E se la smettessimo di discutere sulle maiuscole (la Verità, la Realtà, il Linguaggio)?
La filosofia come arte delle distinzioni
1. La polemica contro nozioni che si lasciano indicare dalle maiuscole è indubbiamente un topos. Non ingiustificato, perché la tendenza a impoverire e irrigidire si manifesta continuamente; tuttavia, il passaggio dalle maiuscole alle minuscole potrebbe ridursi a un banale espediente retorico, che fa venire in mente l’artificio adottato da un personaggio di Proust. Nella Ricerca del tempo perduto c’è un personaggio, Brichot, professore alla Sorbona, che scrive articoli sulla Grande Guerra. Il successo di questi articoli suscita il malanimo della signora Verdurin, la quale non perde occasione per criticarlo. Una volta gli rimprovera di scrivere troppo spesso “io”. Brichot arrossisce violentemente per quell’osservazione, di cui deve riconoscere la fondatezza, e da quel giorno sostituisce io con si (“Qui non si cambiano le carte in tavola. Si è detto su queste colonne ... ecc”). Tuttavia la sostituzione non impedisce ai lettori di accorgersi che l’autore continuava a parlare di sé, in misura forse ancora più accentuata.
Ciò che sto auspicando – con la speranza di non eccedere nell’uso del pronome ‘io’ – non è il ricorso a un semplice artificio, grazie a cui si eviterebbero i difetti che vengono criticati da chi polemizza contro le nozioni ‘con la maiuscola’. Nozioni troppo generali, irrimediabilmente vaghe, e sufficientemente ambigue perché chi protesta contro di esse riesca a dire facilmente qualche ‘mezza verità’. Sta di fatto che questo tipo di nozioni ha invaso progressivamente la scena filosofica negli ultimi trent’anni, a partire da un data che potremmo assumere come emblematica: il 1979, l’anno in cui Lyotard pubblica La condizione postmoderna. È un punto di svolta: negli anni precedenti si discuteva di rottura epistemologica, differenza scritta con la ‘a’ (différance), logica del significante, ecc.; di colpo si inizia a parlare con grande serietà di un oggetto, la cui vastità autorizza i discorsi più approssimativi. Alcuni hanno detto di non riuscire a capire di che cosa si discutesse quando si discuteva del ‘postmoderno’.1 Ciò nonostante, anzi, proprio per questo, il dibattito non faceva che espandersi, oscurando ogni ricerca degna di questo nome. L’indizio più forte del degrado creato dal dibattito sul postmoderno è forse rappresentato da quei tentativi di opposizione che ne rovesciano i contenuti mantenendone la ‘forma’ – d’altronde, l’attenzione alla ‘forma del contenuto’ si è esaurita anch’essa da tempo.
Alla filosofia che prende sul serio le etichette, e che attribuisce unità e compattezza a qualunque nozione introdotta dall’articolo determinativo, bisogna opporre la filosofia come arte delle distinzioni. Arte perché le distinzioni non vanno applicate meccanicamente, ma frequentemente rivisitate: e non soltanto perché articolano termini polisemici – giustificando la tesi di Wittgenstein , per fare filosofia ci bastano le vecchie, solite parole 2 -, ma perché si pone il problema della dominanza relativa, dei rapporti di forza, del rango.
Vorrei cercare adesso di delineare uno spazio di lavoro – lo indicherei come lo spazio categoriale dell’interpretazione: alcune categorie, e alcune distinzioni, decisive per una ricerca che potrà evidentemente ricevere orientamenti diversi.
2. Il titolo di questo seminario è “la realtà dell’interpretazione”. Lo si può intendere anzitutto così: l’interpretazione non è l’opinione che si aggiunge soggettivamente a fatti già determinati o pretende di risolverli in un’imposizione arbitraria. Occorre riconoscere che l’interpretazione è in grado di catturare la ‘realtà’. Resta tuttavia il problema di come evitare gli equivoci di un prospettivismo non riducibile al soggettivismo.
C’è anche un altro modo di intendere il titolo: qual è il campo dell’interpretazione? Vale a dire: qual è il suo territorio o quali sono i suoi territori? Dove l’interpretazione è non soltanto possibile ma anche necessaria?
3. Inevitabilmente si dovrà menzionare e commentare la celebre affermazione di Nietzsche “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Come interpretarla? Più in generale, come intendere un enunciato? Con quali operazioni mentali? La risposta va differenziata. Riprenderò un esempio utilizzato da Steven Pinker.3
In un episodio del serial televisivo Seinfeld, George Costanza si sente chiedere dalla ragazza con cui è uscito se vuole salire a prendere un caffè. Lui declina l’invito spiegando che la caffeina non lo fa dormire. Più tardi si batte la fronte: “Caffè non voleva dire caffè. Caffè voleva dire sesso!”. Insomma, il protagonista di quest’aneddoto si rende conto tardivamente che la lingua non è soltanto un codice, e che per capire un enunciato non basta decodificare (secondo il modello della comunicazione di Jakobson): occorre fare delle inferenze. Il protagonista di questo aneddoto si rende conto che, limitandosi a intendere la lingua come un codice, si può fare la figura dell’imbecille.
Beh, se un enunciato piuttosto semplice come “vorresti salire a prendere un caffè?” può esigere, in un determinato contesto, delle inferenze , chi si sentirebbe di negare la necessità delle inferenze di fronte all’enunciato “non esistono fatti ma solo interpretazioni”? Sembra però che il rischio di fare la figura dello sciocco non tormenti troppo i filosofi, o alcuni di loro, nel momento in cui esprimono la loro ostilità a una concezione avversa. Su ciò non aggiungerei nulla, per il momento.
Oggi ci interessa esaminare la tesi di Nietzsche con attenzione e prudenza, a partire dalla certezza – presumo che sia condivisa - che Nietzsche non avrebbe negato che un determinato oggetto di colore rosso fosse un oggetto di colore rosso, e così via. E poiché non avrebbe rifiutato la legittimità di questi enunciati, si pone il problema di interpretare la sua tesi.
Vorrei iniziare a dare una forma alla mia prospettiva: è indiscutibile che Nietzsche affermi il primato dell’interpretazione; ma primato significa ‘pervasività’? Significa ‘universalità’, nel senso di Gadamer?
Io direi di no, o quantomeno esprimerei una forte diffidenza verso questi termini, che vengono troppo facilmente messi al servizio delle generalizzazioni. E per quanto non possa evitare del tutto gli enunciati generalizzanti, la filosofia dovrebbe servirsene sempre e soltanto in maniera provvisoria. Mi pare ampiamente condivisibile quanto scrivono Deleuze e Guattari: in filosofia gli universali non spiegano nulla, al contrario, sono ciò che deve essere spiegato. 4 E questo vale anche per l’interpretazione.
Non mi limiterei peraltro a rovesciare la tendenza alle generalizzazioni in un’attenzione al particolare, alla singolarità. Questo rovesciamento va certamente approvato in prima istanza, ma ciò che conta è riflettere sulle distinzioni: su quelle vecchie, come potrebbe rivelarsi quella tra universale e particolare (se intesa in un certo modo); e sulle nuove distinzioni, che vanno proposte e sperimentate. Che la filosofia abbia un carattere sperimentale, è anche questa una tesi di Nietzsche.
4. Ci sono tre distinzioni che mi sembrano di importanza decisiva per una teoria dell’interpretazione.
La prima è quella tra comprendere e interpretare (cfr. Wittgenstein).
La seconda riguarda due diversi concetti di ‘possibilità’ – e qui il riferimento è Heidegger. Ma anche la prima distinzione riguarda la dimensione del possibile.
La terza è (anche) un modo di rileggere le altre due: è la distinzione tra rigidità e flessibilità.
Vi è almeno una quarta distinzione che mi sembra essenziale, ma preferisco introdurla più avanti.
5. Mi limito a ricordare rapidamente la prima distinzione, che Wittgenstein presenta in un passo della Grammatica filosofica: “Accade naturalmente che io interpreti (deute) segni, dia ai segni un’interpretazione (eine Deutung); ma certamente non ogni volta che capisco un segno!”.5 Dunque, si può parlare propriamente di ‘interpretazione’ quando ci si trova a poter scegliere tra due o più alternative, quando ci si trova di fronte a possibilità. Ad esempio:
“Se mi si chiede ‘che ora è?’ , in me non ha luogo nessun lavoro di interpretazione (keine Arbeit des Deutens), semplicemente reagisco a quel che vedo e odo. Se uno mi sguaina un coltello in faccia non gli dico: ‘L’interpreto come una minaccia’ (ibidem).
Questo non esclude che si possano immaginare contesti in cui lo sguainare un coltello potrebbe essere interpretato come uno scherzo ecc. Non dobbiamo pensare che vi siano enunciati (simboli, immagini) che impongono il modo in cui devono essere intesi, sottraendosi così a ogni possibile interpretazione. “Non che questo simbolo non si possa più interpretare: sono io che non interpreto. Non interpreto perché mi sento perfettamente a mio agio (heimisch) nell’immagine attuale”. 6
Dopo aver menzionato questo passo, Perissinotto osserva: “Qui si può estendere all’interpretazione quello che Della certezza dice del dubbio: il fatto che possa immaginare delle circostanze in cui potrei dubitare di ciò di cui ora non dubito non rende per nulla sospetto il mio attuale non dubitare: “Quello che devo far vedere è che un dubbio non è necessario, neanche quando è possibile”.7
Quest’ultimo riferimento merita una riflessione ulteriore: qui Wittgenstein sta distinguendo implicitamente tra semplici possibilità (cioè possibilità che non vi è ragione di far emergere, in un dato contesto), dunque possibilità soltanto possibili, e, su un altro versante, possibilità che è necessario far emergere, cioè possibilità necessarie. Per quanto problematica possa apparire quest’espressione, ritengo che sia giustificata da questo passo, e che offra una connessione con il pensiero di Heidegger.
Prima di considerare la prospettiva di Heidegger, vale la pena di soffermarsi ancora sulla distinzione tra comprendere e interpretare.
Se ho inteso correttamente la posizione di Perissinotto,8 esisterebbe una via per affermare il primato dell’interpretazione e, in un certo senso, la sua ‘pervasività’. Questa via sarebbe giustificata da una lettura dei testi di Wittgenstein che va al di là dei passi finora considerati.
Da un certo punto di vista l’interpretazione appare evidentemente non pervasiva: non è vero che interpretiamo sempre, se con quest’avverbio intendiamo operazioni mentali di cui siamo consapevoli o ‘quasi consapevoli’, e che vengono compiute in contesti che potremmo chiamare ridotti (micro-contesti). Tuttavia alcune, o forse molte, delle inferenze indicate da Grice nell’ambito della conversazione appartengono a contesti limitati, e presentano un carattere ‘interpretativo’ (nel senso, quantomeno, che richiedono procedure diverse da quelle della comprensione): ad esempio, un brusco mutamento di argomento, o di tono, in una conversazione, da parte del nostro interlocutore, rende legittima l’ipotesi che l’altra persona non gradisce il dialogo in corso. Oppure: una certa frase può apparire come un’allusione; ma forse non lo è. In molti di questi casi (se non in tutti) potremmo dire: non sono sicuro, ma molto probabilmente per capire devo fare inferenze, devo interpretare.
Operazioni di questo tipo sono certamente frequenti, molto più di quanto la linguistica del codice e delle regole tenda a concedere; ma ci sentiremmo di affermare la loro pervasività?
Ritengo che la distinzione tra comprendere e interpretare sia valida e inaggirabile: ci sono molti casi in cui non interpretiamo – perché riusciamo a capire senza bisogno di interpretare.
Ciò accade quando in un determinato contesto le possibilità di senso sono azzerate: non perché non vi sia alcuna possibilità, ma perché ve n’è soltanto una. Il senso si mostra in un modo solo. Si mostra, potremmo dire, come una semplice-presenza. Il senso è dato, non diversamente da come altri elementi della situazione comunicativa si offrono alla percezione: il mio interlocutore indossa una camicia azzurra, ecc.
6. A questo punto bisogna introdurre nuove categorie, e una nuova distinzione, quella tra rigidità e flessibilità. Essa ci offre un punto di vista essenziale sul linguaggio, e anche sulle teorie del linguaggio; alcune teorie tendono a privilegiare gli aspetti più rigidi – allora il linguaggio viene descritto come un codice, un insieme di regole, di convenzioni; altre enfatizzano la plasticità del linguaggio, la sua infinita duttilità (è il punto di vista della pragmatica radicale).
Questa distinzione ci permette di reinterpretare la coppia ‘comprendere /interpretare’. In quali circostanze ci limitiamo a comprendere? In quelle nelle quali prevale la rigidità: in un contesto rigido, o irrigidito, sarebbe arbitrario, se non bizzarro, tentare delle inferenze. Sto per aprire la porta di casa e uno sconosciuto mi punta un coltello alla gola: ebbene, questo è un esempio di contesto rigido, perciò non mi verrebbe in mente di dire ‘l’interpreto come una minaccia’.
La domanda da esaminare adesso è la seguente: rigido significa ‘irrigidito’? I fenomeni di rigidità sono derivati o possono venire considerati ‘originari’? Altrettanto originari dei fenomeni di plasticità?
Il che equivale a interrogarsi sulla pertinenza dello schema filosofico ‘originario/derivato’: qual è l’ampiezza (legittima) della sua applicazione?
Per esempio, lo si può applicare ai dati percettivi di cui parla l’empirismo fenomenista? O agli oggetti dell’esperienza quotidiana? In tal caso i presunti dati appaiono tali soltanto a partire da un atteggiamento che irrigidisce preventivamente ciò che sta registrando o osservando, così da poter considerare in seguito la rigidità come qualcosa di inaggirabile, come un’evidenza imperiosa, come una proprietà che la nostra mente sarebbe obbligata a rispecchiare.
Contro il mito dei dati sono state formulate critiche significative: “Ciò che si deve accettare, il dato sono – potremmo dire – forme di vita”.9 Forme di vita, cioè orizzonti o sfondi che non possiamo indossare e svestire a nostro piacere. Qualcosa che sfugge all’alternativa tra arbitrario e non arbitrario. Nondimeno, una forma di vita è la realizzazione di una possibilità.
Siamo dunque legittimati a considerare le forme di vita a partire da un primato del possibile? E poiché tra interpretazione e possibilità esiste un nesso essenziale, è legittimo considerare i casi di ‘non-interpretazione’ (= l’interpretazione non è richiesta; non sento alcuna necessità di interpretare) sullo sfondo di un’interpretazione più originaria?
7. Nel momento in cui il linguaggio s’intreccia con elementi non strettamente linguistici, entra a par parte di una prassi, di una forma di vita, i concetti di comprensione e di interpretazione assumono una dimensione ontologica. Ciò di cui si inizia a discutere è il carattere prospettico o interpretativo dell’esistenza – di quegli enti che noi stessi siamo.
Questa dilatazione dei concetti che stiamo considerando è stata proposta, com’è noto, da Heidegger. La comprensione è un modo d’essere, e non soltanto un modo di pensare. Mi sembra però che il significato di ‘modo d’essere’ (Weise zu Sein) non sia stato colto sufficientemente. E’ un rimprovero che va rivolto, tra gli altri, a Gadamer. Si ha l’impressione – diciamo così, provvisoriamente, e rimandando una verifica più puntuale su Verità e metodo – che Gadamer abbia assunto in maniera troppo semplice e riduttiva il circolo comprensione/interpretazione. Ma la semplificazione – l’emergere di un’ermeneutica semplice, destinata inevitabilmente a favorire la formazione di una koiné doxastica - si manifesta già nella tesi dell’universalità del comprendere: “il movimento della comprensione è qualcosa di universale e costitutivo”. 10
È questo che aveva detto – esplicitamente o implicitamente – Heidegger? Per Gadamer non vi sono dubbi: “il comprendere … è .. l’originario modo di attuarsi del Dasein, che è essere-nel-mondo”. Non vi possono essere dubbi neanche sullo statuto ontologico del Dasein, sul “modo d’essere del Dasein in quanto poter-essere e possibilità”.11
Queste affermazioni sono ‘heideggerianamente corrette’, e tuttavia la correttezza filologica non è sufficiente. Ammettiamo che si possa attribuire ad Heidegger la tesi “ogni comprensione è un’interpretazione”: si tratta di vedere se questa tesi abbia un senso riduzionista. Dobbiamo intenderla come “la comprensione è, in realtà, un’interpretazione”? Wittgenstein non sarebbe d’accordo.12
Ritroviamo il problema con cui avevamo iniziato questa riflessione: in filosofia, le generalizzazioni sono sempre rischiose; quando non rappresentano una formulazione provvisoria, implicano una procedura di diluizione, un atteggiamento riduzionista. Così, nel nostro caso, al di là delle intenzioni, il comprendere finisce col diventare una specie del genere ‘interpretazione’. E a questo punto sarebbe decisamente scorretto attribuire questa tesi a un’opera come Essere e tempo che, sin dal primo paragrafo, rifiuta un’ontologia del genus.
Riassumendo: la distinzione tra comprendere e interpretare non può svanire, per le ragioni che abbiamo visto. Tuttavia si può cercare di considerarla da un punto di vista non strettamente linguistico: in che modo? In base a quale prospettiva ontologica?
8. Può darsi che per mantenere la distinzione tra interpretare e comprendere sia necessario abbandonare lo schema ‘originario/derivato’ (o quantomeno ridimensionare il suo ruolo, utilizzarlo in maniera più cauta, misurata). Innegabilmente, tale schema viene utilizzato con una certa frequenza da Heidegger; non possiamo escludere, dunque, che sorgano delle perplessità anche nei confronti dell’autore di Essere e tempo. Ma il primo compito è di leggere quest’opera cercando di non smarrire la complessità dei suoi concetti.
Che il Dasein sia poter-essere e possibilità (come ricorda Gadamer) vuol dire ben poco, se non si acquisisce la polisemia del concetto di ‘possibile’, e non si colgono le sue progressive articolazioni.
Anzitutto, vorrei riproporre qui, schematicamente, una prospettiva che ho enunciato altrove e che sto cercando di sviluppare: Heidegger è un pensatore modale, l’ontologia heideggeriana è un’ontologia del modus.
Questo significa che, anche limitandosi alle categorie modali classiche (il possibile, l’effettuale, il necessario), non è illegittimo o arbitrario ispirarsi ad Heidegger per una teoria che distingue diversi orientamenti modali dell’ontologia, diverse miscele modali. In uno scritto ‘marginale’, la Lettera a un giovane studente, pubblicata come Postilla alla conferenza su “La cosa” (1950) e datata 18 giugno 1950, troviamo un cenno particolarmente esplicito a questa via:
“pensare – almeno nel senso che sta alla base di questa conferenza – non è la pura rappresentazione di una semplice-presenza. ‘Essere’ non è affatto identico alla realtà o a un reale constatato sul momento. L’essere non è neppure qualcosa che si contrapponga al non-essere-più o al non-essere-ancora; anche questi appartengono all’essenza dell’essere. In questa direzione si era già mossa, avvertendo il problema, la metafisica stessa, nella sua troppo poco compresa dottrina delle modalità, secondo la quale all’essere appartiene la possibilità altrettanto quanto la realtà e la necessità”.13
Dunque per Heidegger – e forse anche per la metafisica, “nella troppo poco compresa dottrina delle modalità – definire l’ontologia come lo studio di ciò che è corrisponde a una riduzione inaccettabile, a una fallacia: la chiameremo fallacia dell’effettualità. E’ un atteggiamento molto diffuso, dichiarato ostentatamente da Quine, per esempio: il problema dell’essere sarebbe incredibilmente semplice: “Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può essere posto, in italiano, con tre sole parole: 'Che cosa esiste?'”.14
9. E tuttavia il riduzionismo di questa tesi non è affatto evidente se ci limitiamo a un concetto generico di possibilità. L’ontologia del possibile, l’ontologia che afferma il primato del possibile, rimane un’impresa velleitaria fino a quando non si mostra la possibilità – mi scuso per l’apparente gioco di parole – cioè la legittimità di un concetto di ‘possibile’ che si emancipi dalla tradizionale inferiorità ontologica nei confronti dell’effettuale.
Di questo Heidegger è pienamente consapevole. La celebre tesi del par. 7 “Più in alto della realtà sta la possibilità” acquista la sua forza – dovremmo dire: diventa autenticamente comprensibile - , soltanto nel par. 31, quando vengono distinti due concetti diversi di possibilità. Quando Heidegger dice che
“L’esser-possibile che l’Esserci esistenzialmente sempre è si distingue tanto dalla vuota possibilità logica quanto dalla contingenza di una semplice-presenza, nel senso di qualcosa che possa ‘accadergli’. Come categoria modale della semplice-presenza, la possibilità significa il non ancora reale e il non mai necessario (das noch nicht Wirkliche und das nicht jemals Notwendige). Essa definisce ciò che è soltanto possibile (das nur Mögliche), ed è quindi a un livello ontologico inferiore alla realtà (Wirklichkeit) e alla necessità. La possibilità come esistenziale è invece la determinazione ontologica positiva dell’Esserci, la prima e la più originaria (die ursprünglichste … Bestimmtheit …)”.15
La distinzione è nitida, almeno nella sua forza inaugurale – certamente esige di venire sviluppata. Dunque, Heidegger distingue le possibilità ‘non ancora’ e le possibilità esistenziali. Qual è lo statuto di una possibilità come esistenziale ? Inoltre: non sarà opportuno ribattezzarla, chiamarla anche con altre espressioni? In ogni caso una possibilità esistenziale
(a) è una possibilità necessaria, in quanto si contrappone a possibilità soltanto possibili. Viene qui indicata una miscela modale in cui il necessario non può avere il carattere tradizionale di rigidità – piuttosto, si tratta di un’azione selettiva nei confronti dei possibili. E’ necessario, per l’Esserci, lasciar cadere il soltanto possibile (das nur Mögliche);
(b) è una possibilità da elaborare, da interpretare. Ciò che è ‘ancora da interpretare’ differisce radicalmente da ciò che ‘non è ancora effettuale’ e basta.16 Questa non-coincidenza dell’Esserci con se stesso assume la forma di un paradosso:
“In virtù del modo d’essere che è costituito da quell’esistenziale che è il progetto, l’Esserci è costantemente ‘più’ di quanto di fatto (tatsächlich) sarebbe qualora lo si potesse o volesse prendere in esame nella sua sussistenza ontologica come semplice-presenza. Esso però non è mai di più di quanto effettivamente (faktisch) sia, perché alla sua effettività (zu seiner Faktizität) appartiene essenzialmente il poter-essere. Ma in quanto essere-possibile, l’Esserci non è mai neppure di meno, perché ciò che nel suo poter-essere esso ancora non è, esistenzialmente lo è già (das, was es in seinem Seinkönnen noch nicht ist, ist es existenzial). Soltanto perché l’essere del Ci riceve la sua costituzione dalla comprensione e dal carattere di progetto di essa, soltanto perché esso è ciò che diviene o non diviene, esso può, comprendendo, dire a se stesso: “Divieni ciò che sei”.17
Mi pare che qui Heidegger indichi qual è la realtà, cioè il campo dell’interpretazione: non possiamo fare a meno dell’interpretazione là dove abbiamo a che fare con possibilità ‘esistenziali’.
In che modo afferriamo invece le invece le possibilità ‘non ancora’? Direi che dovremmo considerarle oggetto del comprendere, nel senso di una comprensione che non si trasforma in interpretazione. Chiunque può comprendere senza difficoltà o esitazione la frase “domani prenderò un treno per Torino”. Poco importa quale sia il treno che deciderò di prendere: le possibilità a mia disposizione sono più di una, si tratta comunque di possibilità ‘non ancora’.
10. Una precisazione. I due modi della possibilità non sono incompatibili. Senza dubbio, nulla vieta a una possibilità non-ancora di entrare nello spazio dell’effettualità mantenendo lo statuto di ‘semplice possibilità’: la possibilità di prendere un treno per Torino domani alle 15,07 non muterà il proprio statuto quando verrà realizzata. Ma nulla impedisce che una semplice possibilità venga catturata e assorbita da una possibilità superiore. E’ quanto accade, per esempio, nell’agire di quelli che Hegel ha chiamato eroi cosmico-storici. Essi sono gli interpreti di possibilità, che non sono rintracciabili nell’esistente: “è un’altra sorgente quella a cui attingono”. I loro progetti non sono arbitrari e soggettivi, ma danno forma alle possibilità necessarie della loro epoca: “gli individui cosmico-storici hanno voluto e realizzato non un oggetto della loro fantasia e opinione, ma una realtà giusta e necessaria”.18
Tale necessità avrebbe potuto restare incompresa, ad esempio Cesare avrebbe potuto seguire la via suggerita da altri, una via più angusta e obliqua. “Se si fosse attenuto a Cicerone non sarebbe divenuto nulla. Cesare sapeva che la repubblica era la menzogna, che le parole di Cicerone erano frasi vuote, che una nuova forma doveva essere messa al posto dell’altra, ormai vuota, e che la forma che egli recava alla luce era quella necessaria”.19 Varcando il Rubicone al comando del suo esercito, la possibilità non-ancora di attraversare le acque di un fiume si realizza contemporaneamente al compiersi di un gesto che cambierà la storia del mondo. I due modi della possibilità si sovrappongono. Con quella decisione Cesare interpreta la possibilità che egli stesso è, si avvia a diventare ciò che è già, o che già era.
11. Proviamo a trarre alcune conseguenze. Sarebbe scorretto attribuire ad Heidegger la tesi della pervasività dell’interpretazione. Noi non interpretiamo sempre. Più precisamente, non interpretiamo mai quando abbiamo a che fare con possibilità ‘non ancora’.
Non è questo che ci suggerisce la distinzione così forte tra due modi della possibilità? Se ci lasciamo guidare da questa distinzione, se decidiamo di non abbandonarla mai – anche se questo ci dovesse indurre a sollevare dubbi sulla coerenza del progetto heideggeriano -, siamo obbligati a contrapporre due atteggiamenti di pensiero, quello interpretativo e quello non-interpretativo. Perché non usare il termine comprensione per questo secondo atteggiamento?
Ma allora, la vera teoria dell’interpretazione contenuta in Essere e tempo non sarebbe quella del circolo ‘comprendere-interpretare’, dove l’interpretazione è uno “sviluppo del comprendere”, come Heidegger afferma all’inizio del par. 32, bensì la teoria che afferma il conflitto tra la visione ontologica che si forma a partire dall’ente intramondano e la visione elaborata a partire dall’Esserci.
Tale conflitto si manifesta come la lotta tra due modi della possibilità.
Dunque, la vera teoria dell’interpretazione in Essere e tempo è quella che fa emergere il conflitto tra comprensione intramondana e interpretazione. In questo conflitto ne va del destino dell’Esserci, sempre tentato di pensare se stesso a partire dall’ente da cui differisce nel suo statuto ontologico. La comprensione intramondana, in quanto modalità tendenzialmente rigida del pensiero, non consiste semplicemente in registrazioni ‘fattuali’, come “la neve è bianca” e “Il gatto è sul tappeto”, ma è alimentata dagli stereotipi. Dal senso coagulato. Da automatismi semantici acquisiti.
Senza dubbio, è possibile che la nostra esistenza ne sia invasa e soggiogata. In tal caso, la situazione che Dummet crede di descrivere realisticamente, cioè la rarità, l’eccezionalità dell’interpretazione,20 si configura involontariamente come l’auspicio di una realtà spaventosa: immaginiamo un mondo in cui niente di ciò che esige interpretazione verrà interpretato, se non eccezionalmente, perifericamente. In quel mondo non ci sarà più interpretazione né per i desideri né per le opere d’arte – la dimensione del possibile prevederà unicamente possibilità ‘non ancora’. Questa la distopia in cui alcuni filosofi del linguaggio credono di riconoscere (e di poter approvare) la ‘realtà’.
11. Potremmo convenire che da un punto di vista statistico, l’interpretazione sia minoritaria, cioè meno frequente delle operazioni di comprensione. Ma quello che non possiamo accettare è la dominanza del punto di vista statistico, la sua presunta ovvietà: il primato dell’interpretazione non è confutabile con mere considerazioni statistiche. La sua ‘eccezionalità’ significa che le decisioni più significative della nostra vita vengono prese in uno stato di eccezione.21
C’è un punto da precisare: se riteniamo che le inferenze conversazionali descritte da Grice siano atti interpretativi, allora l’ambito dell’interpretazione cresce vertiginosamente, anche dal punto di visto numerico. Non mi sembra però che la maggior parte delle inferenze ‘alla Grice’ corrisponda all’esistenzialità heideggeriana. Potremmo ammettere un vasto regno delle inferenze non interpretative (o debolmente interpretative) tra le forme più codificate di comunicazione e l’interpretazione in senso forte.
12. Si presenta allora un problema terminologico. Si può ampliare l’uso di comprensione, che includerebbe sia le operazioni di decodifica (caffè vuol dire ‘caffè’), sia le inferenze conversazionali, micro-contestuali, di rapida soluzione – nell’aneddoto menzionato da Pinker, la comicità nasce dalla tardività di un’inferenza che avrebbe dovuto essere immediata (in quel contesto caffè voleva dire ‘sesso’); e riservare il termine interpretazione ai procedimenti con cui si accede alle possibilità esistenziali – ma anche alle virtualità semantiche dei testi complessi, come vedremo tra un attimo. Oppure si può restringere l’uso di comprensione alle operazioni di decodifica, e parlare di interpretazione per ogni tipo di inferenza. Questa seconda opzione corrisponderebbe alla distinzione ‘comprendere/interpretare’ nel senso più palese in Wittgenstein (Grammatica filosofica). Abbiamo visto però che in Wittgenstein si fa strada anche la distinzione tra due modi del possibile – e questo renderebbe plausibile la distinzione tra inferenze semplici e interpretazioni vere e proprie. Ciò che importa è la distinzione tra diversi atteggiamenti mentali: comprendere, inferire intenzioni, interpretare – come vedremo tra poco, l’interpretazione di un’opera non è vincolata all’intentio auctoris. Si presenta adesso una domanda: le operazioni indicate da questi verbi hanno il medesimo oggetto? Il loro oggetto è ‘il’ significato?
13. Oppure le differenze tra queste operazioni mirano a organizzazioni semantiche diverse? A differenti modi del senso – che non sono riducibili ai modi del riferimento, alla distinzione tra Sinn e Bedeutung.
La differenza affermata da Frege resta orientata verso l’effettualità e subordinata ad essa, dunque riflette quella distorsione che ho chiamato fallacia effettuale. A questo punto va rilevato che il termine modo si presta ad equivoci: e benché non si possa impedire l’uso di questo termine per indicare la differenza tra senso e denotazione (ad esempio, tra ‘l’autore di Heart of Darkness’ e ‘Joseph Conrad’), oppure tra due diversi Sinnen (ad esempio, tra ‘la stella del mattino’ e ‘la stella della sera’), occorre rendersi conto che tale differenza si presenta in uno spazio omogeneo. Tra i modi del senso, tra i regimi di senso (lo vedremo tra un attimo), esiste invece una forte eterogeneità.
Dunque, senso e denotazione potrebbero venire indicati più opportunamente come tipi o varietà del riferimento. Per quanto mi riguarda, utilizzo i termini modalità e modo per indicare le categorie modali (il cui elenco dovrebbe venire ampliato) e gli stili di pensiero. Parlo di pensatori anti-modali per indicare chi riconosce la validità di un solo stile di pensiero, e auspica, di conseguenza, lo zerostilismo. Nella mia prospettiva, non basta riservare attenzione alle categorie modali classiche e intraprendere la via delle logiche modali: se la necessità viene definita come la verità in tutti i mondi possibili e la possibilità come la verità in almeno un mondo possibile, allora ci troviamo ancora su un terreno tradizionale, e in ogni caso pre-heideggeriano.
Torniamo al problema del senso, e dei suoi modi. Per molti autori, il problema dell’interpretazione presenta due versanti, quello della possibilità e quello del significato, e i due versanti sono certamente intrecciati.
In prima istanza si potrebbe dire: l’interpretazione implica il primato del possibile e il primato del senso. Ma non basta. Al primato del possibile è già subentrato quello delle possibilità necessarie; a un generico primato del senso deve subentrare adesso una semantica della densità. C’è interpretazione nell’accezione più forte soltanto in rapporto a significati densi. Bisogna dunque introdurre una quarta distinzione, non meno essenziale delle precedenti, quella tra denso e articolato.
Che cosa si deve intendere per densità? Non l’indeterminatezza o la vaghezza, ma la complessità del senso. I luoghi più eminenti della densità semantica sono le opere d’arte. Con le parole di Benjamin, che coglie il fenomeno pur senza nominarlo, diremo che la densità è "la ricchezza dei rapporti interni nell'opera".22 Per Greimas la densità va riconosciuta nel “numero di relazioni strutturali che la costruzione dell’oggetto poetico esige”.23 Merita di venir menzionata una riflessione di Auguste Rodin: “Una statuetta di Tanagra può essere più grande della torre Eiffel perché la grandezza dipende dalle relazioni, e non dalle dimensioni”.
La densità è la ricchezza delle relazioni interne: un’opera d’arte è densa in quanto nessun tentativo di articolazione esaurisce la ricchezza dei suoi significati. Si eviti però di insistere troppo sull’inesauribilità. Certamente, un’opera è densa perché è sempre possibile aggiungere una nuova interpretazione a quelle già esistenti. Ma bisogna precisare: purché essa sia necessaria.
Un’interpretazione soltanto possibile non è una buona interpretazione. Affermare che ogni interpretazione è valida, in quanto possibile – e dunque rinunciare a distinguere tra interpretazione e misinterpretazione, come è avvenuto nell’ambito del decostruzionismo – mi sembra una posizione sbagliata, oltre che, a lungo andare, autolesionista.
14. Riprendiamo la distinzione denso/articolato. Dove il significato di un testo è troppo articolato, rigidamente articolato, non ci sono margini per l’interpretazione; tutto quel che occorre sono gli strumenti della comprensione (decodifica, e inferenze alla Grice). Per contro, l’interpretazione vera e propria si muove nella densità. La questione da affrontare adesso è: come riconosco la densità? Com’è fatto un oggetto denso? Restiamo nell’ambito dei testi.
Un oggetto denso - e ipotizziamo che ogni opera d’arte lo sia - è la combinazione tra un artefatto e un oggetto virtuale. L’artefatto è l’opera così com’è – nell’edizione filologicamente più attendibile. Ma l’opera ha una dimensione virtuale, che è precisamente l’oggetto dell’interpretazione, o meglio delle interpretazioni.
Nella sua virtualità, il testo oltrepassa le intenzioni veicolate dall’autore. Smentisce la concezione veicolare del senso, e l’idea che l’autore sia padrone del senso che intende comunicare. Dunque, una teoria dell’opera d’arte non può considerare valida, o adeguata, la concezione del significato come intenzione. Ammesso che si possa parlare di un’intenzione anteriore al testo, e che l’autore avrebbe cercato di introdurre nel suo testo – una concezione che diversi grandi scrittori hanno rifiutato -, tale intenzione è destinata a smarrirsi nella ricchezza relazionale dell’opera, in quel ‘labirinto di nessi’ che secondo Tolstoj costituisce l’opera d’arte. Qui l’intenzione naufraga felicemente nella densità del testo: cioè nelle possibilità dell’interpretazione.
Interpretare è avere la forza di articolare la densità.
14. Negli oggetti densi, il conflitto tra densità e articolazione non viene introdotto dall’esterno, non viene aggiunto, come si potrebbe aggiungere una cornice allegorizzante a un evento semanticamente diluito.24 Il conflitto appartiene all’opera, è costitutivo dell’opera stessa: questa è la tesi delle estetiche conflittuali, da Nietzsche ad Heidegger, da Freud a Lacan. Ma che cosa ci autorizza ad attribuire il conflitto all’opera? Non si potrebbe dire che il conflitto è sempre introdotto dall’interprete?
Se così fosse, dovremmo ammettere che l’interpretazione è un esercizio fortemente marcato dal soggettivismo. A questa conclusione si oppone però ogni considerazione che si mostri attenta al ‘come è fatta’ l’opera, e anzitutto alle sue dissonanze.25 Percepire dissonanze là dove esistono e sono percepibili non è arbitrario, anche se le estetiche dell’armonia invitano a non percepirle, svolgono un’azione dissuasiva che può indurre – e storicamente ha indotto – a una vera e propria cecità.
Ma il conflitto tra densità e articolazione non è riducibile a piccole incoerenze, che misteriosamente conferiscono agli oggetti una vita di cui sarebbero privi se i loro artefici avessero mirato a una coerenza perfetta.26Densità è ciò che rende instabili tutte le articolazioni, anche quelle che si presentano come rigide – e che in effetti lo sono, in quanto costituiscono l’opera così com’è: le segmentazioni di un artefatto, da quelle che determinano i confini tra singole parole a quelle tra capitoli, non sono forse rigide? Il primo verso della Commedia si presenta così articolato: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, e la Commedia articolata in 100 canti.
Nondimeno, l’artefatto verrà trascinato nel vortice dell’interpretazione, e la dimensione del senso tornerà ad essere fluida. Nuove articolazioni risulteranno possibili – molte di esse appariranno soltanto possibili, e dovranno venire abbandonate.
15. Mi rammarico di poter solo accennare, per ovvie ragioni di spazio, alla prospettiva di ricerca che considero la più feconda, e in grado di organizzare lo spazio categoriale sin qui delineato. Proviamo ad affermare ancora una volta il primato della possibilità, e questa volta in relazione al linguaggio: che cos’è il linguaggio come possibilità? La domanda si riferisce al linguaggio, ma va indirizzata ai parlanti di una determinata lingua, coloro che possono sperimentarne tutti gli usi, quelli più consueti e quelli resi possibili dalla loro immaginazione - e dal loro stile di pensiero. Perché le possibilità del linguaggio sono accessibili nella loro pienezza soltanto se si elabora una teoria degli stili di pensiero.
Questa teoria respinge in un ambito pre-teorico la nozione più corrente di stile, inteso come espressione di un singolo o di un gruppo. Il primato dello stile nella concezione del linguaggio non va ridotto a un generico primato del come sul che cosa. Le enfatizzazioni generiche del come conducono a riproporre il vecchio relativismo in una versione aggiornata – ad esempio, l’idea delle molteplici versioni del mondo in Goodman. Questa posizione, bisogna dirlo con chiarezza, è disastrosamente inadeguata.
Per il programma di ricerca che ho chiamato ‘teoria dello stile’, lo stile è il linguaggio diviso.27 Dunque, una concezione scissionale, e non banalmente espressiva, degli stili. In questa prospettiva, l’unità conferita dall’articolo determinativo si dissolve non a favore della molteplicità, ma del conflitto. ‘Il’ linguaggio non esiste – o, se si vuole, esiste soltanto nella pluralità dei regimi di senso, che non corrisponde a una semplice molteplicità.
Come riconoscere e descrivere i regimi, cioè le possibilità maggiori del linguaggio, di ogni linguaggio? Queste possibilità sono numericamente poche, anche se per regime di senso si deve intendere una famiglia di stili, dunque un notevole numero di varianti. Ma la distinzione tra Uno e Molteplice deve venire ‘tagliata’ dalla distinzione tra diviso e indiviso – il cui rango è superiore. Riflettere su questi rapporti, sull’aspirazione al dominio implicita in ogni distinzione, e sulle possibili dominanze, su come ogni coppia di categorie tenta di soggiogare le altre: tutto ciò appartiene alla filosofia come arte delle distinzioni.
Riprendiamo la domanda inaugurale: come riconoscere uno stile di pensiero? La risposta va cercata nei confini che uno stile determina per le unità che aspira a governare, e che tenta di organizzare. Dunque, nel tipo di articolazione che caratterizza le sue unità. Saussure ha detto: la lingua è il regno delle articolazioni.
In una concezionale scissionale, il linguaggio si presenta anzitutto come un campo di lotta tra due principi: quello che tende a imporre ovunque articolazioni rigide, e quello che favorisce la dissoluzione dei confini, che (opera) per la più grande fluidità. Per rendere più facilmente afferrabile quest’immagine, che dovrà venir precisata, possiamo indicare due autori: da un lato Frege, e la sua esortazione a favore dei confini rigidi: “per i concetti vi è il requisito che abbiano confini netti, senza il cui soddisfacimento sarebbe impossibile formulare le leggi logiche che li riguardano”; 28 dall’altro Joyce, come autore di Finnegans Wake, un’opera in cui ogni parola appare come la sovrapposizione di altre parole, come un effetto di condensazione. Ossessione di uno stile separativo (o disgiuntivo), in Frege. Trionfo dello stile congiuntivo, in Joyce.
Ma la lingua di Joyce non è una lingua ‘collassata’: in tal caso, la rigidità tornerebbe ad emergere, nel suo apparente rovescio. Che il linguaggio della letteratura (e di ogni arte) sia flessibile, dovrebbe essere un motivo sufficiente per conferire alla distinzione tra rigidità e flessibilità un rango che finora non le è stato mai riconosciuto.
Note
1 Cfr. M. Foucault, Structuralisme et post-structuralisme (1983) in Dits et Ecrits, 1954-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, pp. 446-447.
2 “non c’è neanche bisogno che in filosofia vengano impiegate parole nuove, ma ci bastano le vecchie, solite parole del linguaggio (die alten, gewöhnlichen Wörter der Sprache)”. Cito da L. Wittgenstein, Filosofia, a cura di D. Marconi, Donzelli 1996, p. 45.
3 S. Pinker, The Stuff of Thought, 2009, trad. it. Fatti di parole, p. 29-30.
4 Più precisamente “Il primo principio della filosofia è che gli Universali non spiegano niente, ma devono invece essere spiegati” (G. Deleuze - F. Guattari, Che cos’è la filosofia, 1991; trad. Einaudi, Torino 1996, p. XV).
5 L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, I, par. 9.
6 L. Wittgenstein, Zettel, par. 234.
7 L. Wittgenstein, Della certezza, par. 392. Cfr, Perissinotto, Le vie dell’interpretazione nella filosofia contemporanea, Laterza 2002, p. 109-110.
8 L. Perissinotto, Sulla pervasività dell’interpretazione. Una divagazione wittgensteiniana, in Tempo e interpretazione (a cura di Perissinotto e Ruggenini), Guerini 2002.
9 “Das Hinzunehmende, Gegebene – könnte man sagen – seien Lebensformen”, L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Parte seconda, sez, XI, p. 295.
10 H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), trad. it. p. 8 (cit in Peri 2002, 75).
11 Ibid. p. 306.
12 Cfr. Perissinotto 2002, p. 109.
13 M. Heidegger, Postilla a La cosa, in Saggi e discorsi, trad. it. p. 122.
14 "A curious thing about the ontological problem is its simplicity. It can be put in three Anglo-Saxon monosyllables: 'What is there?' (W. O. Quine, From a Logical Point of View, 1953, Harvard U.P, p. 1) (trad. it. Il problema del significato, Ubaldini, Roma, p. 3).
15 M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, trad. it. pp. 177-178.
16 Con riferimento a Nietzsche, si potrebbe dire: puoi interpretare, ancora una volta !
17 Ibid., p. 180.
18 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, pp.87-88.
19 Ibid., p. 97.
20 M. Dummett, Una graziosa confusione di epitaffi: alcune note su Davidson e Hacking, 1986, in Linguaggio e interpretazione, Unicopli, 1993, p. 136,
21 Riprendo l’espressione di Carl Schmitt, senza che questo implichi, evidentemente, aderire alla globalità della sua concezione.
22 W. Benjamin, Le affinità elettive, trad. it. in Angelus novus, Einaudi, Torino, p. 185
23 A. J. Greimas, Introduction a Essais de sémiotique poétique , 1971. Cfr. Du sens (1970), trad. p. Bompiani, 270.
24 Pochi giorni dopo la sua elezione a Presidente della Repubblica francese (6 maggio 2012), François Hollande è salito su un aereo diretto a Berlino per un incontro con Angela Merkel. L’aereo è stato colpito da un fulmine e, prudenzialmente, fatto rientrare a Parigi. Con riferimento palese al contesto della crisi economica, alcuni giornali hanno commentato così la notizia: segnali funesti nei cieli d’Europa.
25 Una dissonanza è un’incoerenza non paralizzante.
26 Nel resoconto di un viaggio in Messico, Emilio Cecchi propone questa riflessione, molto ammirata da Italo Calvino, a proposito dei tappeti navajo: “Quando una donna Navajo sta per finire uno di questi tessuti, essa lascia nella trama e nel disegno una piccola frattura, una menda : ‘affinché l’anima non le resti prigioniera dentro al lavoro’. Questa mi sembra una profonda lezione d’arte : vietarsi, deliberatamente, una perfezione troppo aritmetica e bloccata. Perché le linee dell’opera, saldandosi invisibilmente sopra sé stesse, costituirebbero un labirinto senza via d’uscita ; una cifra, un enigma di cui s’è persa la chiave. Per primo, s’irretirebbe nell’inganno lo spirito che ha creato l’inganno.
E non è anche la spiegazione perché certi grandi artisti misero sempre nella propria opera un segno d’incompiuto ; quasi un invito al mistero, alla collaborazione naturale ? Temevano che l’opera, in certo modo, sarebbe viziata e maledetta, se vi restavano dentro “prigionieri”. Sapevano quanto essa riuscirebbe più viva, in virtù d’una tal sprezzatura nella quale s’attesti che l’uomo, nell’atto stesso di creare, riconosce la fatalità della propria imperfezione”.
27 Mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Teoria dello stile, 1997.
28 “ wir haben für Begriffe die Forderung ihrer scharfen Begrenzung, ohne deren Erfüllung es unmöglich wäre, logische Gesetze von ihnen aufzustellen”(Funktion und Begriff, in Kleine Schriften, 1990, p.135).