A scuola con Tom & Jerry
Il cinema di fronte alla teoria (e viceversa)
Il mondo, e il cinema, verranno salvati dai ragazzini?
Solo se sapremo educarli all’analisi di meccanismi complessi, ma accessibili a tutti.
1. Mutazioni d’epoca, e declino della critica
Ho letto con molto interesse, e con la simpatia che mi capita sempre di provare verso i giovani studiosi di valore, il bell’articolo di Vincenzo Buccheri nel numero 152 di “Segnocinema”. Concordo su molti aspetti, ma dissento su altri di notevole importanza: mi auguro, con questo intervento, di contribuire a una discussione sui problemi che Buccheri indica con lucidità, e in un linguaggio pacato che non si può non apprezzare.
Proverò anzitutto a riassumere i punti che ritengo fondamentali; tuttavia, per ragioni di spazio, dovrò limitarmi a una discussione parziale:
a) il cinema non è un oggetto o un apparato immutabile, anzi, è un’arte particolarmente esposta alle trasformazioni e alle innovazioni tecnologiche, e socio-tecnologiche. Nondimeno, siamo in grado di capirci quando parliamo del ‘cinema’, oggi;
b) negli ultimi decenni, alcune trasformazioni sembrano indurre e giustificare ansie apocalittiche: ad esempio la diminuzione vertiginosa degli spettatori che si recano nelle sale cinematografiche, e il mutamento delle attese e delle richieste. Anche al cinema, come alla letteratura e alla pittura, si chiede ormai di’‘intrattenere’, cioè di trasmettere emozioni rapide, leggere, effimere. Assistiamo dunque al declino di quella capacità di miscelare arte e comunicazione, che ha rappresentato nel XX secolo il privilegio del cinema: i film di Ford, di Chaplin e di Hitchcock, ma anche di Fellini e di Kubrick, sapevano conquistare un pubblico di massa, sorprendentemente in grado di assorbire le loro alte modalità espressive e stilistiche.
c) se oggi, un po’ ovunque, la domanda di percezioni estetiche si rivolge soprattutto, e sempre di più, all’intrattenimento, e perché sono cambiate le abitudini mentali e percettive: è avvenuta, e sta avvenendo, un’eclissi dell’estetico – così la chiama Buccheri, mettendo l’accento su quella che io preferisco chiamare ‘ideologia postmoderna’, e non semplicemente postmoderno, termine che può essere utilizzato in un’accezione neutra, come etichetta epocale. “Il postmoderno – scrive comunque Buccheri – che in teoria avrebbe dovuto abolire i confini, in pratica ha stabilito nuovi steccati: azzerando tutto al “basso”, estetizzando il quotidiano e celebrando solo la cultura di massa, ha fatto rientrare dalla finestra la nostalgia per il Sublime e per l’Arte più esteriore”.
d) viviamo in una società culturalmente ‘imbarbarita’, in cui non si combatte più nessuna battaglia teorica intorno al cinema o alle altre forme d’arte, e in cui la discussione sui film, almeno sulle pagine dei giornali, è solo il pretesto per parlare d’altro.
“E qui - scrive Buccheri – arriviamo al punto decisivo: la definitiva marginalizzazione della critica, e della cinefilia di vecchio stampo”. Una marginalizzazione che sarebbe dovuta a due cause. Da un lato, la riduzione della critica a semplice indicazione di consumo: al pubblico che si accontenta delle stelline e dei pallini non è più necessario offrire neanche la classica recensione (è in questo senso che va forse letta la notizia che la redazione di “Nesweek”, dopo che il titolare della rubrica cinematografica è andato in pensione, non ha sentito il bisogno di sostituirlo). Dall’altro lato, una proliferazione eccessiva di tecnicismi, un linguaggio elitario e formalista, estraneo alle dimensione esistenziale degli spettatori, al loro desiderio di capire meglio il cinema per capire meglio quella che possiamo chiamare con Montaigne “la condizione umana” (‘natura’ è un termine di cui molti diffidano). In questa prospettiva, la situazione della critica cinematografica è sostanzialmente identica a quella della critica letteraria: e infatti Buccheri dedica l’ultima parte del suo articolo al libro di Todorov, La letteratura in pericolo, in cui si sostiene che l’approccio al testo letterario trova oggi il suo maggiore ostacolo negli eccessi della teoria.
Questo è certamente un punto decisivo, ed è proprio da qui che vorrei iniziare a esprimere le mie riserve.
2. Gli ‘eccessi’ della teoria e l’analfabetismo di ritorno.
Dunque la teoria rappresenta oggi un ghetto da cui bisogna uscire? E Il linguaggio specialistico sarebbe semplicemente un gergo, che rinchiude la critica in uno spazio autoreferenziale? Ammesso che siano vere, queste affermazioni indicherebbero una situazione preoccupante ad una sola condizione: il potere di imprigionare il cinema (o la letteratura). Ma gli specialisti – i teorici - hanno davvero questo potere? Sono davvero così numerosi, e così influenti?
Credo che a queste domande si debba rispondere in maniera negativa. Questa visione del problema, suggerita da Todorov, da Compagnon, ecc., è mistificante. Provo un grande rammarico nel vedere che essa risulta persuasiva agli occhi di persone che stimo, ed è questo, più di ogni altro, il motivo che mi ha spinto a intervenire su “Segnocinema”.
Ora, quando una mistificazione trova più credito di quanto non meriterebbe, è perché le apparenze le sono favorevoli. Bisogna dunque spiegare le apparenze. Nel nostro caso, se la teoria sembra così ampiamente diffusa e influente, è solo per l’inconsistenza dei suoi avversari. In termini molto concreti: il vecchio modo di pensare e di parlare continua ad essere pervasivo, ma ha dovuto registrare una perdita irrimediabile di prestigio. Esso domina i discorsi universitari non meno di quelli quotidiani: ma parla con voce sommessa. Chi non conosce la teoria, e in particolare il suo decennio ‘aureo’, chi si è fermato alle prime pagine dei libri di Barthes, Lacan, Deleuze, Derrida, Greimas, ecc., non può comunque sottrarsi alla consapevolezza di un tramonto definitivo della vecchia critica; e difficilmente alza la voce.
Ciò non significa però che il prestigio di cui gode la teoria sia stato accompagnato da un vero rinnovamento per quanto riguarda gli apparati culturali, e prima di tutto l’Università. Può darsi che la situazione delle Facoltà di Scienze della comunicazione sia leggermente migliore di quella delle Facoltà di Lettere: credo che valga la pena di valutare, soprattutto nella sostanza, i curricula.
Un Corso di laurea in Lettere offre a chi si iscrive la possibilità di acquisire una buona formazione teorico-metodologica? Assolutamente no. I moduli di teoria e di metodologia sono decisamente minoritari: la teoria è marginalizzata. Domina la formazione storica, declinata o sul versante tematico o su quello filologico. Qual è la situazione per chi si iscrive all’Università per studiare cinema? Credo – se sbaglio, i colleghi mi correggeranno – che esista una differenza, relativa al maggior peso delle discipline tecniche. E sono probabilmente le tecniche a venire privilegiate anche negli insegnamenti di “Teoria e tecniche di” (linguaggio del cinema, dei nuovi media, ecc.).
Al di là di queste precisazioni, che ritengo indispensabili per una valutazione realistica del contesto culturale in cui ci troviamo, vorrei stabilire un rapporto positivo con l’intervento di Buccheri e con quelli che mi sembrano i suoi veri obiettivi. Proverò a delineare una zona di incontro, se non di accordo: la teoria non è mai ‘troppa’, quando coincide con la ricerca. E la ricerca, nonostante i grandi risultati del secolo scorso, ha di fronte a sé un’infinità di problemi ancora da esplorare. E’ vero però che attualmente circola troppa ‘cattiva teoria’: versioni semplificate e mutilate di teorie complesse, modelli semplici, datati e aridi (la narratologia di Genette, per fare un esempio), nozioni prelevate casualmente qua e là.
C’è un altro motivo per cui non mi sembra legittimo accusare la teoria: si assiste ormai da tempo, soprattutto negli Stati Uniti, al ritorno della critica ideologica, che è una critica ‘contenutistica’. I cultural studies stanno devastando l’Università, con effetti di lunga durata. Ora, qual è il profilo tipico di un rappresentante dei cultural studies? Qualcuno che non capisce nulla di filosofia, che è quasi totalmente ignorante di linguistica e di semiotica, e che conosce solo qualche stereotipo della psicoanalisi. Ma questo analfabeta di ritorno – di cui ciascuno di noi ha incontrato qualche notevole esemplare, soprattutto nel campo dell’americanistica e dell’anglistica, dove l’analfabeta del gender, o del postcoloniale, è una figura discretamente diffusa – si presenta come un portatore del nuovo: e dopo aver liquidato lo strutturalismo come una forma di binarismo, e la psicoanalisi come pensiero fallocentrico (o fallogocentrico: i più colti hanno sentito parlare di Derrida, o quantomeno del Derrida più fazioso), ci propone una visione politicizzata o sessualizzata in cui il testo letterario, o filmico, è un oggetto eminentemente culturale, cioè imprigionato nel suo contesto storico. Anche se non sono privi di velleità teoriche, soprattutto in quanto attingono parassitariamente ai grandi maîtres à penser degli anni Sessanta, i culturalisti sono soltanto degli ideologi. Non rappresentano un settore della teoria, ma piuttosto l’anti-teoria.
Mi sembra però che Buccheri non abbia nessuna intenzione di proporre un ritorno al passato. Lo dice esplicitamente: “Non stiamo auspicando un ritorno ai ‘contenuti’ o alla critica ideologica”. Dunque, non possiamo e non vogliamo dimenticare che un film è un ‘oggetto-di-linguaggio’. A partire da questo fondamentale punto di accordo, vorrei discutere la sua tesi, secondo cui un film è, prima di tutto, una testimonianza esistenziale. “E il critico, se non vuole essere tagliato fuori dal dialogo tra il film e il suo spettatore, deve saper cogliere quanto di testimoniale c’è in un film: il suo rapporto con le nostre esistenze, ma anche con il mondo”.
Dunque, il problema decisivo è questo: esiste la possibilità di un rapporto positivo tra la complessità della teoria, con il suo alto livello di astrazione e i suoi tecnicismi, e la vita quotidiana? La mia risposta è che questa via deve essere cercata: altrimenti non resterebbe che arrendersi, da un lato, all’immortalità del vecchio linguaggio, che è privo di tecnicismi ma è anche privo di pensiero, che è comprensibile a tutti ma non dice nulla che meriti di essere detto; e, dall’altro lato, alla nuova arroganza e all’aggressività della critica ideologica, che non smetterà di ricordarci le colpe degli uomini rispetto alle donne, degli eterosessuali rispetto agli omosessuali, degli Europei rispetto alle culture non-europee. Come se nella letteratura e nel cinema si potesse trovare soltanto (o soprattutto) questo. E come se il principale dovere della critica fosse coltivare i sensi di colpa dell’Occidente.
3. La bianchezza e la bellezza.
Perché andiamo al cinema? Senza dubbio, per vedere dei bei film. Se un film coinvolge la nostra intelligenza e le nostre emozioni, è per la sua qualità estetica. Non basta che tocchi problermi esistenziali importanti: questi problemi diventano nostri solo per il modo in cui vengono elaborati. Perciò la dimensione della bellezza resta essenziale.
Non so se la bellezza sia in grado di salvare il mondo, secondo la profezia e l’auspicio di Dostoevskij. Temo che ciò sia poco probabile. Non soltanto perché la bellezza, come ha detto Kundera, viene sovente perseguitata, ma perché viene soprattutto banalizzata. E’ il fenomeno che Buccheri chiama eclissi dell’estetico nella società contemporanea, e che non può essere contrastato senza la teoria.
Ovviamente la banalizzazione avviene in molti modi, ma c’è una caratteristica che accomuna tutti i banalizzatori: essi rifiutano, o non riescono neanche a immaginare, che i termini ‘bellezza’ e ‘bello’ siano termini polisemici. Polisemici, ed essenzialmente enigmatici. Propongo questa generalizzazione: nel corso dei secoli la natura ha ceduto agli uomini moltissimi dei suoi segreti, mentre la bellezza e l’arte hanno continuato a celarli. “La natura (phùsis) ama nascondersi”, dice un frammento di Eraclito. Qui la parola phùsis potrebbe venir sostituita – o provvisoriamente tradotta - con bellezza, o arte.
In effetti le grandi conquiste dell’estetica moderna, a partire da Kant, o della teoria novecentesca – da Freud a Bachtin, da Jakobson a Benjamin, fino allo strutturalismo ecc. – hanno cambiato lo spazio mentale in cui una riflessione sull’arte è possibile: ma non hanno certo sciolto i suoi enigmi. Il XX secolo, si dice, è stato il secolo del linguaggio. D’accordo, ma ciò non vuol dire che esso abbia raggiunto, e meno che mai diffuso, una conoscenza adeguata del linguaggio. A partire da Freud il linguaggio, e non solo il soggetto, va pensato come diviso, ma questa è una concezione che rimane assolutamente elitaria.
Per contrastare l’eclissi dell’estetico, gli intellettuali non hanno a loro disposizione che le armi della teoria e della critica, e alcuni luoghi di alta divulgazione, come l’Università e le riviste. Vorrei affrontare adesso un punto essenziale, e spero di riuscire a farlo in maniera divulgativa: comunque, non si può discutere di ‘eclissi dell’estetico’ senza aver riflettuto su cosa significa ‘estetico’. E anche se non si può pretendere che tutti abbiano letto la Critica del Giudizio di Kant, certamente, come preliminare a ogni futuro sviluppo della coscienza estetica in individui potenzialmente ricettivi, si dovrebbe porre la distinzione kantiana tra “quest’oggetto è bianco” e “quest’oggetto è bello”. Diversamente dalla bianchezza, infatti, la bellezza non è una proprietà empirica e, a rigore, non è neanche una proprietà. Tuttavia la grammatica del nostro linguaggio ci consente di usare il predicato ‘bello’ nello stesso modo in cui usiamo i predicati ‘bianco, giallo, rettangolare, veloce, rumoroso’, ecc. Così, quando diciamo “questo film è bello”, crediamo di attribuire una proprietà a un oggetto. E crediamo che la differenza tra la bianchezza e la bellezza stia nell’oggettività della percezione di un colore, e dunque nella possibilità di un accordo universale (da cui saranno escluse soltanto le patologie, nel nostro esempio i daltonici), mentre l’attribuzione della bellezza sarebbe un giudizio soggettivo, nel senso di ‘opinabile’.
Ma la vera e decisiva differenza non è questa. Si tratta piuttosto di capire che la bellezza è un modo d’essere o, più semplicemente, un effetto che non è sempre accessibile a causa di crampi mentali, stereotipi, rigidità, pregiudizi. Un esempio: quale insegnante di scuola superiore non ha sentito levarsi un coro di proteste annunciando alla classe la sua intenzione di far vedere un film in bianco e nero?
Dunque, l’esperienza estetica non è solo emozionale e ‘soggettiva’, nel senso di idiosincratica: è fortemente intellettuale e, nel suo pluralismo – che non è il relativismo delle opinioni – è legata in maniera essenziale all’intelligenza e alla capacità di usare strumenti di analisi.
Per esempio, Buccheri fa riferimento alla nozione di midcult, introdotta da Dwight Macdonald in un famoso saggio del 1960, e ripresa da Eco in Apocalittici e integrati (1964). In quel saggio vi sono alcune pagini memorabili, dedicate a Il vecchio e il mare di Hemingway, nelle quali Macdonald mette a fuoco una delle novità del moderno: l’arte come ibridazione media, la pseudo-arte. Tuttavia Macdonald non sa incastonare questo esempio folgorante in una cornice teorica adeguata; così le potenzialità critiche della sua intuizione non riescono a svilupparsi. Né si sono sviluppate in seguito. Eppure una teoria del Midcult avrebbe potuto, e potrebbe svolgere un ruolo di grande importanza in una fase storica come quello del postmoderno, pervasa dalle ibridazioni medie. Ancora una volta, non abbiamo troppa teoria (anche se ne abbiamo di cattiva); ne abbiamo troppo poca.
Nella conversazione quotidiana, il Midcult trovava una tipica espressione nel giudizio estetico: “bello come una cartolina”. Più di recente, l’estetica midcult si è rinnovata, e qualcuno ha cominciato a dire: ”bello come uno spot”. Alcuni giorni fa sono andato al cinema a vedere “Wanted”; mi è capitato di immaginare una futura catastrofe estetica, sintetizzata nel proliferare contagioso del giudizio: “bello come un film”.
4. L’estetica spiegata ai bambini.
Da dove ricominciare? Lo ripeto, dall’Università – ma per indurre il Ministero a rivedere i curricula di alcune Facoltà sarebbe necessaria una sensibilizzazione diffusa -, e dalle riviste, che potrebbero pazientemente reintrodurre l’abitudine alla discussione, e offrire esempi di alta divulgazione.
E naturalmente dai bambini. Bisogna cominciare a spiegare Heidegger e Lacan ai bambini – non sto scherzando, e non ho smarrito il senno. Si tratta evidentemente di trovare un modo accessibile di esposizione. A un pubblico di dodicenni non mi sentirei di dire che la bellezza non è una proprietà, e che è sciocco cercare una definizione universale di tipo proprietario (questo sarebbe un linguaggio incomprensibile anche alla maggior parte dei miei colleghi umanisti). Immaginiamo una breve lezione introduttiva alla polisemia del ‘bello’. Vorrei spiegare ai dodicenni la differenza tra una bellezza essenzialmente percettiva, che ci fa chiamare ‘bello’ il film cosiddetto adrenalinico, cioè pieno di effetti speciali e destinato a produrre emozioni ‘usa e getta’, come il già citato Wanted o Hulk II, e una bellezza più mentale: – “Ragazzi, sapete che Leonardo diceva che la bellezza è un fatto mentale?”. “Leonardo, quello del Codice da Vinci?” “Proprio lui”. Domanda (da primo della classe): “Che cos’è una bellezza mentale, una bellezza che non si vede? E allora come faccio a dire ‘bello’?” “Beh, in un certo senso è così: si vede e non si vede. Pensate a una metafora”. - “Achille è un leone?” “Sì, ma possiamo trovare di meglio: guardiamoci qualche cartone con Tom e Jerry”. Standing ovation per il prof.
In effetti, questa è una magnifica occasione per far comprendere a un pubblico di ragazzini che un linguaggio può funzionare prevalentemente in base a un principio figurale oppure in base a un principio narrativo, oppure servendosi della loro mescolanza. Il linguaggio dei cartoni animati, nei suoi risultati migliori, rappresenta un’ammirevole fusione tra i due modi di funzionamento. Esso non si basa soltanto sull’impossibile plausibile (i personaggi che corrono nel vuoto perché non se ne sono ancora accorti, ecc.), sulla reversibilità fiabesca (che li rende indistruttibili), su un certo sadismo che troviamo in Esopo come in Walt Disney. Molte tra le invenzioni più belle nascono da quel meccanismo di metamorfosi che è la metafora. Qualche esempio:
- un palo, abbattuto maldestramente con un colpo d’ascia, si abbatte su Tom e lo colpisce non una volta sola, ma ripetutamente, come un vendicativo martello ;
- dopo un infelice tentativo di volo, Tom atterra su un’asse da cui sporgono numerosi chiodi, che gli si conficcano nel corpo. Schizza via dolorante e piomba in una tinozza piena d’acqua, che magicamente elimina il bruciore delle trafitture. Si rialza, fa per allontanarsi, e a quel punto l’acqua sgorga dal suo posteriore come dai fori di un innaffiatoio;
- colpito da una sfera di bowling si disintegra e si trasforma in una serie di birilli, disposti in perfetto ordine;
- dopo una scena sott’acqua, in cui Jerry si è finto una sirenetta e un cavalluccio marino, Tom riesce a inghiottirlo. Primo piano di Tom: vediamo Jerry che nuota nell’oblò dei suoi occhi come un pesciolino in un vaso di vetro.
In queste scene noi percepiamo un palo, un topo, un gatto, ma vediamo un palo-martello, un gatto-innaffiatoio, un topo-pesce, ecc.: e vediamo tutto ciò grazie a processi mentali che possiamo chiamare (per evitare il vecchio e inadeguato nome di ‘retorica’) intelligenza figurale, e che appartengono alle nostre capacità cognitive.
A partire da esempi come questi, è possibile preparare la mente di chi ci ascolta a comprendere in futuro concetti complessi, il linguaggio come polemos (Heidegger) e la logica del significante (Lacan), a capire la superiorità di un’estetica conflittuale, e la polisemia della bellezza. La buona teoria inizia con la buona formazione.