Skip to main content

Plasticità e pudore

In “Spazio Filosofico”, numero 05, maggio 2012

1 . Prima di essere un atteggiamento, il pudore è uno stato emotivo; e come tutte le emozioni, è parzialmente indeterminato. Nella sua incertezza, tuttavia, il pudore è sicuro di sé: non sa ancora esattamente quale forma assumere, e però è definito dal rifiuto istintivo dell’informe: sa che l’informe non potrà essere mai la sua meta.

Quali potrebbero essere dunque le mete del pudore? Uso un termine freudiano, uno dei termini con cui Freud indica i quattro fattori della pulsione; credo che la concezione del Trieb sia un buon punto di partenza per tutti gli stati emotivi. Preliminarmente allo smontaggio in diversi fattori, dobbiamo però considerare la ‘natura’ della pulsione: o meglio il suo statuto teorico, perché la pulsione non ha una natura o un’essenza, nell’accezione tradizionale. In quanto definita dalla pulsionalità, la condizione umana è fondamentalmente plastica.

Freud non è certamente il primo a insistere su una caratteristica che non è una proprietà, bensì un modo d’essere (per riprendere una delle distinzioni heideggeriane di Essere e tempo). All’inizio della sua grande opera, Montesquieu caratterizzava così la nostra condizione: “l’homme, cet être flexible”.1 Una definizione che anticipa quella nietzscheana dell’uomo come l’animale non ancora stabilmente determinato – non ancora: cioè mai, in una prospettiva che privilegia la virtualità. Ebbene, Freud non si limita a inserirsi in una tradizione, i cui rappresentanti più prestigiosi sono stati quasi sempre fraintesi: nella flessibilità si è voluto vedere una giustificazione del relativismo, mentre la vera flessibilità non è relativista o scettica.

Senza dubbio, la flessibilità non ha saputo trovare per molto tempo un’elaborazione che la preservasse dagli equivoci, in cui la maggior parte dei suoi fautori peraltro si riconosceva. Così ha prevalso un’alternativa rigida tra la rigidità e la ‘disponibilità al contesto’: potremmo usare quest’espressione per indicare ciò che è stato chiamato relativismo, nelle sue innumerevoli varianti (l’ultima è l’ideologia postmoderna). Troviamo però in Freud le indicazioni per una teoria non banalmente o mollemente relativistica della flessibilità.

La prima riguarda la visione generale della condizione umana: se ci limitassimo ad asserire l’enunciato ‘gli uomini sono esseri flessibili’, rischieremmo di riportare la flessibilità a uno statuto proprietario. Ma la flessibilità non è una proprietà (una Eigenschaft): questa è piuttosto la concezione relativista, subordinata alla concezione proprietaria degli enti. Si dovrà invece attribuire a Freud una visione conflittuale, secondo cui gli uomini sono definiti dal conflitto tra il rigido e il flessibile.

Inoltre, troviamo in Freud una distinzione che concerne il grado – benché non sia plausibile immaginare valutazioni metriche, ma soltanto stime relative: le pulsioni sessuali sono più plastiche di quelle autoconservative (o pulsioni dell’Io). Inizialmente, le pulsioni sessuali si appoggiano a quelle autoconservative, poi si svincolano da esse e iniziano a esprimersi in una molteplicità di vie, con forme anche bizzarre e sconcertanti. Vorrei conferire il massimo risalto alla nozione di Anlehnung: chiamerò principio di appoggio la possibilità che il flessibile si emancipi dal rigido, senza rinunciare a includerlo. Tale principio sembra promettere agli esseri umani una libertà illimitata: non è così, perché la rigidità – Freud l’ha indicato con la nozione di Todestrieb, pulsione di morte – restringe la nostra esistenza anche quando ci offre l’illusione di espanderla.

 

2 . La plasticità è desiderio ed esigenza di forma? Sì e no, dovremmo rispondere. No, cioè non necessariamente, in quanto nella plasticità può farsi strada un’attrazione per l’informe, per l’eccesso, per l’osceno. Sì, perché la vita, nelle sue manifestazioni superiori, è plasticità che acquista forma.

Dunque plasticità significa anzitutto ‘possibilità’. Le mete delle pulsioni sono possibilità. Con Freud, e con Lacan, dobbiamo indagare quella possibilità chiamata sublimazione.2

La sublimazione come una delle vie del pudore. Nel Seminario VII, Lacan accentua la differenza tra idealizzazione e sublimazione: l’idealizzazione implica il processo della rimozione, dunque poggia su una inibizione. L’idealizzazione rifiuta la materia scabrosa, ne ha orrore. Ne conseguono sentimenti come il disgusto, la repulsione, nei riguardi di tutto ciò che appare come troppo attinente alla corporeità. L’idealizzazione è desiderio di purezza.

La sublimazione è un processo diverso: non distoglie lo sguardo dall’impuro e dall’orrore, non erige un muro. Certamente, anche la sublimazione è una barriera difensiva, ma in essa prevale la trasformazione. La sublimazione sopporta lo sguardo medusizzante che proviene dall’alterità, e si affida a Eros per contrastarlo, per renderlo inefficace, per deviarlo in altre direzioni.

Affermare la differenza tra questi due processi è di estrema importanza, sul piano etico e su quello estetico: e forse ci permette di ritrovare un’inattesa solidarietà tra due dimensioni che dobbiamo continuare a distinguere, ma non dogmaticamente. Sceglierò come punto di partenza la dimensione estetica, ancora in riferimento al Seminario VII di Lacan.

Troviamo qui una definizione dell’arte come “organizzazione del vuoto”. Definizione evidentemente non-mimetica. Non ci sono oggetti che l’arte possa rappresentare – ma per evitare di compiacersi nel paradosso, si può proporre una formulazione più smorzata: esiste palesemente un’arte ‘rappresentativa’, nell’accezione più condivisa di questo termine, ma il fenomeno dell’arte non può venire pensato adeguatamente a partire dal rappresentativo, dal mimetico. Non si può pensare la verità dell’arte a partire dal rapporto tra opera d’arte e realtà effettuale (Wirklichkeit). Dunque, l’arte non trova i suoi oggetti nella realtà effettuale, benché si serva dell’effettualità come materia prima. L’oggetto che l’arte è chiamata a elaborare – attraversando gli oggetti empirici - è ciò che Lacan chiama das Ding.

La Cosa di Lacan non è semplicemente il noumeno di Kant, benché il noumenico possa venir considerato, a mio avviso, una delle sue versioni. Principalmente, la Cosa è il reale, uno dei nomi del reale (che in Lacan, lo ricordo, non è la realtà). La realtà è correlativa al linguaggio nella sua funzione separativa, comprende tutto ciò a cui attribuiamo confini netti;3 il reale è ciò che sfugge al linguaggio, non tanto per sottrazione, non perché sia totalmente inattingibile, quanto perché il linguaggio non riesce a circoscriverlo adeguatamente, e comunque non interamente.

La Cosa, das Ding: il vuoto che circola nella presunta pienezza della realtà, non come intervallo tra i suoi oggetti, o dentro alcuni oggetti, ma come forza che ne disfa i confini. Perciò il vuoto va pensato come un vortice che attrae, che tenta di aspirare il soggetto. Das Ding è l’informe, il caos contro cui l’arte opera conflittualmente: “Dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma … è questa, qui, la grande ambizione” (Nietzsche).4

Va riproposta a questo punto la differenza tra inibizione e sublimazione. Per molto tempo, l’estetica ha valorizzato il primo di questi due processi, esaltando la bellezza come armonia, dunque come un conflitto risolto nella pacificazione; come rimozione del basso, della bruttezza materica, della corporeità non idealizzata (e non idealizzabile). Tuttavia, quando è principalmente l’esito di un’attività inibitoria, l’arte risulta priva di forza; i suoi esiti possono venire apprezzati solo tiepidamente. La grande arte va invece concepita come l’esito della sublimazione, dalla lotta a viso aperto con das Ding.

 

3. Credo che a questo punto la linea argomentativa della mia riflessione sia sufficientemente chiara. Mi sto interrogando sulla necessità del pudore nella prospettiva di un pensiero flessibile, a partire da una concezione non proprietaria degli esseri umani. Non proprietaria significa che non bastano le proprietà accidentali per spiegare la nostra plasticità. Significa che si intende rinunciare a presunte proprietà rigide – universali e necessarie -, per analizzare l’ente che noi stessi siamo. Con questa espressione vorrei confermare il mio debito nei confronti del pensiero di Heidegger.

E’ ancora Heidegger a indicare una definizione, greca e non proprietaria, della condizione umana. E’ la celebre definizione enunciata nel Coro dell’Antigone: “molte sono le cose inquietanti, ma niente di più inquietante dell’uomo”. Tò deinótaton: ciò che vi è di più inquietante (das Unheimlichste). Questa espressione, osserva Heidegger, “non mira ad attribuirgli una qualità specifica, come se l’uomo fosse anche qualcosa d’altro”.5 Qui l’uomo appare come un essere di frontiera – un essere che “fuoriesce, sfugge a quei limiti che sono anzitutto e per lo più familiari”. L’uomo è l’essere più inquietante perché è il più flessibile.

 

4. Per quale motivo dovremmo accettare quel limite chiamato pudore? Noi, che viviamo oltrepassando limiti, che ci alimentiamo della possibilità di oltrepassare. Coerentemente con la mia prospettiva, posso cercare delle risposte solo nella flessibilità, e non contro di essa. Se è opportuno che ci siano limiti alla flessibilità – e credo che sia così – questi limiti non potranno venire trovati all’esterno, analogamente ai limiti intramondani. La variabilità storica dei divieti, il diverso grado di severità che può avvicinarsi da un lato a una posizione fobica, dall’alto a un permissivismo molto esteso, può rendere increduli di fronte a quella esteriorità che è la Legge. Come vedremo tra poco, una Legge opaca nei suoi fondamenti non può che opporre resistenze generiche e tardive, che verranno criticate come moralistiche, censorie, antidemocratiche.

Dunque il problema va posto in questi termini: perché un soggetto che desidera la flessibilità – un individuo, o meglio un dividuum, che guarda con devozione alla dea Metis 6 – non dovrebbe sperimentare tutti gli eccessi, tutti gli estremi? Senza dubbio il pensiero flessibile non può rispecchiarsi nel “nulla di troppo” della saggezza antica, indirizzata verso la medietà. Ma non per questo rinuncerà al concetto di ‘giusto estremo’.

Esistono versioni ‘eccessive’ della flessibilità – vale a dire, la possibilità di un autoannullamanto, di un esito caricaturale? L’eccesso si dice in molti modi? Sì, e non potrà essere indagato senza la consapevolezza di quella che ho chiamato più volte la bêtise del molteplice: una molteplicità egualitaria, livellante, la mortificazione delle differenze in nome delle differenze.

Scelgo come punto di partenza la descrizione di un personaggio di Victor Hugo, in L’uomo che ride. Il personaggio si chiama Barkilphedro: “Bastava un soffio di vento per farlo inchinare fino a terra. Avere un giunco nella colonna vertebrale, che fonte di fortuna!”.7 Dovrebbe essere evidente che elogiando la flessibilità non auspico uomini che abbiano la schiena di Barkilphedro. Dunque è necessario distinguere, e il pensiero della flessibilità è favorevole alle distinzioni. Ma non all’egualitarismo delle distinzioni. Qualunque sciocco è in grado di richiamare la polisemia a proprio vantaggio, ricordando il principio aristotelico della polisemia – anche questo “si dice in molti modi”.

Perciò il pensiero della flessibilità vede nel conflitto il proprio spazio di sperimentazione: la polisemia dovrà diventare ‘polemosemia’. Se ciò non accadrà, a prevalere sarà la stupidità del molteplice. E anche, possiamo aggiungere adesso, l’oscenità del molteplice, l’impudicizia del molteplice.

 

5. Anche la rigidità si dice in molti modi, pertanto non va affatto disprezzata aprioristicamente. Dire “la flessibilità è buona, la rigidità è cattiva” sarebbe assumere una posizione ideologica, semplificatoria.

Esiste una buona rigidità, che si esprime nell’orientamento verso la Legge ma anche nell’assunzione di una disciplina, e di buone abitudini. Nietzsche, il più insofferente alle abitudini, confessava che una vita in cui si cambiassero troppo frequentemente le abitudini gli appariva come un gelo siberiano.8 E Bataille, il teorico della trasgressione e, per alcuni, dell’informe, scriveva: “senza una segreta comprensione dei corpi, comprensione che si stabilisce solo con l’andare del tempo, l’amplesso è furtivo e superficiale, non può organizzarsi, il suo movimento è quasi animale, troppo rapido, e spesso il piacere sperato sfugge. Il gusto del mutamento è senza dubbio morboso, e con tutta probabilità conduce a un continuo rinnovarsi della frustrazione. L’abitudine, invece, ha il potere di approfondire ciò che l’impazienza ignora”. 9 Due aspetti meritano di essere sottolineati: (a) l’organizzazione come forza che intensifica, e non che reprime. Così Bataille evita il pathos del ‘disorganizzato’, che pure svolge un ruolo nella sua concezione; (b) l’animalità viene respinta, non da un punto di vista moralistico, cioè come degradazione’, ma come erotismo troppo semplice (troppo rapido) : come una forma di godimento idiota?

Infine, riprendendo Lacan, il desiderio non trova nella Legge sempre e unicamente una barriera repressiva: ciò che la Legge toglie al godimento, lo restituisce, o meglio lo dona al desiderio. Possiamo immaginare un annodamento, una co-appartenenza, tra legge e desiderio. Affermando un’etica del desiderio, contro le tradizionale forme dell’etica imperniate sulla Legge, il Seminario VII di Lacan indica la via di una co-appartenenza in cui la Legge diventa interpretabile, dunque apre al soggetto uno spazio perché il suo desiderio sia riconosciuto. La legge non è più un universale rigido.

La flessibilità non è disponibilità per qualunque cosa. La superiorità del flessibile sul rigido dipende dalla capacità di includerlo – questo è ciò che indica il principio di appoggio. Dunque, in una certa misura, la flessibilità ha bisogno del rigido, non deve espellerlo, non deve forcluderlo. La forclusione del rigido causerebbe un impoverimento del flessibile, lo costringerebbe a esistere soltanto come proliferazione, molteplicità proliferante, cieca e inappagata variazione. Lo farebbe collassare – o meglio, poiché questo termine sembra più adatto a descrivere il crollo di architetture rigide, lo farebbe agglutinare. La pornografia potrebbe venir considerata un linguaggio e una pratica di agglutinazione.

 

6. Siamo giunti a un problema non eludibile. Nello spazio dell’eros, ciò che si oppone più coerentemente al pudore, e tenta di farlo apparire come moralistico e anacronistico, è l’impulso a un erotismo anonimo. Per contro, il pudore si mostra come il desiderio del nome, il piacere di chiamare, e di essere chiamati, con un nome proprio.

Senza voler negare del tutto la componente ‘impersonale’ dell’eros. Siamo soggetti divisi, persone che includono una non-persona, indicata da Freud con il pronome Es. Un pronome – un deittico, una di quelle parole che acquistano un significato solo nel contesto in cui significato e referente coincidono. ‘Tu’ può essere chiunque.

L’inesistenza del rapporto sessuale – una delle celebri tesi di Lacan – potrebbe venire intesa anche a partire dalla disarmonia tra il versante personale, singolare, e il versante anonimo. L’Io che ‘avviene’ nel luogo dell’Es (“Wo Es war, soll Ich werden”) non annulla l’Es, non lo elimina: gli dà una forma singolare, lo trascina al di là (o al di qua) del senza-nome. Temporaneamente, reversibilmente. La pulsione acefala rasenta e forse attraversa il corpo dell’essere amato, senza lacerarne l’immagine. Se c’è una differenza – e ritengo che esista, benché non sia facile indicarla – tra erotismo e pornografia, tale differenza va cercata nella permanenza dell’immagine, cioè di una velatura. Il corpo erotico è un corpo velato. La carne è sempre velata. Quando il velo scompare o viene strappato, si incontra il reale.

La pornografia è questo – prima di ogni giudizio etico, è giusto darne una descrizione fenomenologica; la descrizione che segue va comunque riferiti a rapporti tra adulti consenzienti; confesso la mia ripugnanza a occuparmi di ogni altra forma di uso dei corpi.

 

7. Mi è sembrato opportuno prendere in considerazione il discorso con cui si cerca da un po’ di tempo di legittimare la pornografia, e di valutarne le argomentazioni. Nell’ambito di una bibliografia in rapida crescita, mi sono limitato alla lettura di un testo: come ha detto Oscar Wilde, per giudicare la qualità di un vino non è necessario bere l’intera botte. D’altronde, il testo che mi è capitato di leggere (Pornosofia di Simone Regazzoni) è piuttosto recente e sembra contenere una buona panoramica del dibattito sul porno. Queste le tesi principali a favore della pornografia e del suo effetto liberatorio:

- in ogni democrazia, la pornografia è un diritto. Nulla da obiettare a questa argomentazione, purché siano accettati i limiti della legge (condanna della pedofilia, di ogni forma di sfruttamento sessuale, ecc.). Va osservato che l’universale della legge svolge qui un ruolo di protezione indispensabile.

- la pornografia non va condannata con argomentazioni moralistiche, o con gli stereotipi del femminismo, in particolare con il ‘tormentone della donna-oggetto’.10 Si può consentire ampiamente con questa seconda tesi. Il moralismo è un discorso povero. Il femminismo si alimenta troppo frequentemente di stereotipi: le banalità del femminismo sono inadeguate al problema della sessualità, maschile e femminile. Inoltre: nello scenario pornografico la donna non è un oggetto più di quanto non lo sia l’uomo – bisogna riconoscerlo. La pornografia mette in scena un eros anonimo, un eros reale (in senso lacaniano): e il Fallo anonimo che circola in un numero variabile di protagonisti viene incaricato di soddisfare il godimento femminile in quanto potenzialmente illimitato. Perciò i partner maschili possono venire aumentati a dismisura: sono chiamati a saturare un godimento interminabile.

Vedremo però che l’eros pornografico rimane un eros del possibile.

- la pornografia è parte della cultura americana (Linda Williams)11, e più in generale è parte della cultura. In prima istanza, l’argomentazione è inconfutabile. Se si assume il termine cultura in senso ampio, quasi tutto è cultura. Com’è noto, il discorso postmoderno ha tentato di dissolvere la natura nella cultura.12 Negli ultimi decenni, il riferimento alla ‘cultura’ è diventato la base per la legittimazione di qualunque interesse, e per rivendicare la dignità di qualunque oggetto o fenomeno. Non solo: la democratizzazione degli oggetti di studio, e l’abolizione della frontiera tra cultura alta e bassa, sono stati presentati come un obiettivo che ogni movimento liberal, se non di sinistra, dovrebbe perseguire.

Ebbene, qui ci troviamo di fronte a un grande equivoco, sorretto in egual misura, a mio avviso, da incompetenza, mediocrità intellettuale, furbizia e malafede. Che la teoria possa occuparsi di qualunque oggetto, e non debba scartare un possibile oggetto di indagine per motivi di carattere etico, è un punto su cui non si può non concordare. E’ certamente utile studiare fenomeni culturali più semplici e stereotipati, per acquisire conoscenze che favoriranno la comprensione di fenomeni più complessi. Ma l’atteggiamento dei cultural studies – di cui i porn studies rappresentano uno degli esiti più legittimi e coerenti – non si limita a questo: l’operazione tentata con successo dai cultural studies consiste nello slittamento per cui ciò che è ‘degno’ di essere studiato viene immediatamente nobilitato. Al significato descrittivo della ‘cultura’ subentra stabilmente un significato valutativo. Questo slittamento non è inevitabile, benché sia un effetto riscontrabile tipicamente nei mass media: ed è il motivo per cui i familiari di chi è stato vittima di un crimine si ribellano, con pieno diritto, alle possibili apparizione televisive dei criminali. La televisione è un mezzo di comunicazione essenzialmente ‘amichevole’, e nessuno dei suoi ospiti, nessuno che sia stato giudicato ‘degno’ di un’intervista televisiva, potrebbe restare avvolto dalla gravità delle sue azioni. La televisione invita a empatizzare.

E l’Università? Negli ultimi decenni i Dipartimenti di studi umanistici sono stati invasi progressivamente da un discorso che aveva le sue parole d’ordine nella democrazia e nella cultura, e che non si preoccupava del rigore, della complessità, della conoscenza in senso autentico (cioè non riducibile all’acquisizione di stereotipi). L’intersezione tra democrazia e cultura ha prodotto un’ideologia, la cui forma mummificata si stava dissolvendo nei paesi del socialismo reale, e la cui data ufficiale di dissoluzione è il 1989, ma che manteneva la sua aggressività nelle democrazie occidentali: questa ideologia è l’egualitarismo, in diverse versioni, da quella politica a quella culturale.

Si noti che l’egualitarismo non nega le differenze: la sua idea-guida consiste nel rivendicare le differenze, purché sottomesse al principio di parità. Di conseguenza, ogni problematizzazione della parità verrà guardato con sospetto, se non con il livore di chi teme di trovarsi di fronte a distinzioni legittime, e la cui legittimità comprometterebbe l’intero progetto egualitario.

Tutte le differenze e tutte le distinzioni sono pari, cioè paritarie, tra pari? Anche la distinzione tra semplice e complesso, anche la differenza tra intelligenza e stupidità? Queste domande vengono costantemente eluse dall’ideologia. E, se venissero prese in esame, verrebbero condannate come tentativi di reintrodurre gerarchie. Meglio la bêtise paritaria, meglio l’indistinzione tra intelligenza e stupidità, che non l’intollerabile primato dell’intelligenza.

Osserviamo ora uno sviluppo inevitabile e coerente, nell’ambito dei cultural studies e perciò dei porn studies. Come potrebbe una cultura democratica rinunciare alla contaminazione tra alto e basso? Accostare Fiorello e Heidegger, dicevano i postmoderni un po’ di anni fa. Oggi Heidegger, Derrida, Lévinas, vengono accostati a Moana Pozzi e Rocco Siffredi: nel libro di Regazzoni, le dichiarazioni di questi ultimi vengono trattate come auctoritates.

- la pornografia commuove. Una tesi scarsamente plausibile, mi sembra, anche per i consumatori di film porno. Ma Regazzoni la prende sul serio; e dopo aver citato Moana Pozzi (“La volgarità è commozione”), prosegue così: dalla pornografia (dal pop porno) “in ogni caso si è toccati, colpiti. Commossi. Scrivere sul pop porno significa scrivere a partire da e in accordo con questo tocco o colpo, che ha la forza di quello che Heidegger chiamava Stoss: l’urto prodotto dall’opera d’arte”.13

L’accostamento appare decisamente gratuito e lascia sconcertati. Ma forse si dovrebbe riconoscere che l’egualitarismo non può non sfociare nell’esercizio della più impudente omonimia. L’omonimia come parità semantica. Tutti i significati di urto hanno pari dignità. L’opera d’arte produce un urto, uno Stoss? Ebbene, ogni urto, ogni scossa (culturale), sarà un’opera d’arte.

Vale la pena di riflettere ancora un istante su questi accostamenti: qual è la loro ragione? Perché non limitarsi a un discorso politico, alla rivendicazione del diritto alla pornografia? Inoltre, la forza del mercato è tale da rendere del tutto superflua una legittimazione culturale. Sta di fatto che quando diventa ‘discorso’, la pornografia aspira a una nobilitazione. Ma una nobilitazione culturale non è forse un tentativo di sublimazione? All’interno dell’ideologia pornografica si ripresenta così l’esigenza di una velatura.

 

8. Dobbiamo riprendere il problema del velo, nella prospettiva della polisemia e non dell’omonimia; e ripartire della svalutazione a cui, in tempi non lontani, la nozione di ‘velo’ è stata sottoposta sul piano filosofico. Non è mia intenzione riproporre una concezione separativa del velo: in tal caso il velo sarebbe uno schermo dietro cui sta qualcosa – la nuda verità? il senso segreto, l’indecifrabile decifrabile? la realtà del sesso, il reale del sesso, l’oscenità? Il velo ‘dietro-cui’ è un velo che si può sollevare, o anche lacerare violentemente, strappare: per approdare a una pienezza, quale che sia.

In prima istanza, il velo si presenta così: come qualcosa dietro cui lo sguardo chiede di vedere.14 Ma l’esperienza è destinata a rivelarsi polisemica, e tra le possibilità del velo vi è quella di non poter essere sollevato. L’aneddoto di Zeusi e Parrasio serve a Lacan per introdurre questa nozione del velo, che vorrei riprendere. Un velo che non può essere sollevato non è, evidentemente, un velo separativo. A che cosa è congiunto un velo congiuntivo? A nulla – al nulla, al rien. Un velo congiuntivo potrebbe essere sostituito solo da un altro velo.

Il pudore è un gesto di ritrosia. Il soggetto si avvolge con una veste che è la sua stessa soggettività, o meglio un determinato modo d’essere. Se il gesto è determinato unicamente dal disgusto, ne consegue una posizione reattiva (in senso nietzscheano): e dunque una forte dipendenza con ciò che si rifiuta. Quando scaturisce da un atteggiamento quasi esclusivamente difensivo, senza capacità di sublimazione, il pudore può essere scavalcato, penetrato, deriso. E’ come se il velo si allontanasse parzialmente dal soggetto, come se diventasse separabile. Allora irrompe l’Eros del possibile. Nella sua volontà difensiva rigida, il soggetto risulta indifeso. Come rifiutare la possibilità e la promessa del godimento? La saturazione dei corpi, l’ottimizzazione degli orifizi, la reciprocità del consenso, l’assenza di attriti. Non c’è richiesta che non venga accettata e soddisfatta. Trionfa la sintonia. Tutto è possibile, quando la fluidità di Eros diventa anonima.

Nello stesso tempo, il soggetto sperimenta la perdita – di che cosa? Di altri modi d’essere, e soprattutto del modo d’essere che gli è peculiare, e che è il suo idion: la non coincidenza con se stesso. E il rapporto del possibile con l’impossibile.

Nella pornografia c’è qualcosa di utopistico (la sintonia assoluta tra i corpi) e di consolatorio: l’impossibile smetterà di tormentarci. A condizione di scegliere la via della variatio ripetitiva e della ridondanza, insomma una forma d’esistenza semplice. Il pudore si sottrae a tanta semplicità.

 NOTE

1 Montesquieu, De l’esprit des lois, 1748 (Préface).

2 Per una presentazione rigorosa e più ampia di questo concetto, rinvio all’importante libro di Massimo Recalcati, Il miracolo della forma, Bruno Mondadori, Milano 2007.

3 Senza escludere la dimensione dei confini vaghi, che riceva molta attenzione nella filosofia analitica. In ogni caso, la vaghezza non è la flessibilità.

4 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, vol. VIII, t. III, Adelphi, p.37.

5 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, 1935; trad. it. Mursia, Milano, pp. 157-159.

6 Nella mia prospettiva filosofica , il pensiero flessibile o strategico, Metis è l’unica dea. Per l’identità di Metis si legga Esiodo. Ho riportato il passo della Teogonia in apertura del mio sito, www.giovannibottiroli.it, a cui mi permetto di rinviare.

7 “Pour un souffle de vent, il s’inclinait jusqu’à terre. Avoir un roseau dans la colonne vertébrale, quelle source de fortune!”, V. Hugo, L’homme qui rit, 1869; trad. it. p. 189.

8 “Senz’altro, la cosa più insopportabile, quel che è veramente da temersi, sarebbe per me una vita assolutamente priva di abitudini, una vita che continuamente esige l’improvvisazione: questa sarebbe il mio esilio e la mia Siberia”, F. Nietzsche, La gaia scienza, 1882, aforisma 295 (Brevi abitudini).

9 G. Bataille, L’érotisme, 1957; trad. it .p. 120. Mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Il solo oggetto della passione. Legami e slegamento in Bataille, in George Bataille o la disciplina dell’irriducibile (a cura di F. C. Papparo e B. Moroncini), Il melangolo, Genova 2009. Il mio testo è disponibile anche in www.giovannibottiroli.it.

10 E’ il titolo di un capitolo del libro di Regazzoni, Pornosofia, Ponte alle Grazie, Milano 2010.

11 L. Williams, Porn studies, Duke U.P., Durham and London 2004, p. 1. Citato in Regazzoni, Pornosofia, p. 17.

12 “Persino la natura non cresce sugli alberi”, L. Hutcheon, The Politics of Postmodernism, Routledge, London – New York, 1989, p. 3.

13 S. Regazzoni, Pornosofia, cit., p. 24.

14 J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi - Seminario XI, 1964; trad. it. Einaudi, Torino 1979.