Imitando Charlot
Dalla stilistica alla teoria dello stile
Parte prima*
Quando era al culmine della sua fama, Charlie Chaplin venne a sapere che a Los Angeles era stato bandito un concorso per “Imitatori di Charlie Chaplin”. Decise di parteciparvi, in forma anonima. Si classificò ventottesimo.
Cito a memoria quest’aneddoto, che propongo di assumere come una micro-allegoria del problema che vorrei discutere. L’aneddoto è così stimolante per la teoria, da rendere superflui i dubbi sulla sua verità effettuale. Per casi di questo genere non si può non pensare alla concezione di Vico, che afferma la superiorità del verosimile sul vero. Ebbene, si potrà chiedere, perché quest’aneddoto è verosimile? E più precisamente: come è possibile che una giuria non abbia saputo distinguere Charlot, imitatore di se stesso, dai suoi pur valenti imitatori? La risposta trova il suo fondamento in un lungo errore: la confusione tra lo stile e gli stilemi, e più in generale, la concezione espressiva e indivisa dello stile.
Per eliminare questa confusione e aprire un nuovo campo di ricerca sarebbe necessario esaminare il problema del linguaggio con un’ampiezza che qui non è consentita, per limiti di spazio e per non rendere i concetti-chiave inaccessibili ai non specialisti. Dovrò imporre a me stesso molte semplificazioni; credo però che ne valga la pena. Rendere accessibile la teoria è un obiettivo che caratterizza periodicamente il mio lavoro.
1. Quattro tesi sullo stile.
Inevitabilmente, procederò in maniera schematica. Proporrò alcune tesi che ci condurranno nel cuore del problema. Anzitutto, però, una precisazione terminologica: userò il termine stilistica per indicare tutte le concezioni pre-teoriche dello stile. E non assumerò il termine teoria con arroganza positivista: da un lato, criticherò fortemente una concezione del linguaggio inadeguata, che rappresenta lo sfondo e il presupposto della stilistica (la chiamerò concezione del linguaggio indiviso); dall’altro, vorrei riconoscere i meriti e la legittimità di almeno una parte della stilistica tradizionale, quella che ha saputo esprimere raffinate analisi di testi. Penso, in campo letterario, ai saggi di Spitzer, Auerbach, Thibaudet, Contini, ecc; e credo che esistano risultati di questo genere anche tra gli studi dedicati al cinema. Dunque, niente ci impedisce di fare ancora della stilistica ‘testuale’, così come si può continuare ad andare in bicicletta anche dopo l’invenzione delle automobili e degli aerei. E’ tuttavia auspicabile una sempre maggiore consapevolezza dei limiti che caratterizzano un’analisi pre-teorica, e soprattutto, delle nuove e straordinarie possibilità analitiche, rese possibili da una teoria dello stile.
Espongo adesso le tesi principali:
(a) siamo ancora superstiziosi. Tendiamo a credere che quando diciamo ‘il linguaggio’ oppure ‘il pensiero’, l’articolo determinativo vada preso sul serio, come l’indicatore di un’unità effettiva: e così pensiamo che IL linguaggio sia un fenomeno sostanzialmente al riparo da divisioni.
Non siamo ancora diventati sufficientemente nietzscheani per riconoscere il peso e la forza deformante delle illusioni grammaticali. Eppure, come il pronome ‘Io’ è un pronome millantatore, in quanto agisce come sostegno – forse come il sostegno più forte – all’illusione di un soggetto unitario (pre-freudiano), così l’articolo ‘il’ tende a mantenere la fallacia dell’unità.1
Attenzione: la superstizione dell’unità non è mai stata percepita e tanto meno messa in discussione da quelle che chiamiamo, con troppa generosità, ‘scienze del linguaggio’ (da Saussure a Chomsky, da Grice al cognitivismo). Evidentemente le scienze del linguaggio non rinunciano a una serie di attività scompositive: suddividono il linguaggio in livelli (morfologico, sintattico, semantico, ecc); ci hanno insegnato a scomporre il significato in una serie di tratti elementari (la semantica componenziale si basa sulla convinzione che sia interessante differenziare le entità linguistiche ‘bue’ e ‘mucca’, in quanto ‘bue’ = ‘animale + bovino + maschio’, mentre ‘mucca = ‘animale + bovino + femmina’. Non voglio sottovalutare queste possibilità di analisi: tra l’altro, la semantica componenziale ha qualcosa di cinematografico, fa ‘passare’ il significato alla moviola permettendoci così di focalizzare aspetti del significato che la comprensione a velocità normale non avrebbe probabilmente individuato.2 Ma questa attività scompositiva non ha ci aiuta minimamente a capire quali siano le divisioni che caratterizzano lo stile. Perché ?
(b) Quando affermo che lo stile è il linguaggio diviso – e questa è la tesi fondamentale di una teoria dello stile 3 -, intendo un’altra cosa, e parlo di ‘divisioni’ in un’accezione ben precisa.
Anzitutto: guardo al linguaggio in una prospettiva conflittuale o scissionale. Per rendere accessibile questa prospettiva, almeno in prima istanza, è opportuno richiamare gli autori di riferimento, le mie auctoritates. In filosofia l’idealismo tedesco (anticipato, forse, soltanto da Eraclito), e poi l’estetica conflittuale di Nietzsche. Ancora una volta, si faccia attenzione al significato dei termini-chiave. Il conflitto tra apollineo e dionisiaco non è una rissa o una zuffa (e neanche semplicemente un’interazione di forze). Apollineo e dionisiaco lottano tra di loro, ma non come Rambo e l’antagonista che lo sfida velleitariamente a braccio di ferro. Secondo Nietzsche, i due impulsi estetici partecipano a una competizione nobile, complessa e intrecciata, dalla quale sono scaturiti risultati superbi, ad esempio la tragedia greca. In filosofia, la formulazione più alta di un’estetica conflittuale è il saggio di Heidegger L’origine dell’opera dell’arte (1936).
A questi autori, in filosofia, bisogna affiancare la psiconalisi di Freud e di Lacan. Enunciando la mia tesi fondamentale, non faccio che rendere esplicito ciò che nella psicoanalisi resta ancora troppo implicito. Se l’individuo umano, il soggetto (come lo chiama la psicoanalisi) è un soggetto diviso, perché il linguaggio, così essenziale per la sua identità, non dovrebbe essere linguaggio diviso?
Ancora troppo implicita in Freud, questa impostazione appare – o dovrebbe apparire – piuttosto evidente in Lacan, che distingue tre modi di vivere e sperimentare il linguaggio. I tre modi portano il nome dei tre registri, l’Immaginario, il Simbolico, il Reale. Rispetto al Simbolico (e contro la scolastica lacaniana), la mia proposta è di indagare questo sistema “formidabilmente complesso e intricato” (come dice lo stesso Lacan)4 nelle sue diverse versioni: gli stili – intesi come stili di pensiero – mettono in scena una pluralità eterogenea e agonistica.
E’ l’aspetto decisivo, e chi è interessato a comprendere questa prospettiva non dovrà mai trascurarlo. Le divisioni o scissioni che costituiscono l’identità di molti linguaggi – di tutti i linguaggi artistici, evidentemente; della psiche come linguaggio, ecc. - non sono ‘separazioni’. Per separazione si dovrà intendere una distinzione rigida, o se si vuole, l’irrigidimento (sempre possibile) di una distinzione, anche di quelle che di per sé non sono rigide e non hanno alcuna vocazione al ‘binarismo’. Impariamo dunque a riconoscere nella sua efficacia e nei suoi limiti uno stile che chiameremo separativo: uno stile che tende a ridurre la polisemia del linguaggio, e a riportarla a una ideale univocità (come nella matematica e nella logica formale, da Aristotele a Frege, ecc); uno stile che, nelle scienze del linguaggio, si esprime nelle distinzioni tra livelli, nella scomposizione di ‘bue’ in ‘animale + bovino + maschio’, nella ricerca di regole che permettono di trasformare una frase (F) in ‘sintagma nominale + sintagma verbale’, ecc. Lo stile di pensiero separativo – o intelligenza separativa – ottiene i suoi migliori risultati nell’indagine della natura e nella costruzione di macchine, in particolare di macchine ‘intelligenti’. Dovrebbe essere chiaro che l’IA e in generale le ‘scienze cognitive’ – altra espressione molto generosa ! – sono imperniate essenzialmente sul funzionamento e sulle possibilità dell’intelligenza separativa.
(c) esistono analisi testuali ispirate all’estetica del conflitto e della scissione? Sì, quelle di Bachtim per esempio; e dovrebbe essere compreso in tutta la sua fecondità un sorprendente, pionieristico articolo di Mukarovský – sorprendente per chi crede che lo strutturalismo coincida con forme di rigidità e di binarismo. In questo articolo del 1931, Mukarovský si affida al conflitto come allo strumento migliore per intendere la recitazione di Charlot. Egli descrive Charlie Chaplin in City Lights (1931) come un attore ‘diviso’, cioè costituito da serie di gesti eterogenee e che interferiscono continuamente le une con le altre. Tutto il personaggio di Charlot sarebbe fondato su un’incoerenza paradossale: non uno di quei paradossi che i logici separativi sognano di sciogliere, perché credono che paradosso equivalga a paralisi del pensiero ! 5 ma un legame tra gli opposti fecondo e dinamico. Tale dinamismo si esprime come equilibrio acrobatico: “la recitazione di Charlot somiglia a una formazione spaziale che poggi sul più affilato dei propri spigoli eppure mantenga un equilibrio perfetto”.6
(d) quarta tesi: grandezza e miseria della svolta linguistica (linguistic turn). Questa fortunata espressione di Rorty indica l’atteggiamento che sarebbe divenuto prevalente nel XX secolo, e secondo cui tutti i processi culturali, e dunque tutti i processi mentali, vanno indagati a partire dal linguaggio.
Inevitabilmente, una domanda: la svolta linguistica attuata dal XX secolo ci ha permesso di acquisire una concezione adeguata del linguaggio? La mia risposta è negativa. Il linguistic turn è stato un movimento forse eccessivo ma soprattutto incompleto. Forse eccessivo, imprudente, perché sarebbe possibile indicare zone e attività del pensiero non penetrate e organizzate (almeno, non completamente) dal linguaggio; è la tesi, in una certa misura convincente, delle scienze cognitive. Ma anche e soprattutto incompleto – questo è l’aspetto decisivo che viene generalmente ignorato, e sul quale io vorrei invece insistere.
Il programma di ricerca che chiamo teoria dello stile muove da questa convinzione: benché straordinariamente ricche e originali, le indagini sul linguaggio (e non solo su quello verbale) hanno condotto a risultati parziali, e nella maggior parte dei casi inibite da un antico pregiudizio. Il pregiudizio del linguaggio indiviso – e del pensiero indiviso (un dogma che gli attuali studi sulla mente ripropongono con assoluta ingenuità).
3. Binarismi di lunga durata. Chomsky oppure Foucault. O nessuno dei due.
Se stile è ‘stile di pensiero’, la posta in gioco aumenta. Non si tratta solo del campo estetico, ma di tutto il campo della conoscenza. Rispetto a domande generali del tipo ‘che cosa possiamo sapere dell’intelligenza oggi?’7, la riflessione sui linguaggi artistici può offrire un contributo di inestimabile valore.
Propongo al lettore di seguirmi in una breve digressione, che ci permetterà di acquisire un orizzonte più adeguato. Prenderò spunto da due testi brevi e accessibili (a ogni lettore di buona volontà). Il primo s’intitola “Il ritorno della natura umana”, ed è il capitolo conclusivo nel libro di Diego Marconi “Filosofia e scienza cognitiva” (2001); il secondo è un saggio di Massimo Recalcati, “Lacan e l’inconscio strutturato come un’imago”, nel volume collettivo “Genealogie dell’immaginario” (2008).8
Marconi inizia ricordando un famoso slogan di Foucault: “L’uomo è un’invenzione recente”. 9 Naturalmente l’uomo a cui Foucault si riferisce è l’uomo come oggetto delle scienze umane, l’uomo che, negli ultimi centocinquantanni, si è sforzato di rappresentare la sua vita, il suo lavoro e il suo linguaggio. Il ‘genere’ umano non si darebbe mai nel modo di un funzionamento biologico, ma soltanto, e incessantemente, nella produzioni di artefatti e di testi. Da questa immagine integralmente culturale dell’uomo discende la dissoluzione della natura umana. Osserva ancora Marconi: “il cuore dell’argomento antropologico per la dissoluzione tra il biologico e il culturale era il linguaggio”, considerato alla luce di tre premesse: (a) l’estrema varietà delle lingue, non solo superficiale, ma profonda; (b) il linguaggio come oggetto di addestramento, dunque di una pratica sociale sempre storicamente variabile; c) il linguaggio retroagisce su ogni aspetto della cultura in modo tale che ogni comunità costruisce la propria ontologia.
Ebbene, afferma Marconi, la svolta epocale descritta da Foucault sembra essersi esaurita nel corso di pochi decenni, e la frattura tra uomo naturale e uomo culturale si è ridimensionata in misura sorprendente. “Nel giro di pochi anni, il linguaggio sarebbe tornato a essere concepito come una facoltà umana” (p. 130). A dare un colpo mortale alla concezione culturalista del linguaggio era stato, già nel 1959, Noam Chomsky, che qui Marconi assume come emblema delle scienze cognitive. Si legga con attenzione questo passo. “Oggi la maggior parte di noi pensa che le parole si apprendono, ma il linguaggio si sviluppa (come lo scheletro) più di quanto non si impari, al contrario della scrittura o del gioco degli scacchi” (p. 131). In sintesi: le scienze cognitive avrebbero rilanciato l’idea della ‘natura umana’ puntando l’attenzione non sulla miriade delle rappresentazioni simboliche – testi, discorsi, rituali, miti, ideologie –, la cui evidente variabilità è il punto forte del relativismo (di Foucault, e di tanti altri), ma sulle capacità della nostra mente, cioè su meccanismi profondi e su processi che sono universali.
Prima di valutare se l’alternativa tra il paradigma Chomsky e il paradigma Foucault sia in grado di saturare l’orizzonte, vorrei riconoscere i meriti del libro di Marconi, il suo rigore e la sua onestà. Ad esempio, rievocando l’immagine trionfale dell’intelligenza artificiale all’inizio degli anni Ottanta, Marconi non può fare a meno di rimarcare il fallimento di quel programma: i tanto vantati sistemi esperti erano ben lontani dalla versatilità che caratterizza l’intelligenza umana (p. 24). Ecco il termine chiave, nella mia prospettiva: la versatilità – o flessibilità. Ma la flessibilità implica attenzione per la polisemia. Niente ci impedisce di chiamare ‘intelligenti’ (in un senso ben preciso) macchine stupide benché efficaci nello svolgimento dei compiti loro assegnati. La questione decisiva resta però il pluralismo dell’intelligenza, cioè degli stili di pensiero. Marconi osserva, con una lucidità che andrebbe valorizzata: “La scienza cognitiva non ci propone una conoscenza completa ed esauriente della vita mentale umana”. Essa studia i processi cognitivi come elaborazioni di informazioni. “Gli (eventuali) aspetti per cui quei processi non sono conoscibili scientificamente non riguardano la scienza cognitiva”.10
Qui l’onestà raggiunge l’apice, e si tramuta in assoluto candore. Il filosofo/scienziato cognitivo dice: noi restringiamo l’ambito del ‘mentale’ e dell’’intelligente’ a ciò che riusciamo a descrivere con i nostri strumenti. Ogni processo non descrivibile con i nostri strumenti (ancora molto poveri, forse; non abbiamo già lanciato ridicole urla di trionfo in un passato recente?) - , e di cui non si può tuttavia escludere il carattere di intelligenza, non ci riguarda, e non ci riguarderà mai.
Cercherò di rendere più esplicita la conclusione che il filosofo e lo scienziato cognitivo si limitano a enunciare stringatamente: non basta sperare in un incremento infinito di conoscenze; l’aspetto decisivo è che le scienze cognitive appaiono in grado di descrivere soltanto un determinato stile di intelligenza, cioè l’intelligenza algoritmica 11 (nella mia terminologia, un’intelligenza separativa). Questa è la soglia infrangibile. Ebbene, se l’arte – s’intenda: la grande arte - fosse una manifestazione della mente fondata in misura essenziale su forme di intelligenza non algoritmiche, quale contributo potremmo attenderci dalle scienze cognitive, e dalla loro vocazione all’universalità?
E’ venuto il momento di completare il giro dell’orizzonte. Chomsky VS Foucault? Come non avvertire un sentore di muffa, in quest’alternativa? In effetti, è la muffa dei secoli che diventa percepibile in questo e in altri binarismi: universale/particolare, soggetto/oggetto, interno/esterno, superficie/profondo, immaginario/reale, letterale/figurale, innatismo/comportamentismo, ecc. Osserva Recalcati che lo sforzo di Lacan, attraverso la teoria dei tre registri, è quello di problematizzare tutti i binarismi, ontologici ma anche logici, che hanno caratterizzato la ragione filosofica occidentale.12 Questa intenzione problematizzante non caratterizza solo Lacan, e Freud prima di lui: nel medesimo paradigma – comunque lo si voglia battezzare: razionalità flessibile, logica scissionale, soggetto diviso (non soltanto in zone, ma in modi di pensare), ecc – troviamo Nietzsche, Heidegger, il secondo Wittgenstein (almeno in parte), Sartre, Bataille, Bachtin, Benjamin, lo strutturalismo trasformazionale di Barthes, e così via. Perciò l’alternativa Chomsky/Foucault è davvero troppo povera. Lo è anche per quanto riguarda il programma cognitivista, se si considerano studiosi come George Lakoff che hanno proposto una radicale revisione del modello chomskyano a partire dalla centralità di quel meccanismo che è la metafora.13
4. La teoria dello stile contro il linguaggio indiviso.
Ora che abbiamo compreso quanto alta sia la posta in gioco nelle ricerche sull’arte come ‘forma’ o ‘modo’ di intelligenza, possiamo tornare alla teoria dello stile. Come sempre, per accedere al terreno di ricerca occorre sbarazzarsi di alcuni pregiudizi, che agiscono come ostacoli mentali e crampi paralizzanti. Mi limiterò a indicarli molto sinteticamente.
I due pregiudizi più diffusi, durevoli e resistenti, vanno individuati probabilmente nella coppia ‘individuale/collettivo’ e nella nozione di ‘scarto dalla norma’. Rispecchiando una tradizione sclerotizzata, Cesare Segre definisce lo stile come l’insieme dei tratti formali che caratterizzano il modo di esprimersi di una persona, o il modo di scrivere di un autore oppure l’insieme dei tratti formali che caratterizzano un gruppo di opere.14 Tratti formali, cioè stilemi: zone di rigidità che favoriscono l’attribuzione di un’opera a un autore o a un gruppo, ma contribuiscono poco o nulla all’analisi; in effetti, gli stilemi non appartengono alla dimensione dell’intelligenza interpretativa. Il secondo pregiudizio è nuovamente imperniato sul tratto, sulla marca che emergerebbe nel tessuto discorsivo, come uno scarto, un’infrazione a una medietà anonima.
Che cosa hanno in comune queste due formidabili banalizzazioni del concetto di stile? Lo si è già detto, la concezione del linguaggio indiviso. Lo stile non sarebbe una macchina che funziona grazie ad articolazioni conflittuali, sarebbe semplicemente espressione (del singolo, del gruppo, della società).
Si potrebbe obiettare che la focalizzazione su alcuni tratti stilistici – “un certo tipo di inquadrature inclinate, di soffitti, di grandangoli, significa immediatamente Orson Welles; il raccordo che cade come una mannaia, la voce atona e senza timbro ci dicono ‘Bresson’; il campo vuoto all’inizio e alla fine, la moltiplicazione dei rettangoli, ‘Ozu’; l’impossibilità del piano ravvicinato, la parsimoniosa e rarefatta igiene dei suoni, ‘Tati’, ecc.” - 15 non è del tutto inutile. E’ vero, non ho difficoltà ad ammetterlo. D’altronde, e lo si sarà compreso, lo spregio verso la non-teoria e l’anti-teoria, l’irritazione per gli stereotipi, non esclude l’ammirazione per gli studiosi che hanno letto e guardato i testi con la giusta attenzione per i dettagli. Ma la focalizzazione non scontata su un dettaglio è solo l’inizio e la promessa di un’interpretazione: niente di più.
5. Il dividuale.
Abbiamo individuato il grande errore: l’indiviso. Un errore che viene continuamente riproposto, anche in anni recenti, con la possibile divaricazione tra individuale e collettivo, e con diversità di opzioni. Ad esempio, il tentativo da parte di Bordwell di indicare dei macrosistemi nel cinema hollywoodiano è un’opzione a favore delle convenzioni standardizzate, e implica perciò l’eliminazione dell’individuale. 16 Mi limito a richiamare l’attenzione su un’espressione che appare proprio all’inizio del saggio di Bordwell: “tra il 1917 e il 1960 uno stile specifico e omogeneo ha dominato il modo di fare cinema degli studios americani – uno stile i cui principi restano relativamente costanti attraverso decenni, generi, case di produzione e personale” (p. 3). Ebbene, questa proposizione può risultare plausibile alla luce della vecchia stilistica, ma dal punto di vista che sto esponendo l’espressione ‘stile specifico e omogeneo’ è una vera e propria assurdità. Per la teoria, lo stile si dà soltanto in una dimensione eterogenea e conflittuale.
Si potrebbe pensare, a questo punto, che io stia alimentando una guerra sulle parole. Ciascuno ha il diritto – in base a un condivisibile principio di tolleranza – di utilizzare un termine assegnandogli un certo significato. Possiamo esigere che quel termine venga usato in maniera coerente, e sufficientemente esplicito, ma è lecito introdurre delle proibizioni?
Ma la mia posizione non è questa: sto tentando una mossa espansiva, e non riduttiva. Più precisamente: sto valorizzando la polisemia del termine stile, per mostrare che lo stile non è il collettivo né l’individuale, bensì – nietzscheanamente – il dividuale.17 Non affermo che questa è la sola accezione possibile, bensì che è la più feconda. Vorrei aggiungere una considerazione di carattere generale: alimentando la polisemia di un termine, non si può fare a meno, prima o poi, di incontrare o di accendere uno o più conflitti. Prima o poi siamo costretti a introdurre polemos nella polisemia, trasformando una molteplicità irenica in un territorio dove divampa il conflitto;18 ma se questo conflitto assumerà forme nobili, se sarà una lotta e non una rissa o una zuffa, avremo acquisito veri progressi per la conoscenza.
Dunque, ci sono delle buone ragioni per suggerire l’uso di termini come macro-convenzioni, macro-sistemi, regole standard, ecc., a quegli studiosi che parlano dello stile in un’accezione essenzialmente ‘grammaticale’. In ogni caso, la posta in gioco è la conoscenza del linguaggio, e dei processi mentali che sono attivi nella comprensione delle opere d’arte.
Ebbene, l’intuizione che guida la teoria dello stile è che il linguaggio sia troppo flessibile per venir pensato come un ‘organo’ (ecco la grande fallacia del paradigma chomskiano e del cognitivismo che accetta questa analogia) ed è troppo flessibile anche per poter venir pensato come un ‘artefatto’, cioè come uno strumento che i soggetti umani userebbero per nominare e manipolare oggetti (ecco la grande fallacia che si nasconde nelle ovvietà della coppia ‘soggetto/oggetto’, smascherata da Heidegger in Essere e Tempo). L’elasticità del linguaggio ha uno statuto articolatorio: linguaggio è ciò che si scinde in articolazioni eterogenee, come mostrato – ma solo imperfettamente, inizialmente – nello schema dei due flussi in Saussure. Lo statuto del linguaggio è scissionale. 19Scissionale non significa ‘mereologicamente diviso, o ripartito’, perché il linguaggio non si divide (soltanto) in parti o in livelli o in zone (ad esempio, i registri nel senso di lessici specializzati, di cui si occupa la sociolinguistica ecc.), bensì in modi di pensare. Il linguaggio è modalmente diviso. La teoria dello stile ha come oggetto i modi di pensare e i modi di guardare.20
Per accedere a questo programma di ricerca è necessario liberarsi di un altro crampo mentale: l’idea che lo stile sia un fenomeno concreto, qualcosa che emerge, per l’appunto, in quei tratti formali che chiamiamo stilemi, che avrebbero un’evidenza fenomenica e che sono indizi per la riconoscibilità (di un regista, di uno scrittore). Al contrario: lo stile è qualcosa di astratto, o meglio: è il funzionamento astratto di ogni linguaggio complesso. Ma allora, come riconoscerlo?
5. Dov’è – lo stile ? Piccoli esercizi di iniziazione.
Lo scrittore che ha detto “Truth is entirely and absolutely a matter of style” 21, stabilendo un nesso tra il problema dello stile e quello della verità – non basta questo aforisma di Wilde a far apparire desolatamente minuscolo il concetto di ‘stilema’ ? -, ha asserito altrove che “Art is always more abstract than we fancy”. 22 In effetti, l’arte è sempre astratta perché ha un funzionamento conflittuale, e perché il conflitto in base a cui funziona non è tematico o ideologico, e non s’incarna semplicemente in personaggi portatori di principi opposti (il Bene e il Male, ecc). Come già detto, tale conflitto è stato descritto con apparati catgoriali e terminologie differenti da Nietzsche, da Heidegger, da Lacan, da Bachtin; anche da Barthes in La camera chiara (1980), tramite il dissidio tra studium e punctum; ecc. Vorrei tentare ora una formulazione inevitabilmente ‘sintetica’ o sintetizzante, ma che mantenga un carattere introduttivo nei riguardi delle teorie che ho appena menzionato, e alle quali se ne potrebbero aggiungere altre.
La teoria dello stile, cioè degli stili di pensiero, è caratterizzata da una visione conflittuale: in ogni testo, almeno in linea di principio, agisce un principio grammaticale (orientato verso, e governato da, regole rigide e semirigide) che lotta contro un principio stilistico, orientato verso la flessibilità. Poiché vi è lotta, non è impossibile che uno dei due principi arrivi a sopraffare completamente l’altro; di fatto, un esito estremo è quasi impensabile, mentre sono infinite le forme della dominanza dell’uno o dell’altro.
Ancora una domanda: perché non è facile cogliere l’azione del principio stilistico, cioè l’organizzazione scissionale del linguaggio? Ebbene, perché la grammatica (in senso ampio) tende a occultare le divisione del linguaggio, un po’ come l’Io tende a velare le divisioni del soggetto, e a far credere nell’equivalenza fallace tra il soggetto e l’Io. Dunque il principio grammaticale non tende solo a imporre ovunque se stesso, ma a rendere scarsamente visibili – là dove non riesce ad abolirli - gli effetti e le manifestazioni del principio agonista.
Infine, la domanda più attesa e che ci ricondurrà, tra poco, al puzzle di Charlot: in virtù del principio grammaticale siamo in grado di vedere (e individuare) gli stilemi; che cosa significa invece, esattamente, vedere il funzionamento astratto dello stile? Quali sono i suoi punti e le sue zone di emersione?
Il conflitto tra gli stili si manifesta più visibilmente nelle dissonanze, cioè in ‘incoerenze’ grazie alle quali un testo riceve e assume una forma di coerenza più complessa. Comincerò col proporre un esempio, che ricorre quasi identico in un critico letterario e in un critico cinematografico.
Emilio Cecchi, nel resoconto di un viaggio in Messico, propone questa riflessione, molto ammirata da Italo Calvino, a proposito dei tappeti navajo: “Quando una donna Navajo sta per finire uno di questi tessuti, essa lascia nella trama e nel disegno una piccola frattura, una menda : “affinché l’anima non le resti prigioniera dentro al lavoro”. Questa mi sembra una profonda lezione d’arte : vietarsi, deliberatamente, una perfezione troppo aritmetica e bloccata. Perché le linee dell’opera, saldandosi invisibilmente sopra sé stesse, costituirebbero un labirinto senza via d’uscita ; una cifra, un enigma di cui s’è persa la chiave. Per primo, s’irretirebbe nell’inganno lo spirito che ha creato l’inganno.
E non è anche la spiegazione perché certi grandi artisti misero sempre nella propria opera un segno d’incompiuto ; quasi un invito al mistero, alla collaborazione naturale ? Temevano che l’opera, in certo modo, sarebbe viziata e maledetta, se vi restavano dentro “prigionieri”. Sapevano quanto essa riuscirebbe più viva, in virtù d’una tal sprezzatura nella quale s’attesti che l’uomo, nell’atto stesso di creare, riconosce la fatalità della propria imperfezione”.23
Riflessioni affini vengono proposte da Jean-Lous Leutrat in un saggio su TheSearchers di John Ford: “E’ necessario, per intraprendere la lettura di Sentieri selvaggi, tener presenti, contemporaneamente, il diritto e il rovescio della medaglia e non dimenticare mai che i tessitori navajo lasciano sempre di proposito un difetto nei lavori che compongono perché, per loro, perfezione significa morte”.24 E ancora: “Uno degli elementi caratteristici dei tappeti navajo è ciò che si chiama lazy line. Questo difetto di fabbricazione, che è diventato una sorta di marchio di fabbrica, è costituito da una linea obliqua che crea una sfasatura, in virtù della quale i fili della trama non si intrecciano”.25
Abbiamo chiarito un aspetto importante: lo stile, propriamente inteso, è fatto di dissonanze. Con inevitabile rammarico mi affretto però ad aggiungere, rivolgendomi al lettore (o al collega) che crede di essere finalmente approdato alla teoria dello stile, che questo è solo il possibile inizio della teoria. Anche la vecchia stilistica aveva saputo percepire nei testi il mormorio delle dissonanze: Leo Spitzer, ad esempio, ha dedicato pagine memorabili alla klassische Dämpfung, alla smorzatura classica, nella scrittura di Racine.26 Effetti di smorzatura che contraddicono la spontaneità dell’enfasi, e aprono varchi imprevisti al senso. Tutto ciò non basta.
La stilistica può fermarsi alla percezione di dissonanze, di ‘fratture’, di irregolarità che incrinano la staticità inerte di una singola opera e, più in generale, smentiscono la gloriosa estetica occidentale dell’armonia e della simmetria. Ma la teoria degli stili ambisce ad andare molto oltre. Essa si interroga sullo statuto ontologico dell’opera d’arte in quanto abitata e costituita dal conflitto degli stili, da una eterogeneità ‘interna’, e comincia a proporre delle distinzioni. Anzitutto, nelle opere minori, nell’artigianato, il principio del conflitto si manifesta eventualmente in una sola dissonanza. Pare che, al fine di attenuare l’insopportabile bruttezza dell’artigianato in serie che proviene dal Terzo Mondo, imperfezioni e fratture vengano introdotte volontariamente dai venditori. In ogni caso, il tappeto navajo rimane un oggetto monostilistico, e non un modello dell’arte, se non per i casi più semplici. Invece, nelle opere d’arte complesse, il conflitto pervade l’intero testo. L’analisi di oggetti pluristilistici esige una cassetta degli attrezzi che la teoria della letteratura sta continuando ad arricchire. E le teoria che si occupano dei linguaggi visivi?
In ogni caso riconoscere dissonanze, gustare incoerenze feconde - quante ce ne sono, ad esempio, nella “Leggenda della Croce” ad Arezzo !, – è un esercizio mentale indispensabile. Ma è anche l’inizio di altre domande, estremamente difficili: in che modo lo stile può includere le dissonanze senza bloccarsi nel disordine? L’inserzione di irregolarità è alla portata dei mediocri; l’inclusione attiva delle irregolarità, l’elaborazione di incoerenze non paralizzanti, è invece lo stupefacente risultato a cui approdano i grandi autori. Anche nei casi-limite, anche là dove uno scrittore rasenta più da vicino il collasso delle articolazioni (come nel caso dell’enciclopedia cinese citata da Borges). Problemi difficili, e per i quali non esiste una risposta ultima.
7. Charlot, imitatore di se stesso.
Come è possibile che il vero Charlie Chaplin non abbia potuto far emergere la sua irripetibile singolarità, nella serie degli imitatori? Possiamo invocare fattori empirici di spiegazione: l’elevato numero dei concorrenti, l’abilità mimetica di molti tra di loro, la progressiva stanchezza – e la crescente confusione mentale - della giuria. Ma la vera spiegazione è quasi certamente un’altra: la giuria valutava i concorrenti in base agli stilemi di Charlot, ed era indotta a premiare chi li sapeva esemplificare meglio. Tuttavia, lo si è detto più volte, lo stile non è l’insieme degli stilemi. Non lo è, ma può essere inteso così, in un’accezione riduttiva e in determinate circostanze: allora lo stile, che è dividuale, diventa individuale e può essere oggetto di imitazione.
Inimitabile, in Charlot, era la miscela stilistica dei suoi capovalori, e non l’irrigidimento (mereologico) in un insieme di tratti. L’aneddoto, che ho voluto assumere come una micro-allegoria, suggerisce che l’unicità, l’individualità, non sfugge ai processi mimetici. Impossibile da imitare e da copiare non è l’individuo, ma il dividuuum – il funzionamento astratto e conflittuale per cui non esiste una ricetta algoritmica. La miscela degli stili viene misteriosamente scoperta da chi possiede genialità e capacità di lavoro: ma è destinata soltanto a lui, e non è accompagnata da garanzie di riproducibilità neanche per lui – come mostra Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde, un romanzo emozionante, senza dubbio, ma leggibile anch’esso come un’allegoria della creazione artistica. *
* nelle mie intenzioni, a questa prima parte dovrebbe seguirne una seconda, incentrata sull’analisi di un film (Sentieri selvaggi, probabilmente)
** Ho presentato rapidamente alcune delle tesi qui esposte il 17 giugno 2009, a Milano, presso lo Spazio Oberdan, nell’ambito di una giornata commemorativa dedicata a Vincenzo Buccheri. Le dedico alla sua memoria.
Note
1 Una fallacia non è riducibile a un semplice errore. Se dico “oggi è il 26 dicembre 2009”, mentre oggi è (poniamo) il 27 dicembre 2009, commetto un errore – assai facile da smentire! Invece una fallacia è una posizione mentale più complessa; è una prospettiva riducente/deformante, che può tuttavia appoggiarsi su alcuni aspetti della realtà. Per questo è difficile, e forse impossibile, confutarla in maniera definitiva.
2 In S/Z (1970) Barthes fa scorrere al ralenti un intero testo, una novella di Balzac. L’analisi di Sarrasine rimane tra i risultati più alti nell’applicazione di questo metodo.
3 Non posso non rinviare al mio libro Teoria dello stile (La Nuova Italia, 1997) per l’enunciazione di questo programma di ricerca.
4 J. Lacan, Il Seminario, libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954); trad. it. Einaudi, Torino, p. 67.
5 Ingenuità e miopia che si riflettono nel titolo di un libro di Piergiorgio Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino 2001. Il dogmatismo di Odifreddi s’incrina solo per un istante, nella dedica “a Laura, paradosso che il tempo non ha risolto”.
6 J. Mukarovský, Tentativo di analisi strutturale del fenomeno dell’attore, 1931; ora in Il significato dell’estetica, Einaudi, Torino, 347.
7 Dell’intelligenza, e della pluralità conflittuale delle sue forme: il flessibile contro il rigido (e non banalmente i molti tipi di intelligenza, di cui si occupa una certa psicologia). Un indagine sull’intelligenza implica un indagine sulla stupidità – quella che Musil indicava come ‘stupidità intelligente’ e considerava come una caratteristica saliente della nostra epoca.
8 Il libro di Marconi è edito da Laterza. Genealogie dell’immaginario è stato pubblicato dalla UTET, a cura di Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera.
9 M. Foucault, Les mots et les choses, 1966; trad. it. Rizzoli, p. 398.
10 D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, cit., p. 50.
11 Un algoritmo, o procedimento effettivo, è descrivibile “come una combinazione di un numero finito di sottoprocedimenti, nessuno dei quali è più complesso della semplice operazione di aggiungere 1 a un numero naturale (che è l’operazione più semplice che si riesca a immaginare, almeno in matematica)” (D. Marconi, op. cit., p. 35).
12 M. Recalcati, Lacan e l’inconcio strutturato come un’imago, in Genealogie dell’immaginario, 2008, cit., p. 177.
13 Cfr. G. Lakoff, Women, Fire, and Dangerous Things, University of Chicago, 1987. Per il pluralismo interno alle ricerche cognitiviste, rinvio all’articolo di Mark Johnson, Il ruolo della linguistica in tre rivoluzioni cognitive. La natura metaforica della conoscenza, in G. Lakoff – M. Johnson, Elementi di linguistica cognitiva, Quattroventi, Urbino 1998.
14 C. Segre, Stile, in Enciclopedia, vol. XIII, Einaudi, Torino 1981.
15 Ch. Metz, L’énonciation impersonnelle, ou le site du film, 1995, trad. it. Edizioni Scinetifiche Italiane, Napoli, p. 182.
16 Così Giulia Carluccio in Questioni di stile, nel volume a cura di Paolo Bertetto, Metodologie di analisi del film, Laterza 2006, p. 117. Il riferimento è The Classical Hollywood Cinema. Film Style & Mode of Production to 1960, Routledge, London 1960.
17 Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878/80, af. 57.
18 Mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Polemosemia. Le relazioni oppositive si dicono in molti modi, in A partire da Jacques Derrida, a cura di Gianfranco Dalmasso, Jaca Book, Milano 2007.
19 Non si potrebbe dire la stessa cosa di un organo come lo stomaco, o il fegato, o il cervello.
20 L’insistenza sulla ‘scissione’ non deve generare equivoci: gli stili esistono e funzionano in quanto intrecciati. Una scissione, nel senso in cui uso questo termine, non è una separazione o una ripartizione o una distribuzione. La logica scissionale è dunque una logica dei paradossi.
21 O. Wilde, The Decay of Lying, 1891; trad. it. “la verità è interamente e assolutamente una questione di stile” (Mondadori, p. )
22 O. Wilde, The Picture of Dorian Gray, 1891; trad. it. “L’arte è sempre più astratta di quanto immaginiamo”, Garzanti, p. 157.
23 E. Cecchi, Viaggio in Messico, 1930, Adelphi, Milano 1985, p. 50. Il paragrafo s’intitola “Quia imperfectum”.
24 J.L. Leutrat, John Ford, La prisonnière du desert. Une tapisserie Navajo, 1990; trad. it. Sentieri selvaggi di John Ford, Le Mani, 1995, p. 14.
25 Ibid., p. 53.
26 L. Spitzer, Il “récit de Théramène”, 1948; trad. it. in Critica stilistica e semantica storica, a cura di A. Schiaffini, Laterza, Bari-Roma 1966.