Introduzione a Flaubert, L'educazione sentimentale

Introduzione a Flaubert, L’educazione sentimentale, Einaudi, Torino 2002

L’Educazione sentimentale è il romanzo di una generazione, quella di chi aveva press’a poco vent’anni nel 1848, ed è la storia di un uomo giovane, Frédéric Moreau, ideato da Flaubert per rappresentarla; ma, soprattutto, è il romanzo della giovinezza intesa come immaturità permanente, come dispendio di un immenso privilegio: il tempo, la possibilità di avere – e di perdere - tempo.

Di fatto, questo privilegio non viene concesso a tutti in egual misura: l’amico di Frédéric, Deslauriers, deve abbandonare più rapidamente di quanto non vorrebbe lo stato di indeterminazione in cui le immagini del futuro proliferano, agganciate le une alle altre. Frédéric, che inizialmente sogna di essere il Walter Scott francese, decide in seguito di diventare un grande pittore, pensa di scrivere una storia dell’estetica, dichiara a sua madre che diventerà ministro, pensa di entrare nel consiglio di Stato o di tentare la carriera politica: e tuttavia non farà niente. L’ambizioso Deslauriers invece diventa avvocato. La professione è per lui l’orizzonte avaro, da cui l’invidia trabocca: questo plebeo rancoroso, che avrebbe voluto vivere negli anni della Rivoluzione, quando “semplici avvocati davano ordini ai generali, gli straccioni sconfiggevano i re”, sogna adesso di diventare redattore capo di un giornale per accedere alla “gioia inesprimibile di dirigere gli altri, di tagliare selvaggiamente i loro articoli, di ordinarne altri, di rifiutarli”; nella sua impotenza, si augura che Frédéric resti nella mediocrità (“Così era sempre suo pari, e in più intima comunione con lui”).

Come è possibile che questo individuo ripugnante, il quale tenta perfino di sedurre le donne amate da Frédéric (o innamorate di lui), continui a rappresentare per il protagonista del romanzo un ideale di amicizia? Che cos’è dunque un ideale per Frédéric Moreau, e fino a che punto può nascondere e rendere perdonabili i difetti della persona amata? I due grandi sentimenti di Fréderic presentano indubbie analogie, e non solo sul piano della fedeltà; la dedizione non esclude momenti di disprezzo e di rabbia: quando Desleuriers si lamenta per non essere stato introdotto dai Dambreuse, Frédéric osserva la sua logora redingote, gli occhiali opachi e la faccia livida, l’aria da maestrucolo, e non può impedire alle sue labbra di atteggiarsi a un sorriso sdegnoso; così come non può impedire a se stesso di giudicare severamente Mme Arnoux, e le sue inibizioni piccolo-borghesi. Ma tutto viene perdonato; alla fine del romanzo troviamo i due amici “riconciliati ancora una volta, quasi fatalmente” – parole che potrebbero adattarsi perfettamente anche all’ultimo incontro con la donna amata.

D’altronde il rapporto con Mme Arnoux è intriso di profanazioni. La critica ha enfatizzato l’episodio in cui, dopo l’appuntamento mancato, Frédéric si vendica nella sua immaginazione conducendo Rosanette nella camera preparata per l’altra; quest’oltraggio, vissuto consapevolmente e con dolore da Frédéric, risulta però anticipato da molte piccole profanazioni, da una confusione quotidiana e permanente tra gli oggetti del desiderio. Confusione (o confusività) che appare anche più grande se si osserva che il suo primo istigatore non è altri che il marito di Mme Arnoux; è lui infatti a invitarlo a casa di Rosanette, di cui è in quel momento l’amante (o uno degli amanti). In breve tempo, Frédéric prenderà a frequentare entrambe le case.

Le due donne sono profondamente diverse, come due musiche diverse, ma le loro immagini si sovrappongono: “Se Mme Arnoux lo sfiorava soltanto con un dito, subito l’immagine dell’altra si offriva al suo desiderio, perché da quella parte la probabilità era meno lontana; e quando gli accadeva di intenerirsi in compagnia di Rosanette, si ricordava immediatamente del suo grande amore”. Ma in queste righe viene descritto solo lo stadio inziale e “ingenuo” di una mescolanza, di una intercambiabilità, in seguito coltivata con cinismo: raccontare bugie a Rosanette e alla signora Dambreuse, mandare mazzi di fiori identici, ripetere le stesse promesse, sarà per Frédéric una fonte di piacere - e questa perfidia potrebbe essere giustificata dall’impossibilità di avere una terza donna, la sola veramente desiderata; ma che dire del modo in cui l’eroe di questa storia fa la corte alla signora Dambreuse ? Incapace di provare un vero slancio, egli prende a modello il suo antico amore riesumando i suoi languori, le sue apprensioni, i suoi sogni.

Abbiamo visto come l’istigatore della confusione sia Arnoux, il marito, il rivale. È lui – come direbbe Réné Girard - il mediatore del desiderio? Quest’ipotesi sembra smentita dall’apparizione iniziale: Frédéric è abbagliato dalla bellezza della sconosciuta, le attribuisce un’origine esotica (“andalusa, creola forse”), e la paragona alle donne dei libri romantici. Se c’è qualcosa che fa divampare il suo desiderio, non è dunque una rivalità, bensì l’amore romantico, che, per definizione, nasce in modo folgorante e viene alimentato dall’impossibile. È probabilmente questo il motivo per cui Frédéric non prova gelosia nei confronti di Arnoux: come se la donna fosse egualmente inaccessibile, almeno sul piano sessuale, per entrambi. Egualmente accessibile gli appare invece Rosanette, che egli sogna così, dopo il primo incontro: “gli sembrava d’essere attaccato, accanto ad Arnoux, al timone di un fiacre, e che la Marescialla, a cavalcioni sopra di lui, gli penetrasse nel ventre con i suoi speroni d’oro”. Quest’immagine non esprime solo la passività e il masochismo di Frédérici nei confronti del femminile; più importante è il fatto che qui lo vediamo in coppia con Arnoux, in una condizione assolutamente paritaria.

Alcuni critici (e probabilmente molti lettori) si sono chiesti se l’Educazione sentimentale sia davvero la storia di un grande amore, e se Mme Arnoux sia in grado di sostenere il ruolo che Flaubert sembra averle affidato. Secondo Peter Brooks questa donna, che resiste a ogni tentativo di narrazione, che non si muove e non conosce mutamenti, non è tanto “il punto luminoso” verso cui convergono tutte le cose (così la vede Frédéric sin dall’inizio) quanto piuttosto una sorta di buco nero. In effetti Mme Arnoux assorbe tutte le energie di Frédéric: egli si perde in fantasticherie, tra le quali consuma vanamente il proprio tempo e la propria anima; il desiderio lo soffoca, lo stordisce. “Restava immobile per ore, oppure, a un tratto, scoppiava a piangere”. Le sue timide e velate dichiarazioni vengono respinte con severità. Quando le circostanze sembrano più favorevoli, come nella visita alla fabbrica di ceramiche a Creil, la donna oppone al suo amore appassionato una rigidità avvilente e a tratti quasi derisoria. Dopo aver fatto il possibile per devastare la precaria intimità in cui è venuta a trovarsi con il suo corteggiatore, dopo averlo costretto, a un certo punto, ad ascoltare le torturanti spiegazioni di Sénécal sui tipi di combustibile, sui piroscopi e le scorie, su cloruri, solfuri, borati e carbonati, Mme Arnoux non risparmia al povero Frédéric questa perfida osservazione: “Voi non ascoltate … Eppure il signor Sénécal è chiarissimo. Sa tutte queste cose meglio di me”.

Qui Flaubert è davvero sadico. Tanto che viene da chiedersi come mai egli infligga ai suoi personaggi un simile carico di frustrazioni; nel caso di Frédéric, l’autore intende forse smascherare la vacuità e la falsità dell’amore romantico, mostrando come le condizioni storico-sociali dell’amore siano cambiate irreversibilmente? Lo scacco dei sentimenti sarebbe dunque il riflesso di un più vasto fallimento generazionale? C’è una lettera di Flaubert a Mlle de Chantepie (6-10-1864) che sembra autorizzare l’interpretazione sociologica: “Voglio fare la storia morale degli uomini della mia generazione; “sentimentale”rende meglio l’idea. Si tratta di un libro d’amore, di passione, ma di passione così come può esistere oggi, vale a dire inattiva”.

È stata fatta rilevare più volte la sincronia tra lo scacco privato di Frédéric – l’appuntamento mancato con Mme Arnoux, trattenuta dall’improvvisa malattia del figlio – e lo scacco della rivoluzione del 1848. Secondo Erich Köhler la sfera individuale e la sfera sociale avevano, nel 1848, una cosa in comune: l’impotenza a realizzare il possibile. Quest’analogia, che conferma il discorso sociologico, merita di essere analizzata più attentamente.

Sarebbe poco corretto dimenticare che, per Flaubert, “l’arte non è fatta per dipingere le eccezioni”, ma ciò non implica che l’opera d’arte sia riconducibile al “tipico”, all’universale in un’accezione statistica e storicamente variabile, o all’universalità della natura umana, intesa come un insieme generico di tratti. L’idea che la letteratura sia uno spazio scenico in cui campeggiano i grandi personaggi universali o eterni come Edipo, Amleto o Faust, è sostanzialmente una bêtise, una banalità estetica, ahimè, di lunga durata. Decretare l’eternità di un personaggio non differisce molto dalla pretesa di individuare procedimenti artistici da cui dipenderebbe infallibilmente la bellezza: nel romanzo il portatore di quest’illusione è Pellerin, il quale divora i trattati d’estetica per scoprire l’autentica teoria del Bello, convinto, una volta che l’avesse trovata, di poter creare dei capolavori. Flaubert lo presenta a un certo punto come il proprio sosia parodico, quando gli attribuisce una transitoria attenzione per la specificità e la diversità degli oggetti, che sfocia però in una formula – nella pretesa cioè di aver scoperto il segreto dell’arte.

Come uscire da questa impasse? Nessuno può dubitare che, in qualche senso non facilmente precisabile, esistano personaggi “universali”, e comunque “più universali” di altri; né si può negare la legittimità di nozioni generali (e fondamentali per la riflessione estetica flaubertiana, come “bellezza” o “bêtise”); d’altra parte, giudizi e nozioni di questo tipo sono particolarmente esposti alla vaghezza e all’irrigidimento – due difetti che non si escludono necessariamente, e che anzi convergono nella produzione degli stereotipi. È interessante chiedersi allora in che senso possa venir considerato universale Frédéric Moreau, un personaggio che sembra ostacolare se non respingere le possibili identificazioni da parte del lettore, e che già i contemporanei di Flaubert giudicavano irrimediabilmente “noioso”.

Le sconfitte di un personaggio risultano attraenti quando sono tragiche o patetiche. Non è questa la condizione di Frédéric, il quale non possiede alcuna grandezza e non sembra degno di suscitare la partecipazione emotiva riservata alle anime nobili, martoriate dal destino. A questo personaggio non concediamo il diritto di lamentarsi per la cattiva sorte; ma per quale motivo esattamente non glielo concediamo?

A causa della sua passività? Questo termine copre un insieme di comportamenti diversi, dalla scarsa aggressività verso le donne (che diventa una sorta di terrore religioso nei confronti di Marie Arnoux) alla totale mancanza di iniziativa nel campo delle relazioni sociali. Frédéric è del tutto incapace di cogliere l’occasione favorevole, il kairòs; le circostanze lo distraggono o lo disorientano, allontanandolo puntualmente dal progetto a cui un attimo prima egli aveva rivolto il suo interesse. L’atteggiamento che qualifica Frédéric è l’attesa, un’attesa permanente. E poiché l’attesa non è un atteggiamento che qualifichi un eroe, Frédéric non è un eroe con cui identificarsi.

Tuttavia, l’identificazione è davvero impossibile? Frédéric è davvero così noioso? Come possiamo definire questo tipo di personaggio, che non è tragico né patetico, e che, nella sua mediocrità, non è neanche comico (se non saltuariamente, in alcuni episodi)? Dobbiamo limitarci a parlare di “ambiguità”? In effetti, L’educazione sentimentale è stato definito uno dei libri più ambigui della letteratura francese. A determinare quest’effetto concorrono l’impassibilità dell’autore, presente dappertutto e in nessun luogo, e lo stile indiretto libero, che non consente mai di rispondere con certezza alla domanda “chi parla?”.

La formidabile mescolanza di ironia e realismo, e le reticenze di uno stile acefalo, non dovrebbero però sfociare in nozioni privative come “ambiguità” e “indecidibilità”. Da un certo punto di vista si potrebbe anzi affermare che non c’è nulla di indecidibile in questo romanzo così poco romanzesco, nel cui protagonista Flaubert ci mostra, come nessuno aveva saputo fare prima, la pervasività della nevrosi e la solidarietà tra bêtise e idéal.

Nella Poetica, Aristotele esamina le possibilità di identificazione con i personaggi, in base al loro grado di levatura: in alcune opere i personaggi sono migliori di noi, in altre peggiori e in altre ancora eguali. Quando l’eroe è come uno di noi, ci troviamo in una sfera che Frye ha definito basso-mimetica e che è quella di molte commedie e di molti romanzi realistici. Qui l’”eroe” è il protagonista, non un personaggio eccellente. Ebbene, prima di Flaubert un personaggio basso-mimetico poteva esibire una nevrosi, ma una nevrosi che si manifestava e si coagulava soprattutto nel carattere (l’avaro, l’ipocrita, il geloso, ecc), cioè in tratti fortemente accentuati, tali da semplificare una personalità; a partire da Flaubert invece impariamo a conoscere forme di nevrosi più complesse.

Non stiamo dicendo banalmente (e scorrettamente) che Frédéric Moreau è un nevrotico, bensì che, tramite il suo personaggio, Flaubert mette in scena una psiche che non riusciamo a comprendere semplicemente con giudizi morali (buono/cattivo) e neanche con una diagnosi “caratteriale”. Chi resta affezionato a queste categorie, a questi filtri, non potrà che annoiarsi leggendo L’educazione sentimentale – che non è un libro per tutti, e tantomeno un libro destinato a chi non è disposto a percepire i legami tra sfera delle passioni, meccanismi della libido e azioni dell’intelligenza.

Sia chiaro che Flaubert non intende proporre una semplice demistificazione. Qui non si tratta di irridere l’ideale in nome della realtà, o di imporre alla passione il disincanto dell’esperienza. Per Flaubert il reale è intriso di bêtise non meno dell’ideale. Dunque, se c’è qualcosa di stupido nella passione di Frédéric per Mme Arnoux, non è perché l’amore sia stupido o cieco. Fra l’altro non abbiamo mai la possibilità di sapere se nell’amore per Marie Arnoux ci sia un grado iperbolico di sopravvalutazione, perché questa donna la conosciamo attraverso gli occhi di Frédéric – “Mai aveva visto splendore come quello della sua pelle bruna, né grazia pari a quella dei suoi fianchi, né la dolcezza fragile delle sue dita orlate dalla luce” – e non abbiamo alcun motivo per mettere in dubbio la veridicità delle sue percezioni. Se l’amore fosse tutt’al più uno sbaglio, a cui porre rimedio con una verifica successiva, se il desiderio nascesse solo dal possibile, potremmo continuare a far uso del contrasto tra reale e ideale. Ma non è così: una grande passione viene suscitata dall’impossibile, dunque non sarà la realtà empirica ad attenuarla o a spegnerla. Questo non significa che il desiderio debba sfuggire all’analisi.

Analizzare un sentimento non vuol dire, per Flaubert, indagarne le cause bensì osservarne le manifestazioni, i modi. Che nella passione ci sia una componente di esagerazione, di sopravvalutazione, di infondatezza, il romanzo ce lo mostra soprattutto sul versante dell’amicizia: le meschinità di Deslauriers ci vengono indicate impietosamente, il suo egoismo è sin troppo palese (““Perdiana, adesso sì che ce la passeremo bene!”. Frédéric non apprezzò affatto quel modo di associarsi, così immediatamente, alla sua fortuna”), e non sfugge né al protagonista né al narratore (“Ci sono uomini la cui gioia consiste nel fare agli amici qualcosa che sia loro sgradevole”). Quanto a Mme Arnoux, che in lei ci sia della mediocrità, una limitatezza disperante e non del tutto giustificabile, anche questo è chiaro a Frédéric : “C’est une imbécile, une dinde, une brute, n’y pensons plus!” (È una stupida, un’oca, una villana, non pensiamoci più), dice a se stesso l’eroe di questa storia, tornato a Parigi dopo la disavventura alla fabbrica di ceramiche.

Il lettore non può sottrarsi alla verità di questo giudizio: il rapporto tra stupidità e ideale non include solo Frédéric, ma anche l’oggetto del suo sentimento assoluto. In Mme Arnoux Flaubert ci mostra la rinuncia alla fluidità della vita – una rinuncia tanto più deludente e angosciosa in quanto a venir irrigidita e istupidita dall’etica è una donna favorita dalla sorte: “Nessuna è stata amata come me”, dirà a Frédéric durante il loro ultimo incontro.

Marie Arnoux non è mai tanto deludente come nella “sublime” decisione di troncare ogni rapporto con Frédéric, quando interpreta la malattia di suo figlio come un “avvertimento della Provvidenza”. Alfred Adler ha osservato che la malattia del figlio sopravviene come punizione dei desideri adulteri nelle madri frustrate; possiamo aggiungere che qui Flaubert ci indica l’alleanza tra nevrosi e superstizione, la banalità del caso interpretata mediante un senso stereotipato, una paura invincibile causata da ingorghi della libido. Se insistiamo a parlare di nevrosi, è perché in questo romanzo non c’è alcuna tragicità; non ci sono catastrofi, ma delusioni; ciò che sgorga da ogni pagina, sino a formare una superficie immobile, è la stupefacente amarezza della vita, la perseveranza dello spreco, l’insensatezza del tempo quotidiano.

Frédéric invecchia, appassisce; si abitua a sopportare l’inattività della mente e l’inerzia del cuore. Vive un tempo omogeneo, che il narratore condensa nella magnifica ellissi con cui si apre il penultimo capitolo (“Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, ecc”). Ci troviamo di colpo nel 1867. Questi diciannove anni, che si lasciano sintetizzare in pochi frasi, ubbidiscono alla medesima temporalità del periodo precedente? Sembrerebbe di no; eppure è sempre il medesimo tempo a scorrere, il tempo dell’attesa. Che cosa attende, dunque, Frédéric?

Il ritorno di Mme Arnoux? Forse; l’ipotesi non è illegittima, ma non vi sono elementi che possano confermarla. Ciò che possiamo dire, invece, è che, analogamente a ogni nevrotico ossessivo, Frédéric non fa altro che attendere la morte del Padre. Che cosa si augura, e che cosa si aspetta da una morte che non può colpire una figura immortale, ma può presentarsi più di una volta con anticipazioni ingannevoli? L’uomo che ha messo incinta sua madre, Frédéric non l’ha mai conosciuto (è morto per un colpo di spada prima della sua nascita); ma dalla morte dello zio egli riceve una ricchezza sufficiente per vivere “senza fare nulla”, e per dedicarsi interamente all’unica attività in grado di assorbirlo (“io non ho una professione” dirà a Marie Arnoux “voi siete la mia occupazione esclusiva, la mia ricchezza, lo scopo, il centro della miaesistenza, dei miei pensieri”); poi il Padre muore una terza volta in Dambreuse, il banchiere da cui Frédéric crede di poter ereditare non solo la moglie, che è già diventata la sua amante, ma una ricchezza immensa. Le sue speranze però vengono frustrate: il banchiere lascia tutte le sue sostanze a una nipote, e a Frédéric resta una donna che delude i suoi sensi, intossicati da altre immagini.

Il tempo dell’Educazione sentimentale è stata descritto da Lukács in alcune notevoli pagine della Teoria del romanzo. Lukács ne parla come di uno scorrere non imbrigliato e ininterrotto, che conferisce al rovinare della realtà esterna, al suo disfarsi in elementi eterogenei, cariati e frammentari, una possibilità di redenzione. Purtroppo queste pagine suggestive non si riferiscono al romanzo di Flaubert, non sanno cogliere il tempo della bêtise, l’agghiacciante dominio della coazione a ripetere, che disperde le schegge del futuro in mille direzioni.

La generazione del 1848 non soffre di impotenza relativamente al possibile. Al contrario, essa si nutre del possibile, o forse dovremmo dire che nutre il possibile con l’indulgenza tenera e idealizzante di una madre. Il difetto di questa generazione è la mediocrità – un vizio antico, il vizio più comune e diffuso, il più equamente ripartito (per citare e parodiare Descartes) nella razza umana. Flaubert ha saputo cogliere la novità del suo tempo: d’ora in poi gli uomini vivranno meno nel reale che nel possibile, e si abitueranno ad accusare la realtà – il caso, l’epoca, le circostanze, che non sanno adeguarsi ai loro sogni. Se ascoltiamo i discorsi di quest’epoca, il mormorio della medietà, il dilagare degli stereotipi, l’arroganza delle fantasticherie e dei desideri, la tenace ottusità del risentimento, ritroveremo in ogni istante l’energia sterile di individui e di gruppi che non sono in grado di entrare nel tempo con qualcosa di diverso dalle loro inesauribili e ridicole velleità.

Perciò l’inattività di Frédéric è più nobile delle sue possibili azioni – cioè di azioni che, anche diventando reali, resterebbero possibili nel senso di “contingenti”, arbitrarie, ontologicamente gratuite. Il passaggio all’effettualità non aggiunge nulla al possibile, se il possibile non ha altra ricchezza che il proprio diritto all’esistenza, e se il tempo scorre come una massa in cui la vanità e la superfluità possono sempre venire ospitate.

Il tempo e la vita non sono né ostili né favorevoli alla redenzione. Che la vita chieda di oltrepassare se stessa è forse vero, ma la verità di quest’idea (formulata da Nietzsche e che Flaubert avrebbe condiviso) implica la ricerca delle autentiche forze oltrepassanti: forze che intrattengono rapporti non tanto con il possibile quanto col “necessario”. È in rapporto alla necessità che i destini di Flaubert e del suo personaggio si dividono.

Frédéric Moreau rimane fissato alle sue fantasie. Ma se preferisce le sue fantasie, non è perché la soddisfazione di un desiderio gli sembri misera e comunque inadeguata rispetto a uno scenario mentale; il suo desiderio non è inibito dalla realtà quanto dalla fantasia stessa. Più di una volta nel corso del romanzo lo vediamo assorbito da immagini che hanno un potere allucinatorio: “Frédéric s’arredava un palazzo alla moresca, per viverci coricato su divani di cachemire, al mormorio di uno zampillo, servito da paggi negri: e questi cose sognate diventavano alla fine talmente precise che lo lasciavano sconfortato come se le avesse perdute”; “E una gioia frenetica lo travolse all’idea di rivedere la signora Arnoux. Con la nettezza di un’allucinazione si vide vicino a lei, in casa sua, nell’atto di offrirle un regalo avvolto in carta di seta mentre alla porta sostava il suo tilbury, no, un coupé piuttosto, un coupé nero, con un domestico in livrea scura; sentiva scalpitare il suo cavallo, e il rumore del barbazzale si confondeva con il sussurro dei baci”.

In casi di questo genere non si può dire, come aveva osservato giustamente Auerbach a proposito di Madame Bovary, che Flaubert porta a una piena maturazione linguistica le percezioni e le emozioni dei suoi personaggi, cioè che vede come essi non saprebbero vedere e si esprime come essi non saprebbero mai esprimersi; qui il personaggio, Frédéric Moreau, gareggia con l’autore almeno sul piano della precisione percettiva, della capacità di scorgere dettagli su cui una scrittura “passionale” non si soffermerebbe. Ciò significa che Flaubert ha voluto sperimentare sino in fondo la propria affinità con uno dei suoi personaggi, ma il risultato di questo esperimento non è la coincidenza, bensì il distacco. Ipnotizzato dalle sue fantasie, Frédéric attende; Flaubert rompe gli indugi, sceglie il tempo della scrittura, dello stile – un tempo che non è un flusso, e che non si limita a giustapporre e a ridare unità ai frammenti di esistenza che galleggiano sulle acque del caso.

Dal campo delle metafore acquatiche potremo forse trarre in seguito un’immagine adatta allo stile flaubertiano, di cui è stata fin troppo sottolineata l’omogeneità. L’effetto d’immobilità di questa prosa non ha niente di meduseo, di rigido e di paralizzante: al contrario, essa esprime una straordinaria energia vitale, in cui è stata interiorizzata una strenua disciplina. E quale procedimento è altrettanto dinamico dello stile indiretto libero, con la sua oscillazione continua e acrobatica tra voci molteplici, che potrebbero stordirsi a vicenda ma sulle quali inesorabilmente domina quella dello scrittore? Flaubert attraversa tutte le voci, tutte le identità dei suoi personaggi: si siede con ciascuno di loro al tavolo della doxa, ascolta e trascrive le loro conversazioni, le affermazioni perentorie e sradicate, l’Io immodesto di soggetti ebbri; e nello stesso tempo è già altrove. Senza mostrare quasi mai il proprio volto, lo lascia affiorare in uno stile che è omogeneo ma non uniforme, e che deposita nel testo una perfezione ritmica.

Tra i molti aspetti del ritmo flaubertiano vi è l’alternanza tra conversazione e descrizione. Però i due procedimenti non si collocano sul medesimo piano. La conversazione è il luogo dei discorsi menzionati, della parola pubblica, delle voci altrui, e in relazione a questo luogo la parola dell’autore non è imperiosa; non che sia inerte; la prosa di Flaubert non accoglie mai le voci altrui senza smorzarne l’autorevolezza, anche quando non fa uso dell’ironia o di altre tecniche distanzianti. Presi nella loro singolarità, i discorsi dei personaggi di Flaubert sono come alberi posati al suolo, senza radici – collocazione insicura e già grottesca. Ma questi discorsi poveri trovano la loro giustificazione nel contesto che li ospita, e che li nutre con vivande impassibili, fredde: subito dopo arriva l’energia vitale, lo slancio delle descrizioni, l’erranza di uno sguardo instancabile:

“Ils se trouvaient si bien dans leur vieux landeau, bas comme un sofa et couvert d’une toile à raies déteintes! Les fossées pleines de broussailes filaient sous leur yeux, avec un mouvement doux et continu. Des rayons blancs traversaient comme des flèches les hautes fougères; quelquefois un chemin, qui ne servait plus, se présentait devant eux, en ligne droite; et des herbes s’y dressaient ça et là, mollement. Au centre des carrefours, une croix étendait ses quatre bras; ailleurs, des poteaux se penchaient comme des arbres morts, et de petits sentiers courbes, en se perdant sous les feuilles, donnaient envie de les suivre; au même moment, le cheval tournait, ils s’y entraient, on enfonçait dans la boue; plus loin, de la mousse avait poussée au bord des ornières profondes.
Ils se croyaient loin des autres, bien seuls. Mais tout à coup passait un garde-chasse avec son fusil, ou une bande de femmes en haillons, traînant sur leur dos de longues bourrées ”1

Flaubert ha inventato modi nuovi di descrivere; meglio ancora, ha introdotto la descrizione nello stile. Quella che un contemporaneo, Barbey d’Aurevilly formulava come un’accusa – “Lo stile di Flaubert è la descrizione, una descrizione infinita, eterna, atomistica, accecante, che occupa tutto il suo libro …” – ci appare oggi come un’intuizione onesta, esatta, e come un omaggio a una delle più grandi trasformazioni imposte alla scrittura narrativa. Viene spesso citato il proposito di Flaubert: “vorrei scrivere un libro su nulla”. Su nulla, cioè su che cosa? Un libro dove l’esistenza coincida con la bellezza, dove la monotonia venga elusa ad ogni momento dalla variazione: un libro dove si trasforma la vita.

Che la Bellezza non possa ricoprire interamente il grande mare dell’essere, a ciò Flaubert non si è mai rassegnato. Ed è proprio questo che emoziona i suoi ammiratori: la certezza che, dopo l’inerzia degli stereotipi e della bêtise, dopo le pause che la quotidianità e la Storia impongono all’intelligenza (in seguito agli eventi del 1848, “Ci furono uomini d’ingegno che diventarono cretini di colpo, e per tutta la vita”), torneranno, ancora una volta, le onde della descrizione. La bellezza va a riconquistare il mondo delle passioni: “Guardava, nelle vetrine, gli scialli, i merletti e i monili di pietre preziose e li immaginava drappeggiati intorno a lei, cuciti sul suo petto, scintillanti tra i suoi capelli neri. Nelle ceste delle fioraie, i fiori sbocciavano perché lei passando li cogliesse, nelle vetrine dei calzolai le pantofoline di raso orlate di cigno aspettavano il suo piede; tutte le strade conducevano alla sua casa, e le carrozze sostavano nelle piazze per potercisi far portare è più in fretta. Parigi esisteva in riferimento alla sua persona, e la grande città con tutte le sue voci ronzava intorno a lei come una immensa orchestra”.

Dove la bellezza non riesce a trasformare l’esistente, dove l’esistente non può diventare nulla, Faubert traccia un catalogo freddamente ironico e desolato – “in mezzo al tavolo un vaso pieno di pipe era disposto tra le bottiglie di birra, la teiera, una fiasca di rum e un vassoio di dolci. Discutevano sull’immortalità dell’anima, confrontavano questo con quel professore” -, o si accontenta di frantumare l’effettualità nelle sue alternative; così nella prima pagina del romanzo troviamo una descrizione che culmina in “oppure”: “Il fiume era bordato da un greto sabbioso. Si incontravano zattere di legname che si mettevano a ondeggiare per il risucchio, o anche (ou bien), seduto in una barca senza vela, un uomo che pescava”.

Ou bien : una congiunzione impropria, se l’obiettivo dello scrittore fosse quello di enumerare, di collegare, di riprodurre la realtà nella sua compattezza. La forza e il significato di questa particella sfuggono facilmente ai lettori che nell’Educazione sentimentale vedono solo la disorientante e quasi fastidiosa infinità dei dettagli, la proliferazione democratica degli oggetti e dei gesti. Il principio che genera questa infinità non è la linearità cumulativa di et, bensì la serialità di vel: una cosa o un’altra, o magari entrambe. Poco importa: la sfera dell’esistente ignora la necessità.

Tuttavia, si potrebbe obiettare, la sfera dell’esistente non ignora le alternative incompatibili: cenare con Deslaurier, appena arrivato a Parigi o accettare l’invito, così tanto atteso, da parte degli Arnoux? Passare la serata in casa Arnoux o recarsi dai Dambreuse? Per due volte Frédéric si trova di fronte a una sovrabbondanza del possibile, e deve scegliere tra amicizia e amore, e tra amore e ambizione. Ma deve veramente scegliere? Nel romanzo non si riscontrano mai circostanze irripetibili: Frédéric avrà mille occasioni per frequentare Mme Arnoux, e, quanto ai Dambreuse, essi non si stancano di invitarlo: il banchiere continuerà a prospettargli delle vie di successo, e la moglie diventerà la sua amante. Si direbbe quindi che Frédéric abbia sempre tempo – e che abbia sempre la possibilità di perderlo. Con lui la possibilità è generosa; ma Frédéric ha scelto l’impossibile: l’amore per Mme Arnoux, la morte del Padre immortale, l’eterno ritorno del tempo perduto.

Note

  • Flaubert parla di: bonheur inexprimable de diriger les autres, de tailler en plein dans leurs articles, d’en commander, d’en refuser.
    NON c’è la ripetizione di « altri », come nella traduzione della Romano, che forse qui andrebbe corretta.
  • Nota su Girard:
    Cfr. René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, 1961 (trad. it. Bompiani, Milano).
  • Nota su Brooks
    Cfr. Peter Brooks, Reading for the Plot, 1984 (trad. it. Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino, 1995).
  • Nota su Köhler
    cfr. Erich Köhler, Der literarische Zufall, das Mögliche und die Notwendigkeit, 1973 (trad. it. Il romanzo e il caso. Da Stendhal a Camus, Il Mulino, Bologna 1990).
    Aggiungerei una nota nella quinta riga dall’alto, dopo “uno dei libri più ambigui della letteratura francese”.
  • Nota: Il giudizio è di Victor Brombert, The Novels of Flaubert. A Study of Themes and Techniques, 1966 (trad. it. I romanzi di Flaubert, Il Mulino, Bologna 1989).
  • Nota su Frye
    Cfr. Northrop Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, 1957 (trad. it. Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1969)
  • Nota su Lukács
    Cfr. György Lukács, Die Theorie des Romans, 1920 (trad. it. Teoria del romanzo, Garzanti, Milano 1974)
  • Nota su Auerbach
    Cfr. Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, 1946 (trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956).
  • Cfr: la recensione a “L’Education sentimentale”, pubblicata sul Constitutionnel il 19 novembre 1869.
  1. “Stavano così bene nel vecchio landò, basso come un sofà e coperto di una tela a righe sbiadita! Fossi pieni di sterpaglia scorrevano sotto i loro occhi, nel movimento dolce e continuo. Raggi di luce bianca trapassavano come frecce le alte felci; ogni tanto appariva davanti a loro, in linea retta, una strada che nessuno usava più; molli erbe vi spuntavano qua e là. Al centro dei crocicchi un palo stendeva quattro braccia in croce; altrove i pali pendevano come alberi morti, e piccoli sentieri in curva, perdendosi sotto le foglie, facevano venire la voglia di seguirli; in quel momento il cavallo voltava, ci entravano, affondavano nella melma; più in là il muschio era cresciuto sul bordo delle profonde carraie.
    Si credevano lontani dagli altri, del tutto soli. Ma all’improvviso passava un guardiacaccia col fucile, o un gruppo di donne cenciose che portavano sulla schiena lunghe fascine”(p. 370).

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