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Kubrick contro Eros

In “Segnocinema” 101, gennaio-febbraio 2000 (ora in “Le incertezze del desiderio”, 2005)

“Bambino!, sì, siete un bambino - ella disse reprimendo qualche lacrima; - voi sareste capace di amare sinceramente, voi!”
(H. de Balzac, Papà Goriot)

1. La psicoanalisi aiuta a comprendere e a riconoscere le opere d’arte, le opere d’arte aiutano a comprendere la psicoanalisi. Le opere d’arte - anche quelle imperfette (ma quante di esse, diceva Proust, sono cattedrali incompiute?) - le opere d’arte offrono alla psicoanalisi l’occasione per allontanarsi dalla propria versione stereotipata, e per riproporre il carattere problematico della ricerca inaugurata da Freud. Eyes wide shut ha certamente questo merito: ci costringe a chiederci “che cos’è la psicoanalisi?”, e quali siano gli strumenti che essa può offrirci per un tentativo di interpretazione che non pretende di sostituire l’intera valutazione estetica. Un’analisi stilistica dell’ultimo film di Kubrick richiederebbe più tempo, e altri strumenti: tuttavia molti dubbi sulla necessità delle scelte compiute da Kubrick possono essere affrontati, credo, solo immergendo questo film nel campo teorico della psicoanalisi.

2. Da Vienna a New York: realtà e verosimiglianza.

La trasposizione del racconto di Schnitzler nella metropoli contemporanea potrebbe essere un errore estetico: nel corso degli ultimi decenni i sentimenti di colpa rispetto al tradimento coniugale, e in genere rispetto alla sfera del sesso, si sono fortemente indeboliti; la definizione della nostra identità è diventata assai più elastica; ci accontentiamo di assemblare le nostre esperienze, rinunciando volentieri alla coerenza e alla ricerca del significato. Se questa è la realtà di fine secolo, è certamente lo è in misura maggiore a New York rispetto alla provincia, e quando i protagonisti riflettono una condizione sociale privilegiata, la ripresa di un testo come la Traumnovelle, con le sue curiosità per il sesso e i tormenti del Super-io, può suscitare molti dubbi.

Quella borghesia non esiste più. Il soggetto borghese postmoderno vive sempre più serenamente la propria “disidentità”: siamo tutti molteplici, si dice, siamo tutti nomadi. Lo siamo, lo diventeremo; nel postmoderno la dilatazione del presente fa incombere qualunque utopia, giornalisticamente credibile. Se la nuova, o l’imminente condizione femminile, è rappresentata dalle donne descritte da Rosi Braidotti, da Judith Butler, da Teresa De Lauretis, o dal Manifesto cyborg della Haraway 1, allora le lacrime di Alice nel film di Kubrick, le sue lacerate fantasie di adulterio possono apparire davvero anacronistiche. Lungi dall’offrirci “la verità sul sesso”, così come ci avrebbe dato la verità sulla violenza in Arancia meccanica o il film definitivo sul Vietnam in Full Metal Jacket, Kubrick sarebbe incorso in un clamoroso infortunio. Queste obiezioni devono venire discusse preliminarmente.

Nel suo libro su Dostoevskij, Bachtin osservava che “non ogni uomo è un materiale egualmente favorevole per la raffigurazione artistica”. Perciò Dostoevskij avrebbe rapidamente abbandonato l’impiegato gogoliano, che forniva troppo limitate possibilità, a favore di personaggi più ricchi di autocoscienza 2. Credo che queste considerazioni siano del tutto pertinenti per giudicare il lavoro di Kubrick. Egli avrebbe potuto scegliere personaggi “più contemporanei”, più nomadici e più euforicamente perversi. Bisogna chiedersi tuttavia se la disidentità di questi personaggi possibili, la loro adesione a una molteplicità che rifiuta ogni presenza del Super-io come paterno, patriarcale, repressivo e veteroborghese, non offra “troppo limitate possibilità” sul piano artistico. Come gli impiegati di Gogol, i soggetti nomadi e perversi (con tutte le varianti cibernetiche) dell’immaginario contemporaneo sono troppo semplici in quanto mancano di quel “gradino” all’interno della psiche che è precisamente l’Ideale dell’Io (Freud), e che non è semplicemente un’istanza di repressione, ma un fattore di complessità 3: esso aumenta le interazioni nella psiche, e fa dell’Io non un banale esecutore dei capricci pulsionali, bensì lo sfortunato “servo di tre padroni”. Sfortunato e minacciato dalla bêtise - di fronte alle domande della libido, perfino l’uomo più intelligente rischia sempre di apparire stupido.

Kubrick avrebbe dunque individuato nel racconto di Schnitzler dei personaggi favorevoli alla raffigurazione artistica. Poco importa che, sul piano meramente statistico, essi possano risultare scarsamente rappresentativi dell’attualità. Ciò che vediamo è la realtà di due personaggi per cui il legame di coppia non è desueto e privo di motivazioni (non convenzione o ipocrisia, come per Ziegler): tuttavia questo legame appare, inizialmente, come assopito. L’impossibilità di “fare Uno” è un’utopia dimenticata, al sogno di una fusione reciproca è subentrata un’intimità dove prevalgono i momenti banali o volgari (Alice che fa pipì in presenza del marito). La festa li espone nuovamente al desiderio, e ciò che conta è che i protagonisti siano tali da essere realmente esposti alla “tentazione”: in effetti essi sono estremamente desiderabili (e non solo desideranti, come può esserlo ciascuno di noi). Inizia così la loro storia. Storia doppia, e asimmetrica in quanto le relazioni erotiche di Alice sono soltanto fantasticate, mentre quelle di Bill sono reali (sia pure, ovviamente, nella finzione narrativa).

Perché questa asimmetria? Dice Goethe che non al “perché”, ma al “poiché” si deve cercare una risposta 4. Poiché Schnitzler e Kubrick ci presentano una storia asimmetrica, bisognerà cercarne le ragioni all’interno della narrazione o magari all’esterno, cioè nell’ombra che l’opera d’arte proietta come se fosse un corpo. Non l’ombra verticale e spezzettata di eventuali metafore o simboli, bensì l’ombra orizzontale e globale di una possibile allegoria. Il film di Kubrick non è né onirico né simbolico, ma non può fare a meno, come molte narrazioni perfettamente conchiuse in se stesse, di proiettare un’ombra mitica o allegorica.

Eyes wide shut potrebbe essere il rovescio, o comunque una riscrittura, della favola di Amore e Psiche. Nel romanzo di Apuleio, Eros fugge da Psiche dopo che lei lo ha scottato con alcune gocce d’olio bollente cadute dalla lampada; anche qui Eros fugge, e stavolta a causare la sua ferita è la confessione di un adulterio mancato. Ma mentre Apuleio ci racconta le disavventure e le prove a cui viene sottoposta Psiche, Kubrick (tramite Schnitzler) ci mostra le umiliazioni di Eros.

3. Poiché non esiste rapporto sessuale.

Che il dottor William Harford vada incontro a una serie di frustrazioni e di insuccessi erotici, è del tutto evidente. Dopo la sua fuga dal letto coniugale, Eros (Bill) rinuncia a un’affascinante prostituta, subisce una dichiarazione d’amore non realizzabile, almeno nell’immediato, viene introdotto a un’orgia dalla quale viene ignominiosamente scacciato. Torna a cercare la prostituta, Domino, e viene a sapere che essa è sieropositiva. Quanto alla donna che lo ha salvato, in uno slancio di abnegazione che sembra presupporre un’infatuazione misteriosa e irresistibile, Bill ne ritrova il corpo in un obitorio, irrigidito e reso inaccessibile dalla morte.

Alle frustrazioni di Bill sembra contrapporsi il godimento di un’élite neanche troppo misteriosa. Esiste un paradiso del piacere - “non ho mai visto tante donne così stupende” racconta Nick Nightingale - , ed è questo paradiso, con i suoi iniziati, a scatenare il desiderio mimetico del protagonista. Alla menzogna romantica dell’amore coniugale subentra dunque la verità romanzesca del desiderio suscitato da un mediatore 5. Si desidera solo tramite un altro, e nella convinzione che l’altro abbia accesso al godimento. Ma l’altro gode davvero? O il paradiso resta per tutti inaccessibile?

La famosa tesi di Lacan “non esiste rapporto sessuale” è indispensabile per interpretare ciò che vediamo nella scena dell’orgia. Tutto l’episodio è dominato da una straordinaria ambiguità: niente di più affascinante, niente di più assurdoo, del rito a cui il dr. Harford riesce ad assistere. Il grottesco minaccia ad ogni istante di irrompere nella serietà della cerimonia, e l’aspetto spudoratamente fallico della maschera che trascina via la donna che ha deciso di immolarsi va ad aggiungersi, suscitando un sorriso, ai movimenti meccanici dei corpi impegnati in copulazioni insensate. Ma passare al riso non è possibile. Quando si ride, si ride sempre di un individuo o di un gruppo di individui, e qui non ci sono più individui. I volti sono diventati maschere, i corpi mantelli. A questa condizione il rito trasmette il proprio fascino ipnotico. Esso rivela e nello stesso tempo nega il vuoto, il niente, a cui tenta di aggrapparsi il piacere sessuale.

4. “Puer” e “senex”: l’individuo e il branco.

Chi sono gli happy few? È lecito avere delle forti perplessità sulla lunga scena che si svolge a casa di Ziegler, nel salone con il biliardo, scena poco intensa e, si direbbe, non propriamente necessaria. Si tratta, fra l’altro, della sola scena che Kubrick ha aggiunto alla storia di Schnitzler. Pur condividendo molte di queste perplessità, credo ci sia un motivo che può giustificarne la presenza (non faccio ipotesi sulle intenzioni di Kubrick, mi limito a giudicare il testo, il film): essa ci offre un’indicazione inequivocabile - anticipata dal personaggio che consegna silenziosamente una lettera a Bill 6 - dell’identità del branco.

Il branco, l’orda. In quello che Lacan considera l’unico, e comunque il più suggestivo mito creato nel nostro secolo, cioè il racconto di Totem e tabù, Freud immagina (ispirandosi a Darwin) che nei tempi primordiali la vita sociale consistesse in gruppi guidati e dominati da un maschio maturo. Questo padre geloso teneva per sé tutte le femmine e scacciava i figli man mano che crescevano. Un giorno i figli si ribellarono e lo uccisero. Questo il mito che Freud ci ha consegnato (con tanta fede nel suo racconto da crederlo forse il rispecchiamento di eventi reali). Per noi si tratta in ogni caso di un mito: e poiché un mito non è un testo statico, poiché vive - come ci ha insegnato Lévi-Strauss - nella serie delle sue trasformazioni, siamo autorizzati a pensare che la coppia Schnitzler-Kubrick ne abbia elaborata una. In questa variante, le identità numeriche sono rovesciate: non un solo padre e numerosi figli, bensì il branco dei padri e il figlio.

Ecco uno dei contributi che il film di Kubrick offre per una comprensione non stereotipata della psicoanalisi: ci ricorda che in Freud la figura del padre non è soltanto quella del racconto di Edipo, dove il padre viene ucciso dal figlio (ma il mito comprende un episodio che Freud sembra aver dimenticato: l’infanticidio tentato da Laio) 7; l’immagine freudiana del padre viene completata in Totem e tabù, con il ritorno sulla scena del padre geloso, detentore esclusivo delle donne.

Anche la scena primaria ci viene dunque presentata da Kubrick in una variante collettiva: il bambino che penetra abusivamente nella camera dei genitori e osserva il rapporto sessuale viene sostituito dal giovane che, grazie a una parola d’ordine ironica (Fidelio: sottotitolo “L’amor coniugale”) entra nella casa dell’orgia, dove il branco gode di donne stupende. Gode, o tenta di godere. I mantelli e le maschere conferiscono una dignità superiore, ma nascondono corpi invecchiati, indecenti, l’impotenza vergognosa di chi preferisce o è costretto a guardare. Almeno in un certo numero di casi; e per quanto riguarda coloro che realizzano l’orgia, l’unico aspetto capace di suscitare invidia e desiderio mimetico è la possibilità di fare ciò che fanno. “Io (le) scoperei meglio” è il pensiero che accompagnerà il puer scacciato dal paradiso, la spina nella carne che lo indurrà a tornare.

Perché i padri sono molti? Perché la figura del padre è stata moltiplicata nel branco? Ancora una volta dobbiamo intendere la domanda “perché?” non come la richiesta di nessi causa-effetto - la psicanalisi è sovente tentata dalla spiegazione causale, ma il suo vero oggetto “ha un’essenza differente, una densità psicologica concreta”, è il senso (Lacan) 8 - e piuttosto come l’invito a non trascurare nessuno degli effetti testuali. Se, ad esempio, ci chiediamo perché Kubrick abbia scelto un attore dalla recitazione non sempre persuasiva come Tom Cruise, troveremo forse una risposta, sul piano testuale, nella bellezza dei suoi lineamenti un po’ adolescenziali esposti allo sguardo aggressivo del branco: Tom Cruise non è un cattivo interprete nel ruolo del puer.

La nozione di “puer” è stata introdotta da Jung ed è stata approfondita dalla scuola junghiana; la ripropongo qui in un’accezione prevalentemente freudiana, in relazione al mito dell’orda primitiva. Ciò che non dobbiamo mai perdere di vista, per evitare di cadere in un’applicazione meccanica di concetti psicoanalitici, sono i tratti semantici dei personaggi. Quali sono i tratti principali di Bill Harford? Seducente, immaturo, bambino. Immaturo perché infantile, serioso, troppo sicuro di sé - così sicuro della fedeltà di sua moglie da indurla a una rivelazione shoccante - , e bambino, sempre di più: quando torna a casa dopo la prima notte, Alice lo fa coricare accanto a lei e gli accarezza i capelli, più simile a una madre che a una moglie; quando rientra nella camera da letto, durante la seconda notte, la vista della maschera accanto ad Alice addormentata lo fa scoppiare in singhiozzi. In uno stato di prostrata confusione, Eros si rifugia piangendo presso il corpo di Afrodite.

Quanto all’orda, al branco: Bill non appartiene al branco dei senex, benché ambisca appartenervi, e neppure al branco dei giovani che egli incontra per strada, e dai quali viene oscenamente insultato. In effetti egli non appartiene a nessuno dei due gruppi: troppo “maturo”, troppo definito e riuscito per potersi mescolare ai più giovani - maschi, aggressivi, in preda al furore, capaci di intuire in Bill qualcuno che aspira al monopolio delle donne -, e troppo puer per poter essere accolto nel branco dei senex. Eros si conferma un essere intermedio, vanitoso, volubile, intrigante, bugiardo, sciocco - nella realtà e nel sogno, Alice ride di lui, di un riso sguaiato e cattivo - tenero, smarrito.

5. Il terzo termine, il Fallo.

Preferisco parlare di “branco dei senex” e non di “orda paterna” per evitare ogni riduzionismo edipico. È vero che i tratti paterni non sono del tutto assenti: nel già citato dialogo tra Bill e Victor Ziegler, quest’ultimo assume un atteggiamento almeno in parte protettivo e affettuoso - l’atteggiamento di un padre, costretto peraltro a confermare al figlio la proibizione della donna più desiderata. Così come non mancano tratti materni; oltre a quelli già indicati in Alice, come non giudicare “materno” il gesto di sacrificio che consente a Bill di uscire indenne dalla sua avventura?

Una versione della psicoanalisi con forte impronta edipica utilizzerebbe ancora un argomento a proprio favore: non è impossibile, e non è neanche difficile, vedere nella molteplicità dei senex la scissione dell’Uno, la proliferazione dell’unica figura paterna. Tuttavia è proprio questo genere di operazioni riduttive ad avere suscitato la stizza di Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo: non senza delle buone ragioni. Abbandoniamo dunque la dialettica dell’uno e del molteplice. Ma non per enfatizzare il molteplice nella sua pienezza desiderante, come in Deleuze-Guattari: con la loro battaglia contro il manque lacaniano, gli autori dell’Anti-Edipo hanno favorito molti errori e confusioni sulla “natura” del desiderio.

In breve: la psicoanalisi afferma che il desiderio è legato a un oggetto impossibile, e perciò deve scivolare lungo una catena di oggetti sostitutivi. Il desiderio sarebbe dunque vincolato a una mancanza; esiste inoltre un’asimmetria o uno squilibrio tra i sessi, perché le femmine sono “più mancanti” dei maschi. La nozione di “invidia del pene” ha suscitato le ben note ire da parte delle femministe, e a queste ire non è sfuggita neanche la distinzione lacaniana tra pene e fallo. Il fallo non è l’organo sessuale maschile, bensì un significante: un significante “eletto e problematico”, dice Lacan 9. Ma, è stato obiettato, se il Fallo resta pur sempre il significante del desiderio, e se il desiderio è fomentato dalla mancanza, come non vedere in tutto ciò un semplice travestimento terminologico della freudiana invidia del pene? Il fallo sarebbe un pene duplicato.

La questione è più complessa. Il Fallo è il significante dell’impossibile, non perché (e comunque: non solo perché) il desiderio desidera un oggetto “impossibile” (vietato dal tabù dell’incesto), ma perché esso entra come terzo termine anche nella relazione duale, la più confusiva e osmotica. Il Fallo è la scissione del desiderio. Torniamo alla scena dell’orgia: che cosa desiderano, che cosa cercano i maschi nelle puttane? (Il termine è usato da Ziegler per designare e per degradare l’oggetto del desiderio di Bill, oggetto sublime per lui, e verso il quale poco prima, nell’obitorio, Bill si era piegato per posarvi devotamente le labbra). Ciò che si cerca nella prostituta, dice Lacan “è il fallo anonimo, quello di tutti gli altri uomini” 10. Ciò che si cerca nell’orgia è dunque l’identificazione con il Fallo.

Comprendiamo meglio, ora, la funzione e la necessità delle maschere, e il loro effetto di fascinazione. Se la cerimonia a cui Bill assiste non è soltanto grottesca e insensata, è perché gli individui sono come assorbiti nella maschera del Fallo - il quale si dà, per l’appunto, solo come velo, come maschera. Esso è il terzo che scinde il desiderio. Non è un oggetto, benché possa venir simboleggiato da un oggetto: ad esempio, nel romanzo di Tristano e Isotta, il fallo è la spada che giace tra i corpi dei due amanti addormentati, è il segno di una divisione che sembra ipnotizzare il re Marco, e lo induce a rinunciare alla vendetta. Il Fallo non può coincidere con una persona, neanche la più desiderata, ed è perciò che il desiderio è infedele. L’ufficiale che avrebbe potuto introdursi come terzo devastante nel matrimonio di Bill e Alice rivela la sua “identità” nel sogno in cui egli è solo il primo dei molti uomini che possiedono la moglie del dr. Harford . Dice Alice (ignorando quanta verità ci sia nelle sue parole): “non so nemmeno con quanti uomini ho scopato” 11.

6. Doppio inconscio.

I sogni manifestano l’inconscio. Il linguaggio onirico ha una logica. “Tra le relazioni logiche - dice Freud - una sola si avvantaggia straordinariamente del meccanismo di formazione del sogno. È la relazione della somiglianza, della concordanza, della connessione ...”. Nel sogno l’inconscio fa dunque prevalere la propria logica confusiva.

Se il racconto di Schnitzler e il film di Kubrick hanno un carattere onirico, non è perché confondano sogno e veglia, fantasia e realtà. Kubrick ha evidentemente giudicato questo tipo di confusione come troppo banale, e ha evitato l’insidia di troppo facili ambiguità sul piano narrativo. Il carattere onirico va riferito piuttosto al primato di una logica confusiva, alle relazioni di somiglianza e di sovrapposizioni che si creano irresistibilmente in uno spettatore, il quale guardi il film con occhi ben aperti.

Non vi è dubbio: basta osservare l’età media dei partecipanti alla festa di Ziegler per capire che questo rito mondano anticipa, ed è già, il rito che si svolgerà nella casa dell’orgia; che il maturo bellimbusto, da cui Alice viene quasi sedotta, rappresenta (al meglio) il branco dei senex; che Bill vorrebbe possedere tutte le donne, e che Alice è e non è una puttana. A collegare la festa e l’orgia ci sono elementi di connessione non metaforici (in qualche modo paragonabili a resti diurni non elaborati): il pianista, Nick, che compare in entrambi luoghi, e la ex-miss, che viene soccorsa da Bill a casa di Ziegler, e che ricambierà il gesto salvifico nel momento in cui Bill si vedrà perduto.

Non possiamo avere dubbi: il racconto di Schnitzler-Kubrick diventa comprensibile solo tramite la logica dell’inconscio. Nella versione più divulgata - anche grazie al cinema - l’inconscio viene tuttavia considerato un serbatoio di rappresentazioni, che sono state rimosse, cioè allontanate dalla coscienza senza che la coscienza stessa sia stata resa partecipe di quest’operazione. Si pensi a “Io ti salverò” (Spellbound) oppure a Marnie di Hitchcock: la coscienza non ha più accesso alla scena del trauma (in Spellbound la morte del fratello minore del falso dr. Edwardes (Gregory Peck), avvenuta mentre i due giocavano quando erano bambini), ma solo a immagini sostitutive (le righe nere della vestaglia, le rotaie del treno, le tracce degli sci sulla neve, ecc). Il processo di guarigione consiste nel recupero delle rappresentazione rimosse. Secondo questa prospettiva, l’esistenza dell’inconscio significa che il soggetto è diviso - tra sapere e non-sapere. Ed è in questa prospettiva che va intesa la celebre affermazione di Freud: “Dov’era Es, deve diventare Io”. Ma la scissione del soggetto nella teoria psicoanalitica non si riduce a questo: e l’inconscio non è soltanto un insieme di immagini appartenenti alla storia di un individuo. È anche una logica, un modo di pensare, che rende vertiginose le somiglianze e assimila tutti gli oggetti del desiderio.

Torniamo a Eyes wide shut. La passione per il giovane ufficiale appartiene alla memoria cosciente, o tutt’al più preconscia di Alice, e non al suo inconscio. Al suo inconscio appartiene invece il desiderio di essere posseduta da un numero illimitato di uomini, con il marito nel ruolo di spettatore. Svegliandosi dal sogno che realizza allucinatoriamente questo desiderio, la donna viene sopraffatta dal senso di colpa e si abbandona alle lacrime. Dunque nel sogno di Alice la logica del desiderio cancella i tratti individuali dell’oggetto, e li rende anonimi: è il Fallo anonimo, quello di tutti gli altri uomini, che Alice vorrebbe avere. Dovrebbe essere evidente che quest’oggetto di desiderio non è un oggetto: esso può presentarsi solamente celato in una maschera 12.

7. Kubrick e Kleist.

La maschera posata sul guanciale, accanto a Alice immersa nel sonno, vale come ammonimento a non sfidare il potere dei senex 13, ma è anche il punto di congiunzione tra le avventure notturne di un marito e di una moglie. Che Bill e Alice si ritrovino uniti accanto alla maschera - il terzo termine, il Fallo -, è una formidabile conferma dell’idea che ispira la psicanalisi lacaniana: l’incontro sessuale è sempre un incontro mancato.

Nell’Anfitrione (1807) di Kleist il terzo termine è Zeus, che scende sulla terra assumendo le sembianze del marito di Alcmena. Benché lo guardi con occhi bene aperti, Alcmena non riesce a capire se la persona che le sta di fronte, e che l’ha posseduta per una notte interminabile, sia o non sia suo marito. Ma non sono unicamente gli effetti confusivi che sovvertono l’amore coniugale a suggerire un rapporto tra l’opera di Kubrick e quella di Kleist. In entrambi i casi dobbiamo ammirare l’audacia delle battute conclusive. “Ahimé” dice Alcmena; “Dobbiamo scopare” (Let’s fuck) conclude Alice. In entrambi i casi, al di là dell’apparente divergenza, si ha la sensazione di una ferita che non potrà rimarginarsi. Vi è inoltre una somiglianza stilistica, che riguarda la tecnica del dialogo. Nella meravigliosa Scena quinta del Secondo atto, che Thomas Mann ha commentato quasi “alla moviola”, Kleist fa ripetere alla sua eroina le domande che Zeus le ha rivolto. “Ella ripete le sue parole, pensa” 14. La necessità di questo raddoppiamento risiede nella densità enigmatica del significato. Che cosa viene chiesto esattamente in ciò che viene chiesto? Kubrick usa questa tecnica più diffusamente, e non sempre riesce a trasmettere la percezione della sua necessità. È anche per questo motivo che nella parte finale si riscontra una certa lentezza: uno dei difetti che, se avesse avuto ancora tempo, Kubrick avrebbe potuto correggere, e che danno al suo grande film il carattere dell’incompiuto.

Note

  1. Cfr. R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, 1994 (trad. it. Donzelli, Roma 1995; J. Butler, Corpi che contano, 1993 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1996); T. De Lauretis, Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso, La Tartaruga, Milano 1997; D. Haraway, Manifesto cyborg, 1985 (trad. it. Feltrinelli, Milano).
  2. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, 1963 (trad. it. Einaudi, Torino 1968, p. 68).
  3. Non nego che un perverso possa raggiungere un’identità complessa, ma la perversità non è condizione sufficiente. Non è facile uscire dagli stereotipi - lo dimostra l’ultimo film di Almodovar, in cui i ruoli previsti per il transessule restano quelli del maudit e del clown. Nella dinamica stessa della perversione - se è possibile, perché non farlo? - sono presenti la tentazione della semplicità e il disinteresse per il ridicolo.
  4. “Come? Quando? E dove? Muti gli dei devono restare! // Tu attienti al poiché, e perché? non domandare” (Wie? Wann? und Wo? - Die Götter bleiben stumm! // Du halte dich ans Weil und frage nicht Warum?).
  5. Per la nozione di “desiderio mimetico” si rinvia naturalmente a R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, 1961 (trad. it. Bompiani, Milano).
  6. Si tratta verosimilmente di un servo (così è in Schnitzler). Ma il suo volto incartapecorito non mi sembra casuale.
  7. Cfr. J. Hillman, Variazioni su Edipo, 1987 (trad. it. Cortina, Milano 1992).
  8. J. Lacan, Gli scritti tecnici di Freud. Il seminario, libro I (1953-1954), trad.it. Einaudi, Torino 1978, p. 3.
  9. J. Lacan, Seminari 1956-1959 (raccolti e redatti da J.B. Pontalis), trad. it. Pratiche, Parma 1978, p. 90.
  10. Ibidem.
  11. Sono costretto a far riferimento alla versione italiana. In ogni caso, il “quanti” potrebbe avere anche il valore di “quali”.
  12. Il Fallo è maschera perché nasconde-rivela una logica, la dimensione logica e modale del desiderio, non perché cela qualcosa o qualcuno.
  13. E non solo come lapsus. Al testo di Schnitzler è stato infatti aggiunto il minaccioso pedinamento, ordinato da Ziegler.
  14. Th. Mann, L’”Anfitrione” di Kleist. Una riconquista, 1926 (trad. it. in Nobiltà dello spirito, Mondadori, Milano, p. 572).