripreso l'insegnamento, ha sviluppato una filosofia ispirata al suo pensiero. Bisogna certamente distinguere i tipi e i modi dell'identificazione, che è un processo scissionale-congiuntivo: l'identificazione può essere parziale o quasi totale, può riferirsi all'Io oppure all'Ideale dell'Io, può essere distintiva o confusiva (un esempio di confusivo è l'identificazione di Don Chischiotte con Amadigi di Gaula).

Va però rilevato che un processo di identificazione presenta una complessità solo parzialmente descrivibile mediante nessi predicativi. Identificandosi con B, A ne assimila alcuni tratti, e questi tratti possono venire indicati mediante proprietà, o comportamenti: si dirà, ad esempio, che A è (diventato) "un cavaliere errante che combatte per la fede cristiana, lotta contro i sorprusi, ecc"; ma che valore avrebbe questa descrizione per quanto riguarda Don Chischiotte? Anche se elencassimo tutti i tratti che il personaggio di Cervantes ha assorbito dal suo modello, la descrizione resterebbe schematica e povera.56 E' interessante riflettere su queste difficoltà, perché di qui possono nascere dei chiarimenti relativi al problema che stiamo indagando.

 

17. Bisogna chiedersi a questo punto quali siano i limiti da assegnare alla nuova teoria della predicazione. Abbiamo appurato che un termine singolare può comparire - senza incoerenze, in maniera assolutamente sensata - in posizione di predicato ("Platone è Socrate", "Don Chischiotte è Amadigi di Gaula"); ma ciò non vuol dire che qualunque termine singolare sia legittimato a svolgere un ruolo predicativo e comunque a proporsi come il termine di un'identificazione.

Ad esempio, si potrebbe parlare di un pioppo che è - che si è identificato con - una quercia? L'enunciato appare bizzarro, e non solo perché vengono violate regole semantiche, quadri di classificazione, ma perché il desiderio di essere riguarda verosimilmente solo enti dotati di coscienza. Ma se anche ammettessimo un embrione di coscienza negli alberi, la metamorfosi risulterebbe implausibile: la metamorfosi - che altro è l'identificazione? - è un processo che può riguardare soltanto enti flessibili, enti la cui identità non si riflette nella formula "A = A", ma nella correlazione tra identico e non identico. Solo per individualità flessibili (qui non ci preoccupiamo di redigerne l'elenco: stiamo discutendo di logica) vale il principio di non-coincidenza.

Due precisazioni:

  1. è importante non smarrire la differenza tra un processo di sostituzione proprietaria (Gigi era ricco, simpatico, elegante, ecc.; è diventato povero, antipatico, sciatto, ecc.) e un processo di metamorfosi legato all'identificazione. Quando ai predicati mediante cui si descriveva un individuo subentrano, in una quantità rilevante, predicati opposti, si può dire che quell'individuo è profondamente cambiato, che ha subito una 'metamorfosi'. Tuttavia Gigi potrebbe essersi inasprito perché non si trova più in una situazione di benessere economico, il che gli impedisce di prendersi cura del suo aspetto esteriore, ecc., senza che questo rovesciamento abbia nulla a che fare con processi di identificazione: infatti l'identificazione non è una metamorfosi 'proprietaria', descrivibile mediante un avvicendamento di predicati. C'è una componente prospettica in questo processo: identificarsi è assumere anche lo sguardo dell'altro, la sua visione, i suoi valori, il suo gusto;
  2. abbiamo detto che il principio di non-coincidenza funziona solo nell'ambito del flessibile; un ente la cui identità è rigida si colloca invece nel campo dell'identità separativa, A = A. Non è vietato immaginare, anche qui, delle metamorfosi: si pensi alle figure di Escher, per esempio a quello strano triangolo che sembra aver assorbito i tratti di qualche altra figura geometrica.57

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    Il punto però è questo: stiamo considerando una combinazione che ha un valore euristico e cognitivo, e che può essere giudicata vera o falsa, come nel caso dell'enunciato "Platone è Socrate"? Oppure il risultato di un'immaginazione morfologica sregolata, che può anche produrre effetti di grande suggestione, ma appartiene al confusivo?

 

18. Ancora una domanda: il confine tra rigido e flessibile non sarà a sua volta flessibile? Il che non equivale a un'assenza di confine, a un confine debole o vago, però costringe a interrogarsi sulle possibilità di metamorfosi. Ci occuperemo rapidamente, nel poco spazio ancora a disposizione, delle metamorfosi nel linguaggio, cioè in quelle modalità del linguaggio che sono chiamate figurali.

Le figure retoriche più suggestive (metafora, ossimoro, ecc.) sono in effetti figure congiuntive. Nel linguaggio figurale incontriamo metamorfosi dell'identità che richiamano i processi di identificazione; un’affinità confermata dal fatto che Lacan ha indicato il rapporto di identificazione del figlio con il padre, e il conseguente accesso al Simbolico, con l'espressione metafora paterna: il padre agisce come forza modellizzante, analogamente al focus metaforico (per usare la teoria di Black). Seleziona, enfatizza, trasforma.

Naturalmente non si dovranno trascurare le differenze: l'identificazione, così come ne parla la psicoanalisi, è un processo che ha generalmente per protagonisti enti che sono entrambi prospettici. Ciò non impedisce di pensare a casi di identificazione con un'entità astratta (un'istituzione: l'Università, lo Stato, ecc.) o anche con oggetti concreti.58 I processi retorico-figurali sono basati invece su relazioni stabilite da un soggetto che impone la sua prospettiva a enti che possono non averne una (o soltanto uno dei quali la possiede, come in "Pippo è un fulmine").

L'analogia tra metamorfosi psichiche e metamorfosi linguistiche sembra interrompersi del tutto se si assume il punto di vista della predicazione. Abbiamo visto che, nel caso dell'identificazione, un termine singolare può essere predicato di un altro termine singolare; figure retoriche come la metafora sembrano più vicine alla predicazione classica, anche quando pongono nella posizione di predicato non una qualità ma un oggetto. Dicendo "Pippo è un fulmine" non si fa riferimento a questo o quel fulmine, cioè a un ente individualizzato nello spazio e nel tempo, come quando si dice che Platone è Socrate, bensì ai fulmini in generale, alla classe dei fulmini, definita dalle loro proprietà specifiche.

Rimane ciò nonostante la sensazione che una metafora descriva una metamorfosi non proprietaria, non interamente traducibile in una serie di predicati. La parafrasi predicativa comporta una perdita sul piano cognitivo: si perde la componente prospettica, che ha il suo fondamento nell'individuo che propone o inventa la metafora, e che rimane percepibile anche nell'enunciato metaforico; non si percepisce più l'enfatizzazione operata dalla metafora - è una funzione sovente trascurata dagli studiosi che insistono unicamente sul nesso di similarità: la metafora agisce in parte come un'iperbole, intensifica e deforma. Se si tiene conto di questi aspetti, la metafora tende ad allontanarsi dallo schema predicativo classico.

Inoltre: non abbiamo forse imparato dalla moderna filosofia del linguaggio a diffidare della forma esteriore di un enunciato? Sappiamo che tra forma grammaticale e forma logica la distanza può essere anche notevole. Perché lasciarsi inibire, allora, dal fatto che il metaforizzante si presenta come un termine generale? Ciò che conta è la sua forma logica: e dal punto di vista logico l'espressioni metaforizzante (il focus della metafora) sembra agire come un termine singolare; o collocarsi a metà strada tra predicazione classica e predicazione di singolarità.

Quest'ipotesi riceve ulteriori conferme se prendiamo in esame gli ossimori. Bisognerà evitare i casi non pertinenti, quelli cioè in cui il conflitto non è una vera opposizione. Ciò accade, ad esempio, quando il conflitto non riguarda la medesima parte della psiche, bensì parti diverse (prescindendo dall'adesione alla teoria freudiana del soggetto diviso: si può continuare a utilizzare la tradizionale psicologia delle facoltà). Così il "Vorrei e non vorrei" di Zerlina ha ben poco di ossimorico, in quanto nasce da due diverse zone della psiche, il desiderio ("felice inver sarei") e la ragione, il timore razionale di essere ingannata ("ma può burlarmi ancor"). Qui la “e” non è ossimorica e paradossale, bensì antitetica e separativa. Un eccellente caso paradigmatico è invece rappresentato dal sintagma "lo splendore delle tenebre".59

Il criterio per riconoscere gli ossimori autentici è rappresentato dal quadrato semiotico (di cui accetteremo provvisoriamente i limiti). Mentre il conflitto tra desiderio e timore non è una vera opposizione, perché la nozione di 'desiderio' ha come contrario 'repulsione' e come contraddittorio 'non-desiderio', lo splendore e le tenebre formano una vera opposizione: un caso di contrarietà.

Nel sintagma che stiamo esaminando, però, l'opposizione è stata trasformata in specificazione: di quale splendore stiamo parlando? Di uno splendore che viene attribuito alle tenebre. Non abbiamo un'antitesi, bensì un nesso predicativo: la luce viene predicata dell'oscurità.

L'incompatibilità tra gli opposti è stata superata, la disgiunzione è diventata congiunzione. Prendiamo atto, ancora una volta, della flessibilità del linguaggio. Ma quale tipo di legame è stato stabilito? Non sembra che l'incompatibilità sia stata tolta mediante un termine intermedio (o complesso, come lo chiama Greimas): intermedia sarebbe la mescolanza tra luce e oscurità, come si percepisce all'alba o al crepuscolo. L'intenzione semantica che ha generato il sintagma qui esaminato è riconoscibile se la traduciamo in una prospettiva: prova a immaginare tenebre splendenti, in grado di abbagliare con la stessa forza della luce. Un'oscurità abbagliante, accecante.

Abbiamo ottenuto una forma predicativa classica? O una trasformazione congiuntiva? Non abbiamo mescolato gli opposti - è l'unica possibilità contemplata dalla logica separativa: i casi misti -, li abbiamo annodati. Però questo nodo non è aporetico: non produce paralisi, come quando dico che una verità è falsa, o una falsità è vera.60 Qui gli opposti si rafforzano vicendevolmente - non è così che accade nella co-appartenenza heideggeriana? Non possiamo approfondire questa somiglianza, né siamo in grado, qui, di spiegare perché certe opposizioni producano paralisi e altre no. Forse, in tutte le correlazioni non aporetiche, c'è una componente asimmetrica. "Festina lente" (Affrettati lentamente):61 un altro esempio eccellente di ossimoro. Non si tratta di un invito alla medietà (non essere né troppo veloce né troppo lento). Qui non si indica il giusto mezzo, ma il giusto estremo: affrettati - la velocità è una virtù strategica -, senza rinunciare ai vantaggi della lentezza. Non è un suggerimento di medietà, ma di inclusione: per appropriarsene non basta eseguire un calcolo, occorre un'intelligenza accorta e strategica. Augusto rivolgeva questa massima ai suoi comandanti.

 

19. Una serie di tesi in forma di elenco, guardando al percorso sin qui compiuto e a possibili sviluppi:

  • la logica scissionale (congiuntiva) è una logica paradossale ma non aporetica;
  • se manca, o viene meno, la componente scissionale, la logica congiuntiva diventa confusiva. Gli opposti vengono legati, per così dire, con nodi troppo stretti, che creano un blocco, una paralisi. Non c'è più possibilità di movimento;
  • la logica antica (Aristotele) e quella moderna (Frege, ecc.) si sono affidate a un solo stile logico, il separativo: uno stile che dovrebbe ridurre al minimo la possibilità di paradossi, e comunque garantirne la soluzione;
  • lo stile separativo è forse in grado di sciogliere tutti i paradossi incatenati, o aporie; ma non può pensare i legami logici che Aristotele chiamò correlativi, e che sono la fonte (o il principio) di una logica flessibile. I legami tra correlativi non sono errori o confusioni, tranne che nel sottoinsieme delle aporie;
  • occorre eliminare il postulato di incompatibilità tra gli opposti che rende impossibile la nascita di una logica congiuntiva, flessibile, scissionale (così come in geometria è stato negato il postulato delle parallele);
  • il postulato di incompatibilità trova la sua espressione più nota nel quadrato degli opposti (versione logica). La versione linguistica (quadrato semiotico) prevede casi misti, pensati però come derivati. Entrambe le versioni del quadrato sono vincolate al separativo;
  • una tipologia degli opposti non deve ignorare o minimizzare l'eterogeneità tra relazioni disgiuntive e congiuntive;
  • né si deve ignorare o minimizzare la differenza tra l'identità come coincidenza e l'identità come non-coincidenza (identità scissionale, correlativa);
  • una logica flessibile è del tutto diversa (fino a prova contraria) da una logica polivalente, e anche da una logica fuzzy. E non basta ammettere (o generare) proposizioni indecidibili per creare la flessibilità;
  • il principio freudiano di appoggio deve venire concettualizzato come principio logico;
  • l'elenco dei connettivi logici dovrà essere riformulato e arricchito: in una logica non più zerostilistica, si dovrà introdurre anzitutto il connettivo come;
  • ciò che chiamiamo linguaggio è una mescolanza di stili. Le figure retoriche, o perlomeno alcune di esse come la metafora e l'ossimoro, corrispondono a meccanismi congiuntivi: al di là dell'espressione grammaticale, vanno studiate nella loro forma logica.

Appendice

La logica curva dei correlativi: una riformulazione del quadrato degli opposti

E’ possibile riformulare e ampliare il quadrato logico, introducendo le relazioni congiuntive? Oppure dobbiamo considerarlo come uno strumento in grado di articolare solo relazioni disgiuntive (tra contraddittori, tra contrari, tra subcontrari)?  Se anche dovessimo giungere a questa seconda conclusione, non vi sarebbe nulla di sconfortante, dal mio punto di vista. Per me, ciò che conta è aver affermato la legittimità di una prospettiva che va compresa e giudicata anzitutto sul piano concettuale (gli sviluppi tecnici vengono dopo).
   Ho cercato di dissolvere il pregiudizio secondo cui esisterebbe un rapporto preferenziale (un’affinità inesorabile) tra principio di non-contraddizione e relazioni disgiuntive. In realtà, il principio di non-contraddizione esiste nelle sue differenti versioni, e i correlativi sono la versione più flessibile. Di conseguenza: in quanto esclude le relazioni congiuntive, negando loro una legittimità logica, il quadrato degli opposti rappresenta una grande fallacia, e di questa fallacia occorre liberarsi una volta per tutte.
   In che modo? Riconoscendo i limiti del quadrato logico (il suo monostilismo) e tentando un’elaborazione più ricca e completa, anche sul piano grafico. Ma come rappresentare graficamente i correlativi? Ecco la mia proposta:

appendice-scissionale_1.png

 

 

 

 

 

 

Le due frecce che puntano l’una contro l’altra rappresentano il conflitto (non mi interessano i correlativi irenici); la linea curva che li collega rappresenta l’interdipendenza, la presupposizione reciproca, e necessaria.
Dove inserire la relazione tra correlativi? Ci sono due possibilità: un inserimento ‘orizzontale’, sopra la relazione tra i contrari, e un inserimento ‘diagonale’, accanto alla relazione tra i contraddittori. Sarà sufficiente qui illustrare una delle due opzioni, quella che accentua il carattere paradossale: 

appendice-scissionale_2.png

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma la curvatura è stata scelta soprattutto per indicare l’elasticità, la flessibilità dei correlativi rispetto alla linearità rigida dei contraddittori e dei contrari. Un’ultima precisazione, benché ovvia: quando una logica è curva, lo è in maniera diversa da come potrebbe esserlo una rotaia, o una strada, o il manico di un’anfora (perché queste forme appartengono al rigido). 

Note

  1. Si obietterà che, storicamente, la logica congiuntivo si è presentata più volte, e forse prevalentemente, come una logica della sintesi. Obiezione che si può anche accettare, ma non discutere immediatamente, dato il carattere teorico e non storico di questo saggio. Vorrei però osservare che la dialettica hegeliana è meno schierata dalla parte della sintesi di quanto non si dica generalmente. In ogni caso, la perentorietà dell'affermazione va riferita alla mia prospettiva si ricerca. Mi piace pensare a questo articolo come a una succinta introduzione ad un testo di logica, che vorrei intitolare Elementi di logica scissionale (congiuntiva). Temo che parecchi aspetti di questo articolo risultino difficilmente comprensibili senza lo sfondo costituito da qualche mio lavoro precedente. Mi limito a indicare Teoria dello stile, La Nuova Italia, Firenze 1997, e Metafore e miscele modali, 2006.
  2. Cfr. lo schema dei due flussi in Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, 1916.
  3. La vaghezza dei confini non è incompatibile con la rigidità. Possono esservi molti dubbi sull'appartenenza di una certa zolla al monte Cervino, ma questo sembra essere un problema che interessa solo alcuni filosofi del linguaggio: dove si trovi il monte Cervino, dove lo si debba cercare – sia che lo si cerchi nella realtà oppure su una carta geografica -, è qualcosa che non lascia adito a nessun genere di dubbio.
  4. Cfr. ad esempio A. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma 2001; ma la terminologia (interpretazione e rivoluzione) è infelice.
  5. "Wir führen die Wörter von ihrer metaphysischen, wieder auf ihre alltägliche Verwendung zurück" (L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, 1953, Parte prima, 116).
  6. sulla formalizzazione della dialettica, cfr. i saggi riuniti in - a cura di D. Marconi
  7. esempi
  8. P. Odifreddi, C'era una volta un paradosso, Einaudi, Torino 2001, p. 147.
  9. Il riferimento palese è a Wittgenstein: "Die Ergebnisse der Philosophie sind die Entdeckung irgend eines schlichten Unsinns und Beulen, die sich der Verstand beim Anrennen an die Grenze dei Sprache geholt hat. Sie, die Beulen, lassen uns den Wert jener Entdeckung erkennen" (Philosophische untersuchungen, 1953; Parte prima, 119).
  10. "Alle Dinge sind verkettet, verfädelt, verliebt" (F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, 1883-85, parte quarta, "Il canto del nottambulo, 10).
  11. Cfr. E. Klein, Conversations avec le Spinx, 1991 (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1993, pp. 166-67)
  12. Cfr. Odifreddi, cit e M. Clark, I paradossi dall'A alla Z, 2002.
  13. Per la distinzione tra set-theoretical e semantic paradoxes, cfr. F. P. Ramsey, The foundations of mathematics, 1925
  14. Cfr. S Haack, Philosophy of Logics, Cambridge U.P. 1978 (trad. it. p. 170)
  15. Cfr. B. Kosko, Fuzzy Thinking: The New Science of Fuzzy Logic, 1993 (trad. it. Baldini e Castoldi, Milano 1995). Per il paradosso del sorite, si vedano le pp. 118-22. La logica fuzzy appare, per più di un aspetto, come la caricatura di un'autentica logica flessibile: ha il merito di non lasciarsi inibire dalle rigidità tradizionale, ma la via che persegue, semplicisticamente, è sempre quella del caso intermedio, della medietà. Per quanto riguarda la verità, si dice che essa ha una natura grigia (mescolanza del bianco e del nero, p. 104). E i paradossi? Sono mezze verità: "I paradossi sono letteralmente mezzo vero e mezzo falsi" (p. 127). Non è così: il semplicismo della logica fuzzy risulterà evidente quando analizzeremo la tipologia degli opposti.
  16. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-87, trad.it. p. 160.
  17. A. Tarski, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in L. Linsky, Semantics and the Philosophy of Language, 1952, trad. it. Il saggiatore, p. 32.
  18. Ibid., pp. 32-33.
  19. Ibid., p. 33.
  20. F.P. Ramsey, cfr. M. Dell'Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996, pp. 136-37.
  21. K. Popper, On the sources of knowledge and ignorance, 1960, ora in Conjectures and Refutations, 1963 (trad. it. Il Mulino, p. 223).
  22. A. Tarski, cit, pp.39-40.
  23. Ibid., pp. 52-53.
  24. Ibid., pp. 42-43.
  25. Ibid., p. 53.
  26. Ibid., pp. cfr. Haack, p. 174.
  27. Riprendo una metafora di Wittgenstein (Vermischte Bemerkungen, a cura di G.H. von Wright, 1977; trad. it. Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 84).
  28. F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1885-1887; trad. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere VIII, t. I, p. 299.
  29. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), p. 511. Ma la nozione era già stata introdotta nei Tre saggi sulla teoria della sessualità, 1905.
  30. cfr. P. Engel, La vérité. Réflexions sur quelques truismes, 1998; trad. it. De Ferrari, Genova 2004, pp. 29, 43, 55-56.
  31. A. Tarski, cit, p. 54.
  32. S. Kripke, Outline of a theory of truth, 1975; trad. it. in Esistenza e necessità, Ponte alle Grazie, Firenze,
  33. E' decisiva al riguardo la prospettiva stilistica: infatti stile significa linguaggio diviso (cfr. G. Bottiroli, Teoria dello stile, 1997, cit).
  34. G. Frege, Meine grundlegenden logischen Einsichten, 1915, in Nachgelassene Schriften(trad. it. Le mie idee logiche fondamentali in Scritti postumi, Bibliopolis, Napoli, p. 394
  35. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-87; trad. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1969, p. 110 e 224.
  36. cfr. casi in cui la soppressione appare plausibile
  37. Traggo questa barzelletta dall'Introduzione di Carlo Penco al volume da lui stesso curato, La svolta contestuale, McGraw-Hill, Milano New York 2002, p. XIII.
  38. Aristotele, Le categorie, 7 e Metafisica, V, 1018 a 20-21.
  39. Privazione è la negazione di quel che dovrebbe esserci per natura ("non chiamiamo sdentato un animale che non ha denti né cieco chi non ha vista", Categorie 10, 12 a 31-33).
  40. Anche a quelle che riguardano i futuri contingenti: per esempio "domani a mezzogiorno sarò a casa" e "domani a mezzogiorno non sarò a casa". Mi pare semplicistico, anzi del tutto errato, sostenere che la logica polivalente si occupi di contesti in cui il principio di non-contraddizione viene trasgredito. Ciò accadrebbe, per riprendere l'esempio, soltanto se domani a mezzogiorno io fossi, e nello stesso tempo non fossi, a casa. L'indeterminatezza che riguarda il futuro è dunque un differimento o una sospensione, non una violazione, del principio di non contraddizione - principio in cui abbiamo constatato una sorprendente flessibilità. L'indeterminismo non sembra violare neanche il principio del terzo escluso, a meno di non intendere tertium non datur come la pretesa di poter decidere immediatamente la verità di ogni proposizione che riguarda il futuro. Una pretesa che nasce da un equivoco: la possibilità di decidere 'sempre' non equivale alla possibilità di decidere 'adesso'. Bisognerà riprendere questi problemi: in ogni caso, si dovrebbe essere consapevoli del rischio di sopravvalutare l'apporto delle logiche polivalenti e fuzzy, banalizzando la prospettiva più nuova e più difficile, quello di una logica flesibile e scissionale.
  41. G. Frege, Begriffsschrift, 1879 (trad. it. Ideografia, in Logica e Aritmetica, Boringhieri, Torino p. 135)
  42. Non stiamo ritornando al punto di vista tradizionale. Infatti, come verrà precisato più oltre, i correlativi sono in molti casi più incompatibili dei contrari e dei subcontrari, benché siano al tempo stesso legati da un vincolo o da un'attrazione.
  43. Non che una lettura in chiave proposizionale sia impossibile; risulterebbe però evidente come qui non vi sia più spazio per il contrasto tra quantificatori. Nello schema che compare più sotto potrebbero comparire le proposizioni 'Qualcuno ama', 'Qualcuno odia', 'Qualcuno non ama, 'Qualcuno non odia', il che significa che la prospettiva è radicalmente mutata. Alcune indicazioni sui problemi tecnici, che qui non possono venire affrontati, si troveranno nell’Appendice.
  44. L'ambiguità degli esempi, in Aristotele, si è dunque rivelata feconda: racchiudeva la possibilità di due versioni diverse del quadrato.
  45. Rileggiamo nella sua completezza il testo di Catullo: "Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. // Nescio, sed fieri sentio et excrucior" (Odio e amo. Ma come, dirai. Non lo so, sento che avviene e che è la mia tortura" (traduzione di E. Mandruzzato, I canti, Rizzoli, p. 367). Altre traduzioni: "Ma tu mi vedi qui crocifisso al mio odio ed amore" (G. Ceronetti); "è proprio così, e mi tormento" (S. Quasimodo). Si può optare per una versione o per un'altra, ciò che conta è la differenza tra un conflitto a cui partecipano forze eterogenee (ad esempio la razionalità e la passione) e una tortura, alimentata da opposti omogenei. Questo conflitto, così come ogni circolarità tossica, potrà avere una fine, prima o poi: non è la durata che conta, ma il modo della conflittualità. La differenza tra un'opposizione tra contrari e una tra correlativi può essere colta in maniera decisiva osservando il loro dinamismo: i contrari funzionano a somma zero (ad esempio, più grande è la forza della razionalità, e meno grande è quella del desiderio), nei correlativi invece il rafforzamento è reciproco (più amo, e più odio; e viceversa).
  46. J. Lyons, Semantics :1, Cambridge U.P., 1977 (trad. it. Manuale di semantica, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 294-95).
  47. Ibid., p. 303.
  48. Ibid., 304.
  49. Aristotele, Categorie 7, 7 b 15.
  50. Aristotele, ibid., 5, 3b 24-25.
  51. Aristotele, Metafisica, IV 1005 b 20. La precisazione che riguarda il punto di vista è spesso trascurata come ovvia: se dico che Alessandro è più alto di Paolo e nello stesso tempo più basso di Giacomo, non incorro in una contraddizione.
  52. Così Wittgenstein, nel Tractatus, 3.323. Esempi:
  53. M. Heidegger, Identität und Differenz, 1957 (trad it. in "aut aut", p. 157).
  54. vs individuazione come riconoscimento, ecc procedura di accertamento dell'identità di una persona
  55. E' possibile che questa relazione sia simmetrica: 1) se A s'identifica con B e B s'identifica con A; 2) se A, B, C, ecc., si identificano con un medesimo individuo (ad esempio un leader) e di conseguenza si identificano tutti tra di loro. E' il caso descritto da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell'Io, 1921.
  56. Quali siano questi tratti è indicato nelle pagine iniziali del romanzo: "farsi cavaliere errante, e andare per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure ...", ecc. (M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1616; trad. it. Mondadori, Milano 1974, p. 24). Ciò non basta, evidentemente, per definire la personalità del protagonista.
  57. Immagine del triangolo di Escher
  58. “Oh, fossi io un guanto su quella mano per poter toccare quella guancia” (O that I were a glove upon that hand, // That I might touch that cheek) (Shakespeare, Romeo and Juliet, II, 2).
  59. Derivabile da B. Gacián, Oraculo manual y arte de prudencia, 1647 (trad. it. Rizzoli, Milano 1967, 13, p.39). In un contesto strategico, l'intelligenza accorta sa riconoscere "la tenebra tutta rivestita di luce; e così decifra la vera intenzione".
  60. In realtà, è possibile un'interpretazione sensata anche per questo enunciato: ciò si verifica quando "la sagacia tenta di trarre in inganno con la verità medesima" (B. Gracián, Oracolo, ibidem). Si ricordi la storiella menzionata da Freud: “Due ebrei si incontrano in treno, in una stazione della Galizia. 'Dove vai?' domanda il primo. 'A Cracovia', risponde l'altro. 'Guarda che bugiardo - brontola il primo. - Se dici che vai a Cracovia, vuoi farmi crere che vai a Leopoli. Ma io so che vai proprio a Cracovia. Perché menti dunque?" (Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, 1905; trad. it. in Opere, vol. V, p. 103).
  61. La massima viene attribuita da Svetonio all'imperatore Augusto (Vita di Augusto, 25, 4).