Il vino di Cervantes
Stili, verità, miscele modali
1. Nello Standard of Taste, Hume cita una pagina del Don Chisciotte.
“È con piena ragione (dice Sancio allo scudiero dal grande naso) che io pretendo di intendermene di vino ; è una qualità ereditaria nella mia famiglia. Due miei parenti furono, una volta, chiamati a dire la loro opinione su una botte che si supponeva eccellente, perché era vecchia e di ottima uva. Uno di loro la assaggia, ci pensa sopra ; e, dopo matura riflessione, decide che il vino sarebbe stato buono, se non fosse per quel leggero sapore di cuoio che egli vi sentiva. L’altro, dopo aver usato le stesse cautele, emette anche lui il suo verdetto in favore del vino, ma con riserva, per un certo sapore di ferro, che riusciva a distinguere nettamente. Non potete immaginarvi quanto essi fossero presi in giro per il loro giudizio. Ma chi rise per ultimo? Vuotando la botte, sul fondo si trovò una vecchia chiave cui era attaccata una striscia di cuoio”1
Il giudizio estetico, dice Hume, non è soggettivo - se soggettivo significa “arbitrario” - per il semplice fatto di implicare il soggetto e i suoi sentimenti. Niente ci obbliga a riconoscere la bellezza , e tuttavia la bellezza verrà riconosciuta da chi ha gli strumenti per riconoscerla, cioè da chi possiede regole generali e modelli eccellenti.
“Il produrre queste regole generali o dei modelli di composizione riconosciuti equivale a trovare la chiave con la lingua di cuoio, che giustificava il verdetto dei parenti di Sancio e confondeva quei pretesi giudici che li avevano condannati. Se la botte non fosse mai stata vuotata, il gusto degli uni sarebbe stato egualmente delicato e quello degli altri egualmente ottuso e languido, ma sarebbe stato più difficile convincere gli astanti della superiorità del primo” (1758, p. 37)
“Se la botte non fosse mai stata vuotata ...” : è in rapporto a questa considerazione, che vorrei tentare di rileggere il racconto di Cervantes non come un’allegoria estetica bensì come un’allegoria epistemologica. Al di là dell’ottimismo di Hume, che riteneva possibile (anche se non facile) “ridurre al silenzio i cattivi critici”, mi sembra indiscutibile che, nel caso dell’opera d’arte, e diversamente da quanto accade nelle scienze naturali, la botte non possa mai venire vuotata. Quali conseguenze dovremmo trarre da questa impossibilità? Cercherò di indicarle, schematicamente, facendo riferimento alla teoria degli stili di pensiero e al concetto di “rivoluzione modale” (cfr. Bottiroli 1997).
2. Le nozioni di “stile” e di modus, “modalità”, sono certamente legate ; ma il loro legame non è stato sempre riconosciuto, se non in un’accezione generica. Si può dire, anzi, che la riflessione sulle modalità (il possibile, l’effettivo, il necessario) si sia svolta senza alcun riferimento a una problematica stilistica , anche quando la dimensione del linguaggio era sotto gli occhi del filosofo. Perché questa “dimenticanza”? Anzitutto, perché con il termine stile la nostra tradizione indica aspetti periferici e ornamentali del linguaggio: aspetti, in ogni caso, che non intaccano il pensiero nella sua peculiare esistenza. L’eleganza, diceva Frege, possiamo lasciarla ai sarti e ai calzolai. Ma lo stile concerne solo l’eleganza, e altre proprietà estetiche del linguaggio? Per i filosofi analitici, osserva Marco Santambrogio, la precedenza della logica rispetto alla retorica, alla stilistica e a discipline affini è un principio troppo ovvio perché valga la pena di esplicitarlo (1992, 217). Questa ovvietà dovrà peraltro venire esplicitata, e rifiutata, da chiunque sia in grado di intuire che lo stile - inteso come stile di pensiero - è precisamente ciò che infrange l’unità illusoria della logica. Stile significa “linguaggio diviso”. Stile di pensiero è un’espressione che indica la necessaria pluralità delle logiche, e anche la necessità di ridefinire tutti i concetti modali, a partire dalla necessità. O forse dovremmo dire : “per arrivare alla necessità” poiché, nella teoria degli stili di pensiero, la necessità è qualcosa di costruito - equivale a ciò che è più difficile da costruire, e dunque arriva alla fine.
Riprenderemo questo punto. Ora vorrei mostrare, rapidamente, come la teoria degli stili giustifichi le sue proposte in relazione al dibattito della modernità. L’esigenza, o la possibilità, di una rivoluzione modale si è certamente affacciata anche in epoche precedenti : ma le sue condizioni di possibilità giungono a maturazione quando il problema del linguaggio diventa più pressante e ineludibile, in una cultura dominata dal modello della scienza. Ciò non significa che il primato delle categorie modali sia sempre legato a una tematica linguistica o epistemologica : si pensi a Kierkegaard, e alle analisi sui modi di esistenza nel primo Heidegger e in Sartre. Ma Kierkegaard doveva fare i conti con la scienza della logica hegeliana, e nella formazione di Heidegger il dibattito su scienze della natura e scienze dello spirito ha un peso determinante. In tal senso si può parlare della rivoluzione modale come di un evento (tuttora in corso, e per nulla scontato) che appartiene al “clima” della modernità.
Ogni evento si presta a venir raccontato, e ogni racconto ha i suoi protagonisti. Prima di offrire un elenco, comunque parziale, di coloro che hanno determinato, o stanno determinando, la necessità di una rivoluzione modale, sembra però opportuno circoscrivere questo concetto. Il termine rivoluzione viene usato qui, inizialmente, nel senso proposto da Kant nella Critica della ragion pura, cioè in un senso copernicano : si tratta di far ruotare qualcosa intorno a qualcosa d’altro. Più precisamente si tratta - rovesciando una lunga tradizione e delle abitudini di pensiero “più spontanee” - di far ruotare le categorie cosali intorno alle categorie modali. Un esempio, molto semplice, per introdurre il problema : immaginiamo di uscire da un’autostrada e di avviarci verso una città di grandi dimensioni. A un certo punto, osserviamo un cartello nel cui spazio triangolare le figure schematizzate di alcune automobili tendono a sovrapporsi : il cartello invita a diminuire la velocità e informa della possibilità di code. Ora, qual è la differenza tra una coda di automobili possibile e una coda effettiva? Kant, di cui sto modernizzando il celebre esempio relativo a “cento talleri”, direbbe che la realtà effettiva non aggiunge nulla alla possibilità, per quanto riguarda le determinazioni di contenuto. Il modus non modifica per nulla il dictum. Qui il dictum va inteso come “numero elevato di mezzi di trasporto, concentrati in uno spazio esiguo, che procedono a ritmo lentissimo”, e il modus è il ventaglio dei rapporti che un certo soggetto stabilisce con il dictum : quando vedo quel cartello, non so ancora (non lo so sempre, forse i miei dubbi scompariranno dopo la prossima curva) se esso mi annuncia una coda possibile o una coda effettiva ; ma sono certo - o dovrei esserlo, secondo molti filosofi - che la realtà effettiva non modificherà il “contenuto”, le caratteristiche concettuali sintetizzate dal termine coda, in una delle sue diverse accezioni nella lingua italiana. Naturalmente ogni contesto crea delle variabili : la durata di ciò che accade, le mie reazioni (attesa paziente, stizza, ecc), ma queste variabili non influiscono sui tratti semantici da cui è composta quella data nozione.
L’esempio appena menzionato ha i suoi vantaggi, nella prospettiva delle filosofie che potremmo chiamare, provvisoriamente, “non stilistiche” : per queste filosofie, il “che cosa” è, se non anteriore al “come”, senza dubbio autonomo, indipendente da esso. Il “che cosa” offre alla ricerca e alla riflessione un terreno solido : abbastanza solido per edificare concetti universali, secondo la tradizione metafisica ; e tale comunque da favorire la nascita di concetti pubblicamente condivisi nell’ambito di una singola comunità, per le diverse forme di relativismo culturale. Si pensi al caso del linguista alle prese con una tribù che parla una lingua del tutto sconosciuta. Passa un coniglio e l’indigeno, di cui il linguista ha deciso di considerare anzitutto le esclamazioni, dice “Gavagai !”. Secondo Quine, ideatore di questo notissimo esempio, non saremo mai in grado di stabilire se gavagai va interpretato come “coniglio” oppure “guarda c’è un coniglio” oppure “ecco una fase temporale di coniglio”, ecc. Questa era perlomeno la tesi di Parola e oggetto (1960): la traduzione resta indeterminata e il riferimento è inscrutabile. In seguito, però, Quine attenua la sua posizione : “il riferimento è un nonsenso eccetto che relativamente a un sistema di coordinate (1969, 77). In base al principio di relatività ontologica, comunicare e riferirsi ad oggetti diventa plausibile all’interno delle coordinate stabilite da una lingua particolare.
Alla luce di questi esempi - ma il loro fascio di luce, lo vedremo subito, è molto parziale - non riusciamo assolutamente a immaginare le ragioni della rivoluzione modale qui auspicata. Perché mai le categorie cosali, che sono “piene”, dovrebbero ruotare intorno alle categorie modali, che sono “vuote”? Quale contributo potrebbero offrire le categorie modali ai problemi della comunicazione, della traduzione, del riferimento? Nessun contributo, evidentemente, finché verrà mantenuta una concezione cosale della comunicazione e del riferimento ; finché i significati continueranno a essere concepiti come “cose”. Questa risposta, di carattere polemico, dovrà venir approfondita : ci sono entità - utilizziamo questo termine nell’accezione più generale e meno impegnata ontologicamente - per le quali non sembra inappropriato né inadeguato il termine res (e il suo riflesso semantico, il dictum); e ci sono entità che, pur suscettibili di una descrizione cosale - o, meglio ancora, fattuale -, smarriscono in descrizioni di questo tipo la loro identità più vera. Si pensi al tempo, all’essere, al significato, alla bellezza : il loro statuto concettuale rinvia, non soltanto ma più essenzialmente, alla dimensione del modus 2.
Che esistano oggetti belli, per esempio, non implica che la bellezza sia un qualcosa. La bellezza non è un’entità immateriale incorporata in quegli oggetti che ricevono da parte nostra un’approvazione euforica sul piano estetico. Non è uno “spettro nella macchina”. Essa risiede interamente nel modo di costruzione di un artefatto, se pensiamo all’opera d’arte ; nasce dal rapporto con uno spettatore o interprete ; la sua identità è lo stile (o meglio, l’intreccio degli stili), ma lo stile verrà percepito e afferrato solo da una persona competente. In prima istanza, diremo che la bellezza sta in un’opera bella non come lo spettro nella macchina ma come la chiave con la lingua di cuoio nel vino di Cervantes ; questa metafora rischia però di essere ancora troppo cosale. La bellezza sta nel sapore, nel modo di esistenza. La bellezza è modus, anche se la sua “oggettività” - la possibilità di confutare i cattivi critici - dipende da una res.
Il rapporto tra res (o dictum) e modus non è dualistico. Può esserci dualismo tra due cose, ad esempio la res cogitans e la res extensa, ma non tra un’entità e il suo modo di esistere. Il modo è la cosa modalizzata, e non un “qualcosa” che si aggiunge.
3. L’accenno al dualismo cartesiano riesce forse a far intuire alcune delle formidabili conseguenze che potrebbero essere legate alla rivoluzione modale. Chi conosce il dibattito, oggi vivissimo, nell’ambito delle neuroscienze e della filosofia della mente, comprenderà come qui si stia avanzando un sospetto di sterilità in relazione a molto aspetti di tale dibattito. Ammettiamo pure che sia legittimo parlare di una fallacia cartesiana : la psiche non è una res. Ma le posizioni eliminativiste, o riduzioniste, con i loro tentativi di riportare tutto nella sfera della res extensa, non nascono forse da una fallacia rovesciata, che potremmo chiamare “la fallacia di Ryle”? Il filosofo inglese si proponeva di eliminare lo spettro del “mentale” dal corpo-macchina. Le sue argomentazioni confluiscono in un altro celebre esempio - ma gli esempi non hanno stile? È lecito ignorare questo problema? (tra poco ne riparleremo). L’esempio ideato da Ryle serve a mostrare che cosa sia un errore categoriale, e più precisamente l’errore dei seguaci di Cartesio:
Immaginiamo uno straniero che visita per la prima volta Oxford o Cambridge. “Gli vengono mostrati biblioteche, aule, musei, laboratori, uffici, alloggi. Allora egli protesta di aver viste, sì, tutte quelle cose, ma non ancora l’Università, il luogo ove lavorano i membri dell’Università” (1949, 12). In tal caso, commenta Ryle, bisognerà spiegargli il suo errore:
“egli metteva l’Università nella stessa categoria a cui appartengono i suoi vari istituti. Qui una serie spaziale è vista come membro da aggiungersi ai membri della serie stessa.
È lo stesso errore che commetterebbe un bambino il quale, dopo aver assistito alla parata dei battaglioni, batterie, squadroni, ecc. di un reggimento, restasse in attesa di veder passare anche il reggimento : come se questo fosse un altro pezzo da aggiungersi a quelli già visti”
Ma l’errore dello straniero, o quello del bambino, sono veramente degli errori? Diremo che è errata anche l’affermazione, attribuita a Napoleone e ad altri strateghi, secondo cui un esercito è composto almeno per metà dallo “spirito”? Non è da una semplice parata che si può giudicare un esercito ! Chi vede semplicemente sfilare battaglioni e reggimenti avrebbe buoni ragioni per affermare di non avere ancora visto l’esercito. Ecco in che cosa consiste la fallacia di Ryle: nel ridurre la dimensione modale a quella cosale, e nel dichiarare inesistente ciò che non appartiene alla dimensione cosale.
Supponiamo ora - ci inseriamo in uno degli esempi fantascientifici di Putnam - di trovarci su Terra Gemella, e di aver deciso di visitare Oxford Gemella. Il Dipartimento di Filosofia risulterà identico a quello di Oxford, e fisicamente indistinguibile da esso : supponiamo però che i professori di Oxford Gemella siano tutti heideggeriani, mentre i professori terrestri sono tutti russelliani. Diremo ancora che i due Dipartimenti sono indistinguibili? La loro differenza non consisterà forse nella differenza tra due stili di pensiero così eterogenei da apparire a molti come reciprocamente intraducibili? Chi non se ne accorge, commette un tipo di errore categoriale non previsto da Ryle: ignorare le categorie modali, cosalizzarle.
A questo punto, però, è impossibile non rilevare come la nozione di “modus” si stia ampliando. Nel nucleo originario (la triade classica del possibile, dell’effettivo e del necessario) ha fatto irruzione il problema degli stili di pensiero, del pensiero come modus. Ci si chiederà se sia possibile stabilire connessioni feconde tra modalità classiche e stili, oppure se tutto ciò che hanno in comune è l’appartenenza al campo del non-cosale. Una risposta, in questo momento, sarebbe prematura. Proviamo ad andare avanti.
Non bisogna trascurare l’eventualità di un’obiezione, da parte di un seguace di Ryle o di qualche forma di comportamentismo logico (come quello globale di Dennett). L’obiezione potrebbe venire formulata così : non è vero che l’abolizione del “mentale” come res implica l’indifferenza alla dimensione del modus. Nella sue forme non riduzioniste, il comportamentismo afferma che gli stati mentali vanno intesi non come entità autonome, bensì come azioni eseguite in determinati modi. Gli esempi dell’Università e del reggimento dovrebbero forse venire abbandonati, in quanto rischiano effettivamente di condurre alla “cosalizzazione”. Tuttavia, rileggendo con maggiore attenzione l’esempio di Ryle, si noterà che egli definisce l’Università non solo come una somma di edifici, o una serie spaziale, ma come un modo di organizzazione : bisogna spiegare allo straniero che l’Università è “il modo in cui quanto egli ha visto è organizzato (the way in which all that he has already seen is organized”): null’altro rimane da vedere e da capire” . Inoltre, non bisogna dimenticare un terzo esempio, che segue immediatamente i primi due:
“Un profano assiste a una partita di calcio, e impara a distinguere attaccanti, mediani, terzini e portieri. Protesta di aver visto chi para e chi tira a rete, chi attacca e chi difende, ma nessuno incaricato di esercitare il gioco con “classe”. Bisognerà spiegargli che cercava malamente : la classe non è un compito calcistico supplementare, da aggiungersi a tutti gli altri, ma piuttosto, diciamo, la bravura con cui ogni possibile compito è eseguito”
La classe non è una cosa, bensì “la maniera in cui certe operazioni visibili sono compiute”. Ebbene, dire che un calciatore ha classe non significa forse riferirsi al suo stile? Questo terzo esempio appare eterogeneo (almeno virtualmente) rispetto agli altri due 3. Sta di fatto, però, che Ryle non fa rilevare questa differenza ; né di questa eterogeneità sembrano essersi accorti i suoi lettori : è sempre il primo esempio a venir menzionato come emblematico della sua posizione filosofica. A me invece interessa proprio l’incongruenza 4, che non smentisce l’esistenza di una fallacia di Ryle, e contribuisce semmai a farla riconoscere.
4. Bisogna imparare a valorizzare la presenza, nella filosofia analitica, di un pensiero “modalizzante”, che si esprime peraltro in maniera frammentaria e inadeguata. Questo impegno rientra in un più vasto compito di individuazione di tutte le direzioni di pensiero che meritano di venir fatte confluire nella rivoluzione modale. Per il momento, devo limitarmi a pochi e rapidi riferimenti. Impossibile non richiamare i nomi di Nietzsche e di Heidegger. Si faccia però attenzione. Il prospettivismo di Nietzsche è una filosofia modalizzante in quanto fa dipendere l’identità dallo sguardo e dalla mente dell’interprete (“non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”). Si cade però nell’errore, si banalizza in maniera inaccettabile la concezione nietzscheana se si crede che una prospettiva sia riconducibile o assimilabile a un’opinione. Il prospettivismo non è semplicemente una filosofia (o meglio un’ideologia) del molteplice : il pluralismo delle interpretazioni non si limita a moltiplicare le opinioni sul mondo, cioè il dictum.
In tal caso l’ermeneutica contribuisce soltanto ad alimentare la chiacchiera (per quanto Rorty la chiami conversazione). Ma che cosa significa che una prospettiva è modus? Una risposta non generica può venire solo dalla teoria degli stili di pensiero. Una prospettiva ha potenzialità euristiche, e non solo un contenuto doxastico, quando è pluristilistica, cioè quando nasce dal gioco e dal dialogo tra più stili di pensiero, oppure quando è monostilistica, ma spinta all’estremo, istigata a raggiungere la sua “forma superiore”. Il monostilismo dà i suoi risultati migliori nei linguaggi formalizzati.
Presenterò più avanti un esempio di intreccio tra stili di pensiero. Ora vorrei insistere su un punto che mi sembra fondamentale. Un teoria degli stili di pensiero è ovviamente una teoria dell’intelligenza, e delle sue forme : dunque, non può fare a meno di affrontare il problema della stupidità. Ebbene, tra le innumerevoli forme di bêtise, impossibili da catalogare nella loro grande agilità mimetica (Musil) ma di cui è comunque possibile indagare alcuni tipi, alcuni principi, va indicata la “bêtise del molteplice”. Si tratta della forma di stupidità (intelligente, in un certo numero di casi) più diffusa e tenace in un’epoca come la nostra, che si dichiara o si crede postmetafisica. La bêtise del molteplice trova la sua prima straordinaria descrizione nel saggio di Nietzsche sull’Utilità e il danno della storia (1873). Heidegger ne mette a fuoco un aspetto fondamentale ogni volta che sottopone a critica la “concezione numerica” (ho proposto questa denominazione in Bottiroli 1997) . Aderire alla concezione numerica significa privilegiare la coppia Uno/Molti. Ad esempio, la razionalità è considerata tradizionalmente una proprietà essenziale della specie umana. Chi intende l’essenza in un’accezione numerica si limiterà ad applicarla a tutti i casi che rientrano nell’insieme definito da tale essenza o proprietà : assegnerà dunque la “razionalità” a ogni elemento dell’insieme “esseri umani”. Ne consegue, per Heidegger, che proprio l’essenziale dell’essenza (in questo caso, la ragione), viene smarrito : perdiamo di vista l’eterogeneità dei processi razionali, il conflitto che definisce l’arco di possibilità della nostra mente. Perdiamo di vista la pluralità dei registri della psiche (Lacan), i regimi di senso.
Qual è il solco che divide il pluralismo e l’ideologia del molteplice? Un pensiero plurale non appiattisce le differenze nel momento stesso in cui le enfatizza, e riconosce i conflitti tra semplice e complesso. Il grande nemico è la semplicità, non l’unità.
Niente di più logico, allora, che proprio dalle teorie della complessità giungano molte conferme alla rivoluzione modale. Indicherò molto schematicamente dei punti fondamentali, utilizzando come quadro di riferimento la ricca sintesi di Mauro Ceruti.
- le teorie della complessità attribuiscono un ruolo non periferico alle categorie modali. Ecco una prima conseguenza : una specie continua a venir definita, tassonomicamente, in base a una serie di proprietà, ma è come se queste proprietà venissero oltrepassate da uno slancio che le rende instabili, e le espone avventurosamente al nuovo.
“ad ogni generazione, la specie esplora tutto lo spazio delle possibilità che le si aprono, lanciando nello spazio chiuso della lotta per la vita individui dotati di patrimoni genetici differenti, e affidandosi all’ambiente per selezionare le soluzioni migliori” (Ekeland). - Si può dire che ogni epoca, ogni cultura, e ogni visione del mondo siano caratterizzate da un orizzonte modale, e dal predominio, all’interno di tale orizzonte, di una delle categorie modali classiche. Ad esempio, il mondo antico e il Rinascimento privilegiano la realtà effettiva, l’effettività. Questa scelta produce un irrigidimento dell’ontologia : gli esseri sono quel che sono, le loro possibilità devono sfociare in forme prestabilite, e la necessità può svolgere tutt’al più un ruolo idealizzante (lo slancio verso la perfezione, l’individuo che realizza esemplarmente le potenzialità della sua specie o del suo gruppo).
Nel mondo moderno, la categoria del Possibile riesce progressivamente a imporsi. Nella sua ubris, essa aspira a mettere “fuori gioco” definitivamente la necessità. Tuttavia, mentre l’ideologia del molteplice scorge in questo eccesso una spinta positiva e liberatoria, le teorie della complessità rifiutano la tentazione riduzionista e propongono una revisione dell’intero assetto modale. Così la necessità non viene dissolta, ma ripensata secondo una logica paradossale. Necessario, diceva ad esempio, Aristotele, è “ciò che non può essere altrimenti”. Nella sfera della necessità non c’è spazio per le alternative. Ciò implica che la necessità o viene denegata oppure viene accettata come “originaria”. Necessario è ciò che esiste da sempre, ciò che esisteva anche prima. Niente di più paradossale, allora, di una necessità a posteriori, di una necessità che viene costruita. Eppure è nell’”accadere dopo” il paradosso di cui stiamo parlando : “La necessità si costruisce sempre, è sempre a posteriori” (Ceruti 1986, 132).
Questo punto merita qualche altra considerazione. Se si ammette che la necessità possa accadere dopo, se si pensa alla necessità non come “data” ma come “costruita”, la categoria del Possibile diventa la categoria per eccellenza dell’anteriorità. Detto in termini più semplici e più chiari : tutto accade su uno sfondo di possibilità ; tutto ciò che esiste - comprese le leggi della natura - appare come qualcosa che avrebbe potuto essere diverso. Ne segue che la Necessità viene messa fuori gioco, o soltanto che si rinuncia alla necessità come “unicità”, come “non poter essere altrimenti”? Ma come è possibile che necessità e pluralità non si escludano?
Una risposta plausibile viene dalla sfera estetica: le grandi opere d’arte sono necessarie, e tuttavia non si elidono reciprocamente. I grandi personaggi della letteratura rappresentano esplorazioni diverse, ma tutte egualmente legittime, dei nostri possibili destini. Siamo esseri plurali, e la grande letteratura è uno specchio fedele della nostra condizione. Dovremmo comprendere meglio, ora, il significato di una necessità costruita : la necessità non va pensata come invarianza, rigidità, staticità, bensì come la selezione dei possibili, l’elaborazione di possibilità grezze al fine di evolvere verso complessità e densità semantica. - Bisogna ripensare non solamente le singole categorie, ma le loro relazioni. Bisogna valutare la differenza tra uno stile di pensiero separativo, che crede all’estraneità reciproca, alla esclusione reciproca, alla contraddizione, e uno stile congiuntivo, che si ispira a una logica dell’intreccio, dell’inclusione. È la differenza tra Monod e Prigogine.
Il caso e la necessità. Per Monod, questa “e” è disgiuntiva, indica un conflitto, un rapporto di contraddittorietà. L’intrusione del caso nella sfera della necessità appare allora come qualcosa di miracoloso. Secondo Prigogine, invece, la “e” indica una co-appartenza, un rapporto (non necessariamente pacifico) di reciproca inclusione. “Le radici della vita -osservano Bocchi e Ceruti - sembrano affondare in un groviglio irriducibile di contingenze e di necessità, non in un miracolo di contingenza entro l’edificio granitico della necessità” (Origini di storie, 1993, 285). Questa interazione feconda tra necessità e contingenza esige una ridefinizione della “legge” ; ma poiché legge sembra evocare inesorabilmente tratti di rigidità, è opportuna anche una nuova denominazione : meglio parlare di vincoli. Intervenendo come vincolo, la Necessità rivela la sua vocazione selettiva e costruttiva :
“un vincolo (...) non limita semplicemente i possibili, ma è anche opportunità ; non si impone semplicemente dall’esterno a una realtà esistente prima di tutto, ma partecipa alla costruzione di una struttura integrata e determina all’occasione uno spettro di conseguenze intellegibili e nuove (Prigogine e Stenghers 1981, p. 1076). - Infine, le teorie della complessità si oppongono alla “naturalizzazione” del significato 5. Rifiutano cioè le argomentazioni dell’anti-mentalismo, nella misura in cui tali argomentazioni sollecitano una rinuncia alla storicità degli eventi e agli strumenti della spiegazione storic :
“Molti grandi campi della natura (...) devono essere studiati con gli strumenti della storia. I metodi appropriati si concentrano sulla narrazione, non sull’esperimento com’è abitualmente concepito” (Gould 1989, p. 284).
“Ogni storia, ogni narrazione implica degli eventi, implica che ciò che si è prodotto avrebbe potuto non accadere, ma ogni storia ha qualche interesse solo se questi eventi sono portatori di senso” (Prigogine e Stenghers, Tra il tempo e l’eternità, 1988, p. 48).
Si potrebbe sostenere però che il dissenso rispetto alle teorie comportamentiste e riduzioniste non è insormontabile. Non lo sembra, quantomeno, rispetto alle teorie che assegnano un ruolo rilevante alla narrazione (si pensi alla concezione di Dennett). D’altronde, la narratologia - dai Formalisti russi alle varie scuole semiotiche - non è forse nata dal rifiuto di attribuire al personaggio letterario un’essenza psicologica, dunque da una mentalità comportamentista? Il personaggio non è altro che la somma delle sue azioni, o tutt’al più la somma dei suoi semi (o tratti semantici) 6.
Bisogna dunque rivedere il concetto di “narrazione”. Il programma di ricerca della narratologia conteneva due grandi errori, che hanno determinato in tempi piuttosto rapidi una fase di stagnazione - fase che difficilmente si interromperà in assenza di una diagnosi adeguata delle cause. Il primo errore consisteva nel credere che il “che cosa” e il “come” di un racconto fossero realmente separabili, e nell’assegnare al “che cosa” anteriorità e autonomia : ancora una volta lo stile veniva spinto ai margini, considerato secondario, additizio. Il secondo errore diventa chiaramente visibile nella concezione del personaggio, inteso come portatore di azioni (o di proprietà). Anche quando l’attenzione dei ricercatori si è spostata dal “fare” all’”essere”, il personaggio ha continuato a venir studiato come dictum e non come modus. Si è dimenticato che un personaggio (complesso) è portatore di sguardo, di un modo di vedere, di un intreccio tra stili di pensiero.
Le teorie narratologiche si sono concentrate sull’aspetto fattuale della narrazione, trascurando la dimensione semantica. O meglio, non trascurandola ma riducendola. A ben vedere la narratologia - e lo stesso può dirsi per numerose filosofie della mente - non ignora il problema del significato : il punto è, tuttavia, che il significato viene subordinato alla serie degli avvenimenti, alla logica dell’azione. Parleremo di una semantica fattuale per indicare questo tipo di subordinazione.
Mi sembra che alcune filosofie della mente, per evitare la fallacia dualistica cartesiana o neo-cartesiana, abbiano adottato una qualche versione della semantica fattuale. Per evitare di concepire il significato come una res, hanno tentato di seguire la via del modus (lo abbiamo accennato, prima, a proposito di Ryle e dell’esempio che riguardava la classe di un calciatore). Ma con grandi limitazioni : i modi del pensiero vengono o riportati a una molteplicità di azioni osservabili o abbandonati a una molteplicità ineffabile di rappresentazioni private. E le teorie della complessità?
La domanda che una teoria degli stili di pensiero pone alle teorie della complessità è precisamente questa : la rilevanza del significato, nei racconti che gli scienziati elaborano, va al di là della dimensione fattuale? Nel passaggio dalla spiegazione naturalista alla narrazione storica, che è narrazione multipla, quale concezione del significato viene implicitamente adottata? Per essere adeguatamente compresa, tale domanda richiede qualche precisazione. Che cos’è il significato, nella prospettiva degli stili di pensiero?
Come si è già detto, lo stile implica sempre divisioni. Parlare di stili di significato vuol dire che il significato è diviso (e non semplicemente moltiplicato o disperso in mille rappresentazioni). Emerge adesso, dopo quello copernicano, il senso politico della rivoluzione modale. Tutte le rivoluzioni (politiche) comportano delle lacerazioni : userò l’espressione scissione modale per indicare la scissione tra fattuale e semantico - e anche, naturalmente, tra una semantica subordinata al fattuale (eteronoma) e una semantica autonoma.
Ogni narrazione complessa, ogni narrazione che presenta elevate qualità estetiche, conferma la necessità della scissione modale. In questa sede dovrò affrontare la questione con brutale sinteticità, ma spero di fornire dei chiarimenti. Un’opera letteraria è composta non tanto da un “che cosa” e da un “come”, quanto da un artefatto e da un oggetto virtuale. Nell’artefatto rientra la narrazione pura, la serie organizzata degli eventi ; l’oggetto virtuale non è altro che la possibilità di costruire interpretazioni sempre nuove e più ricche. Ma, si badi, non tutte le inferenze compiute dal lettore sono interpretazioni. Alcune inferenze hanno carattere fattuale e ricadono nella “cosalità” dell’opera.
Perché Jago odia Otello? La critica shakespeariana ha fornito risposte di carattere fattuale : perché il Moro non l’ha promosso suo luogotenente ; perché crede che Otello abbia avuto una relazione con sua moglie Emilia. In quanto determinato da motivi, ragioni o cause, il comportamento di Jago diventa “significativo”, dotato di senso. Tuttavia, come ha osservato Alessandro Serpieri, “un rancore puramente fattuale” può gettar luce sulla semantica dell’azione, non sull’identità di Jago , non sul modus della sua esistenza. L’identità di Jago resta dunque non analizzabile? Era la tesi di Coleridge. D’altronde, un’analisi delle sue motivazioni profonde, della sua interiorità, rischia di ricondurci verso le essenze psicologiche così fortemente svalutate dalla narratologia , e in genere dalla critica contemporanea. Ebbene, non si tratta di chiedersi “che cosa c’è nella testa di Jago” ma di analizzarlo come portatore di uno stile di pensiero, o di un intreccio di stili. È possibile sostenere (mi appoggio nuovamente all’indagine di Serpieri) che il personaggio di Shakespeare dipenda dalla combinazione - dalla collaborazione feconda - di due stili : in quanto dominato dal primo, che è confusivo e iperbolico, Jago crede che tutte le donne siano sgualdrine, e che debbano essere severamente punite ; in quanto portatore del secondo, che è distintivo, strategico e litotico, Jago s’impadronisce con infernale astuzia della mente di Otello. Il rapporto tra i due personaggi è stato descritto da Serpieri come un rapporto di proiezione distruttiva : in effetti, alla fine della tragedia, a proposito di Otello si può dire (trasformando una celebre formula di Freud) che “Dov’era Io, là è diventato Jago”. Otello agisce l’inconscio di Jago.
Questo tipo di analisi apre prospettive vietate dalle restrizioni fattuali. Il significato dell’opera non è, banalmente, la somma dei “perché” che giustificano la serie delle azioni. Il racconto dei fatti viene assorbito nel racconto dell’identità.
5. C’è un altro esempio che può aiutarci a capire la differenza tra una semantica eteronoma, piatta, subordinata alla trama narrativa, e una semantica autonoma, divisa, conflittuale, dove i regimi di senso si intrecciano e danno vita a formazioni complesse. Come il precedente, anche quest’esempio è eterogeneo rispetto agli esempi normalmente utilizzati nella filosofia analitica ; non è fantascientifico né quotidiano ; è tratto, nuovamente, dalla grande letteratura. Gli esempi fantascientifici - cervelli nelle vasche, marziani dotati di poteri laplaceani che partecipano a gare di previsione contro i terrestri, ecc. - ci costringono a uno sforzo d’immaginazione che paralizza la sensibilità allo stile. Del tutto diversa è la natura di quei “rompicapo” che improvvisamente riusciamo a vedere in un testo letterario. Non sono gomitoli di lana da districare (secondo una metafora, che mi sembra infelice e comunque “separativa”, di Wittgenstein ; 1939, 220), bensì tessuti multicolori, la cui forma - sono abiti da indossare? - resta indecisa.
Torniamo all’inizio di questa riflessione. L’aneddoto di Sancho, così sbilanciato sul versante allegorico, conferma la tesi di una scissione modale. Qui, come in ogni allegoria, il significato non svolge compiti servili nei confronti della diegesi ; al contrario, la nostra sensazione è che gli elementi narrativi siano stati scelti e disposti in funzione di una sovrabbondanza di senso. Il principio allegorico è soverchiante rispetto al principio narrativo.
Un’allegoria epistemologica, oltre che estetica, si è detto all’inizio. Propongo di denominarla allegoria delle miscele modali. Confido nella suggestione di quest’allegoria nel momento in cui mi accingo a interrompere la mia riflessione (tutta da riprendere e da approfondire). Che cos’è una miscela modale, e quante se ne possono immaginare e descrivere? Vorrei limitarmi qui a due tipi di “cocktail”. Il primo è quello delle scienze naturali, il secondo è rappresentato dall’arte e dalla filosofia. La mia tesi è che ogni “sapere” e ogni “visione delle cose” si fondano su relazioni intermodali, caratterizzate da una gerarchia e comunque da un obiettivo strategico. Nel caso delle scienze naturali, possibilità e necessità risultano subordinate all’effettività. Si obietterà forse che per questa strada si torna a una visione ingenuamente positivista della scienza, e si dimentica che i fatti sono “carichi di teoria”. Ma qui non stiamo valutando i contenuti della teoria, la sua presenza e il suo peso : stiamo affermando che il primato dell’effettività costringe lo stile della teoria a essere fattuale. Se ci si possa opporre a tale costrizione, è un problema che dovrà essere discusso. Nel caso dell’arte e della filosofia, la miscela modale è diversamente orientata : il primato appartiene a possibilità e necessità ; in maniere diverse, filosofi e artisti sperimentano “possibilità necessarie”. Ciò rende possibile (non automatico o necessario) la dominanza del principio semantico, ma comporta altresì una conseguenza a cui Hume accenna appena, e in forma ipotetica : la botte non può venire vuotata, la chiave con una striscia di cuoio non è recuperabile 7.
La diversità delle miscele può venire interpretata in due modi : si può pensare che i discorsi anti-effettuali o non-effettuali siano estranei alla verità ( è un antico pregiudizio, sempre vivo e pronto a riaffacciarsi) 8; oppure si può mettere in discussione il legame privilegiato tra effettualità e verità, e affermare che la verità è divisa. Non nel senso di una “doppia verità”, ma di verità modalmente diverse. La verità è una questione di stile, diceva Oscar Wilde, in un’epoca in cui lo stile era privo di teoria. Oggi la questione può essere affrontata nella sua reale complessità, senza scolorirla nell’ideologia del molteplice.
Note
- Cervantes, Don Chisciotte, II, cap. 13 (cit. in Hume 1758, pp. 35-36).
Vorrei dedicare quest’articolo a Franco Brioschi, che è sempre stato così generoso nei suoi suggerimenti, e che di recente ha richiamato la mia attenzione su questo scritto di Hume. - Questo elenco si interseca parzialmente con quello degli incorporei nella filosofia stoica. Credo però che gli stoici mirassero più a una fisica del senso, a un’energetica del senso (per quanto Deleuze parli di “logica”) che non a una teoria del significato come modus, a una semantica il cui il problema dello stile diventa decisivo. Per gli Stoici la differenza decisiva passa tra essere e extra-essere, tra corpi o stati di cose e effetti o eventi incorporei : tra “l’albero è verde” e “l’albero verdeggia”. Nella mia prospettiva, questa è semplicemente la differenza tra il cosale e il fattuale, e non tra il cosale-fattuale e il semantico. Che la filosofia degli stoici, almeno nella lettura di Deleuze, ignori il problema della scissione modale, mi sembra chiaramente visibile in quest’affermazione : “Non si chiederà quale sia il senso di un evento : l’evento è il senso stesso” (Logica del senso, 1969, p. 27).
- Nella versione originale, il terzo esempio di Ryle concerne l’incapacità di vedere l’esprit de corps (team-spirit). Mi sono attenuto alla traduzione italiana di Rossi Landi, che non mi sembra modifichi la sostanza del problema.
- Incongruenza possibile, come forse è il caso di ripetere. La fallacia di Ryle consiste nel trasformare l’incapacità di vedere i fenomeni stilistici (la classe, lo spirito di corpo, ecc.) nella stravagante pretesa di vedere qualcuno che avrebbe l’incarico specifico di “manifestare” tali fenomeni. In tal modo Ryle getta il discredito su chiunque voglia rivolgere la propria attenzione agli aspetti modali.
- Potremmo dire che le teorie della complessità propongono non un’epistemologia naturalizzata (come auspica Quine), bensì un’epistemologia semantizzata. Il problema del significato deve però venire chiarito ulteriormente.
- È la concezione proposta da Barthes in S/Z. Era la concezione dell’Io in Hume?
- Le due miscele modali non corrispondono alla distinzione tra scienze naturali (o scienze esatte) e scienze umane. Sembra infatti che la storia, come disciplina “fattuale”, si avvicini alle scienze della natura mentre la matematica, orientata verso le possibilità necessarie, si sposta verso arte e filosofia. Queste considerazioni hanno ovviamente un carattere impressionistico.
- Tra le molte formulazioni di questo pregiudizio, che si basa sulla confusione tra verità e referenzialità : “il Poeta non afferma nulla”, Philip Sidney, The Defence of Poesie (1595) ; “Lo scopo di un poema nel quale figurano le parole “raggio di sole” e “nube” non è quello di darci informazioni metereologiche, ma quello di esprimere certe emozioni del poeta e di destare in noi emozioni analoghe” (Carnap).
Bibliografia
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