Skip to main content

Non diventare Io

Ercole nel teatro greco

Relazione al convegno su Ercole (Bergamo, ottobre 2007), in “Le strade di Ercole. Itinerari umanistici e altri percorsi”, a cura di Luca Carlo Rossi, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2010, pp. 151-167

1. L’eroe è sulla via del ritorno, preceduto da voci contrastanti. Ciascuna di esse mette in rilievo un diverso aspetto della sua identità: l’impulso guerriero, la temerarietà, la sorprendente disponibilità all’autoumiliazione. Nelle Trachinie è proprio questo l’aspetto reso noto per primo: essere stato al servizio, per la durata di un anno, di una donna lidia, Onfale . L’Eracle di Euripide fa invece riferimento a una delle sue più celebri, e meno verosimili, imprese, cioè la discesa nell’Ade allo scopo di portare sulla terra Cerbero, il cane a tre teste . L’eterogeneità delle sue avventure, l’oscillazione iperbolica tra forza distruttiva e capacità di sottomissione, lasciano emergere una duplicità che verrà poi intensificata dalla tradizione letteraria e iconografica, e che trova però la sua prima espressione nel destino post mortem dell’eroe, in quella che Jan Kott chiama “la strana teologia dell’Eracle diviso”. Tutti i defunti sono ombre confinate nell’Ade per l’eternità; ma Ercole fa eccezione, poiché risiede contemporaneamente al vertice e nel fondo del cosmo greco: sull’Olimpo è un immortale in compagnia degli dèi, e di Ebe dalle belle caviglie, negli Inferi è un fantasma .

Tornerò in seguito su questa duplicità. La mia riflessione è comunque incentrata sull’Ercole distruttore, sull’Ercole furens, su quello che potremmo definire il più eccessivo di tutti gli eroi greci. Più eccessivo nel senso di ‘più pulsionale’ – e perciò del tutto estraneo a quell’impulso alla conoscenza che caratterizza il grande trasgressore, Edipo, colui che “aveva un occhio di troppo”. Per contro, Eracle appare piuttosto come una figura della cecità: accecato dalla collera e dal desiderio di vendetta, ma anche dalla violenza e dalla volubilità degli impulsi erotici, l’Ercole della tragedia greca – nelle due opere, già menzionate, in cui è protagonista – rappresenta l’energia pulsionale secondo la concezione freudiana, l’Es che si rifiuta di diventare Io . Introduco questa formulazione perché la ritengo utile e pertinente; il che non dovrebbe suggerire l’intento di procedere a un esercizio di psicoanalisi applicata. Mi auguro che lo svolgimento della mia analisi, e l’attenzione ai testi, possa dimostrarlo.

 

2. Un soggetto senza Io: o meglio, con un Io ridotto al minimo, un Io diairetico, un puro esecutore, che orienta nella direzione del mondo impulsi irrefrenabili. Un soggetto senza Io? Forse, ma – si potrebbe dire – non senza Legge. In effetti, l’indomito eroe dell’anarchia pulsionale è anche, nello stesso tempo, colui che si piega. Occorre indagare questo paradosso, se si vuole comprendere al di là degli stereotipi l’identità di Ercole.

Ercole accetta la volontà del padre, gli interventi di Zeus. Dopo ciascuno dei suoi eccessi, riconosce la superiorità della legge: lo vediamo costantemente nell’atto di purificarsi. E tuttavia, in modo diverso, nelle Trachinie e nell’Eracle vediamo la violenza insorgere all’interno del rito, travolgere le barriere che avrebbero dovuto farne retrocedere l’imperiosità. E la ripetitività: perché la violenza di Ercole non può non apparire come la manifestazione di quella forza ‘demoniaca’ che Freud ha chiamato coazione a ripetere. Sembra che la legge riesca a svolgere, nei confronti dell’eccesso, soltanto una funzione ‘frazionante’: interrompe l’eccesso e lo rilancia, invariabilmente.

Secondo la definzione di Freud, la pulsione sarebbe un concetto-limite tra somatico e psichico. Oltre che un concetto-limite, però, il Trieb è un concetto paradossale: la pulsione è la più plastica, la più flessibile, e al tempo stesso la più rigida delle forze. La più plastica, la più disponibile a mutare e sostituire il proprio oggetto, e a cambiare la propria meta; e la più rigida, la meno disposta a rinunciare al proprio slancio, e alle contingenze del proprio passato. Estranea alla legge, la pulsione si lascia parzialmente addomesticare: la sua valenza metamorfica le consente di fecondare le vie della sublimazione, ma senza mai abbandonare la propria innominabile alterità. La pulsione, per Lacan, non raggiunge mai il proprio oggetto: piuttosto, ne fa il giro. Attratta da un luogo di incandescenza e di autodissolvimento, che nel Seminario VII viene chiamato das Ding, la Cosa, l’energia pulsionale non riesce a confluire in uno spazio domestico. Risulta estranea a qualunque dimora.

Ecco perché la teoria psicoanalitica delle pulsioni – e non soltanto, e non tanto l’Edipo – può dimostrarsi pertinente per un’analisi della tragedia greca e dei suoi personaggi eccessivi, determinati dalla ubris. Non soltanto all’inizio delle Trachinie e dell’Eracle, ma costantemente, perennemente, Ercole è sulla via del ritorno. Torna verso uno spazio domestico che non potrà accoglierlo né contenerlo. E’ di questo che si lamenta Deianira: “Abbiamo avuto dei figli: ma egli li vede una volta tanto, come un contadino che possegga un terreno fuori mano, e lo visiti solo quando lo semina e quando lo miete. Questo era il destino che sospingeva l’uomo alla sua casa e sempre lontano da questa lo ricacciava, costretto a servire un altro” (T, 31-35). Ercole, personaggio unheimlich.

Lo spazio domestico è quello verso cui Ercole non riesce a tornare, e comunque non riesce a sostare: benché lo desideri? La risposta non può che essere doppia, paradossale. Lo spazio domestico attrae in quanto rappresenta la fine delle fatiche, di un’erranza che ha tratti punitivi; tuttavia, a ben vedere, lo spazio domestico è quello verso cui l’eroe non dovrebbe tornare, perché è più pericoloso per lui di qualunque alterità. Non sono i mostri che egli spazza via dalla terra, adempiendo al ruolo di eroe civilizzatore, a costituire una vera minaccia, ma la casa inabitabile, a cui Eracle può soltanto avvicinarsi, farne il giro: l’abitazione presso cui ritorna, al termine della vicenda narrata nelle Trachinie, ridotto a un grumo di sofferenza, a un corpo che si disfa per l’azione del veleno, sempre più simile alla propria meta, das Ding.

 

3. Procediamo con ordine, ricominciando dal tema dell’energia pulsionale che non si manifesta soltanto come violenza ma come desiderio. Le Trachinie descrivono Ercole dominato dalla potenza di Eros, incapace di autocontrollo. Secondo le parole di Lica, “quell’uomo che in tutto il resto è stato sempre vincitore con le mani ( χεροιν ), soggiace interamente all’amore” per una donna, Iole, che è anche la causa dell’ultima guerra da lui scatenata (T, 488-89). D’altronde questa non è che l’ultima di una serie pressoché illimitata di infedeltà. Deianira ne è consapevole: Ercole non ha forse avuto moltissime altre donne, come mai alcun uomo? (T, 459-460). Per scusare l’infedeltà del marito, Deianira usa un’immagine curiosa: “Chiunque si opponga a Eros come un pugile ( όπως πύκτης ), e venga con lui alle mani, è soltanto uno stolto” (T, 441-42). Ercole, pronto ad azzuffarsi con chiunque, con Apollo, con Ares – “sciagurato, brutale, che non temeva gli atti sacrileghi e con le sue frecce tormentava gli dèi, signori dell’Olimpo” , - l’eroe irriverente che fa apparire meno olimpici i signori dell’Olimpo, non potrebbe opporsi a Eros, e tantomeno fare a pugni con lui.

Quest’osservazione è forse più acuta di quanto sembri: se Ercole non può opporsi a Eros, non sarà perché i due personaggi sono in parte identici? Eros non è forse una divinità troppo plastica per essere sottoposta interamente alla legge? Entrambi rappresentano un’energia eccessiva e non completamente sublimabile. Ercole sarebbe dunque l’interprete più potente della potenza sfacciata di Eros.

L’altro versante dell’eccesso è la violenza, e non quella messa al servizio della civiltà. Tutta la carriera, per così dire, di Ercole è costellata da episodi di collera omicida, seguiti puntualmente da punizioni (periodi di esilio, ecc.) e da riti di purificazione. Nelle Trachinie viene ricordata l’uccisione di Ifito, il figlio di Eurito: a suscitare l’ira di Zeus non sarebbe stato il gesto omicida, in qualche modo scusabile come reazione alla tracotanza di un re che aveva insultato l’eroe, e l’aveva fatto buttare fuori, ubriaco (T, 262-269), bensì la modalità del gesto: Ercole non si vendica a viso aperto, e preferisce uccidere Ifito mentre questi gli volge le spalle. Modalità sconcertante, spregiativa probabilmente: come interpretare la rinuncia alla propria immensa superiorità fisica, e la scelta di un comportamento vile, se non come un gesto di disprezzo verso la propria vittima, scagliata dall’alto delle rocce?

A causa delle sproporzione tra le forze, la violenza debordante di Ercole assume talvolta - involontariamente? – un aspetto comico e grottesco. Irritato con un ragazzo che gli ha versato maldestramente acqua sulle gambe, durante un banchetto, Ercole lo punisce tirandogli le orecchie e lo uccide. In un’altra occasione colpisce Ciato, un coppiere, semplicemente con un dito, ma ciò è sufficiente a provocarne la morte . Eccessivo e proteiforme: così appare Ercole, e così i suoi comportamenti. In lui gli opposti non si oppongono, anzi: si annodano, si legano. Ogni lato dell’identità si rovescia.

Non dobbiamo stupirci, allora, se l’eroe invincibile viene anche umiliato, ridicolizzato. Come abbiamo già detto, Ercole è anche colui che si piega. Non si potrebbe interpretare diversamente l’episodio di Onfale, e il processo di femminizzazione a cui Ercole viene sottoposto. Anche questa femminizzazione comporta tratti eccessivi: e se alcuni dettagli sono stati forse introdotti dalla fantasia derisoria in epoche successive – “Inter Ionicas calathum tenuisse puellas // diceris et dominae pertimuisse minas” - , non si può ignorare lo spietato e amaro commento di Deianira quando viene a conoscere una delle ragioni che danno determinato la lunga assenza del marito: “Tutto, dunque, si potrà udire di lui, se si è piegato anche a questo!” ( Παν τοίνυν, ει και τουτ' έτλη, κλύοι τις άν ) (T, 71).

Mi pare di aver definito sufficientemente la mia ipotesi: Ercole come personaggio instabile, privo di essenza, in grado di accogliere tutti gli opposti, sempre in una forma eccessiva. Personaggio in cui l’Es non diventa Io, nel senso di un sistema che bonifica e raffredda l’incandescenza delle pulsioni, e si limita a svolgere compiti esecutivi. L’Io erculeo, in contrasto con la definizione di Freud, non è il servo di tre padroni, ma soltanto di due: il desiderio e la legge. Con il passare dei secoli, la legge verrà interiorizzata e Ercole diventerà capace di autocontrollo. Ma nel teatro greco, e più esattamente nelle opere che stiamo esaminando, c’è un solo padrone, l’eccesso. Vediamo l’energia pulsionale che invade la legge, la travolge, l’assorbe. Così si spiega il fallimento del rito purificatore nel testo di Euripide. Ercole ha ucciso l’usurpatore Lico, salvando da morte certa la moglie Megara e i suoi figli. Ora è davanti all’altare, pronto al sacrificio; mentre sta per afferrare con la destra il tizzone da immergere nell’acqua lustrale, resta immobile, muto. I figli lo guardano. “Ma Eracle non era più lui” ( ο δ' ουκέθ' αυτος ην ). Stravolto nell’aspetto, rotea gli occhi venati di sangue, e dalla bocca gli cola una schiuma bavosa sulla folta barba. La sua mente è invasa dalla follia: Lyssa (la rabbia), la figlia della Notte, mandata da Era a sconvolgere la sua mente, gli fa confondere la sua famiglia con quella di Euristeo. Il massacro viene interrotto da Atena, che lo colpisce con un macigno, prima che Ercole uccida anche il vecchio padre (E, 922-1008).

Nel corso della cerimonia, ha osservato Girard, qualcosa va storto, il sacrificio prende una brutta piega . Come descrivere, però, questo fallimento? La maggior parte dei riti, indipendentemente dell’efficacia che viene loro attribuita, si svolge in maniera corretta e comunque senza imprevisti. Un rito fallisce, secondo la teoria degli Speech Acts, se viene meno qualcuna delle sue ‘condizioni di felicità’ . A causare l’esplosione della violenza, qui, non è però una disattenzione alla forma, una trascuratezza formale; qui si manifesta una forza non controllabile e non addomesticabile dalle procedure di tipo simbolico (in senso ampio): la Cosa non si lascia sublimare, anzi, le procedure sembrano suscitare l’effetto opposto a quello per cui sono state approntate, la legge fa divampare la violenza anziché spegnerla.

La legge sta all’energia delle pulsioni come la tunica di Nesso al corpo di Ercole: quest’analogia è legittima? Molti lettori avranno l’impressione di una forzatura: che il rito fallisca, che sia inadeguato, non implica che esso incentivi la violenza. Resta il fatto che qui la cerimonia appare non tanto una barriera che viene infranta o un involucro che viene lacerato quanto piuttosto un combustibile, un alimento alla fiamma omicida. Se la legge non riesce a domare le pulsioni, è perché si è impregnata di quella violenza che avrebbe dovuto controllare, e comunque mantenere al di fuori. E’ nell’identità ‘spugnosa’ della legge, o meglio ancora è nell’identità di Ercole che bisogna cercare le ragioni di un fallimento del rito .

 

4. Prima di concentrare l’attenzione sulle Trachinie, vorrei richiamare brevemente (senza poterli ovviamente giustificare) alcuni presupposti metodologici: (a) un grande testo letterario va considerato come una formazione eterogenea, una ‘formazione di conflitto’ (e non di compromesso, come asseriva una certa critica freudiana); (b) nei riguardi dei personaggi complessi bisogna saper adottare una concezione modale, e non proprietaria. Un personaggio non è definito, se non in misura assai ristretta dall’insieme delle sue proprietà. Se, ad esempio, quest’elenco ricordato da Vincenzo di Benedetto appare ridicolo – “Deianira è stata definita timida, buona, rassegnata, dolce e mite, malinconica e triste, ma anche a tratti ingenua e impulsiva come una bambina” - , ciò non dipende dai predicati che sono stati scelti; non meno inadeguati, anche se forse meno ridicoli, sarebbero altri predicati. Inadeguata, se non ridicola, è in ogni caso la pretesa di definire un’identità complessa mediante una serie di proprietà, dimenticando che l’essenziale va invece cercato nelle relazioni tra le identità, e nei modi d’essere dell’identità. Quanto alla tragedia greca, Vernant ha affermato che, per esempio, Edipo è un personaggio privo di essenza, e dunque di proprietà, dato che, tradizionalmente, un’essenza consiste nella combinazione delle proprietà necessarie. Edipo oscilla tra due estremi, non semplicemente nel senso di riunire qualità estreme: non si analizza adeguatamente l’identità di Edipo, definendolo come il migliore e nello stesso tempo il peggiore degli uomini.

Analogamente, l’eccesso che caratterizza in maniera decisiva la personalità di Eracle non dovrebbe venir banalizzato nella proposizione “Ercole è una personalità eccessiva”. Enunciazioni di questo tipo presuppongono la concezione del personaggio come indiviso, prefreudiano. Chi non è ancora approdato alla concezione dell’identità divisa (in registri, in modi, e non solo in zone) continuerà a cercare le proprietà che dovrebbero circoscrivere quel dato personaggio. Da parte mia, ho già introdotto la tesi freudiana di un ‘soggetto senza Io’ e, più sobriamente, quella lacaniana del conflitto tra Simbolico e Reale. L’identità di Ercole è conflittuale, e va compresa nei suoi paradossi. Non meno conflittuale è l’identità di Deianira, che soltanto in una prospettiva relazionale potrà venire davvero indagata.

 

5. Ancora una precisazione: quando uso termini come divisione o diviso, non mi riferisco a ripartizioni o separazioni rigide. Per la teoria psicoanalitica del soggetto, e per una teoria modale del personaggio, le divisioni non sopprimono le interdipendenze: i nessi di reciprocità rimangono essenziali anche quando si mette l’accento sulla lotta che contrappone i sistemi (Es, Io, Super-io) oppure i registri (Immaginario, Simbolico, Reale). Dunque i conflitti sono una modalità dell’intreccio, e viceversa. Tra le relazioni possibili in una eterogeneità vi è, per esempio, la relazione di appoggio: una trama più complessa può appoggiarsi su una trama più semplice e tradizionale. Vorrei verificare adesso questa possibilità esaminando il testo di Sofocle.

Che cosa accade nelle Trachinie? A questa domanda sembra ovvio rispondere con una sintesi degli eventi principali; si crede di poter presentare il plot in modo neutro: chi potrebbe negare che, nelle Trachinie, una donna gelosa e incauta determina la morte di Ercole, inviandogli in dono una veste che avrebbe dovuto guarirlo dalla passione per un’altra donna, e che invece si rivela un veleno mortale? Questa è indubbiamente la trama mitica, di cui possiamo ammettere una molteplicità di versioni senza che nessuna di esse si avvicini alla complessità della trama di Sofocle. In effetti, se è vero che la tragedia è una problematizzazione del mito, e non solo una versione più ampia e ricca di dettagli, non possiamo accettare questa sintesi, imperniata su una causalità magica e su identità schematiche.

E’ vero che Sofocle mantiene l’elemento folklorico, magico: la tunica inviata da Deianira ad Ercole non è un’allegoria della sua passione, ma un reale strumento di morte. Questa “rete intessuta dalle Erinni” gli s’incolla ai fianchi, gli divora le carni fin nelle più intime fibre, lo devasta (T, 1051-1057). Evidentemente il poeta non ha voluto creare una frattura tra la propria versione e la tradizionale popolare. Ma insistendo nel privilegiare una trama lineare – un soggetto (attivo) agisce su un altro soggetto (passivo) e ne determina la distruzione, prima di distruggere anche se stesso - ci lasceremmo sfuggire la ‘seconda trama’ delle Trachinie, quella che, appoggiandosi alla prima e lasciandola esteriormente intatta, la modifica profondamente. Perderemmo di vista le novità di Sofocle e la grandezza della sua poesia; o, se si preferisce, la ricchezza del testo e la concezione non-proprietaria dell’identità.

Bisogna insistere semmai su un altro punto: problematizzando il mito, la tragedia rende polisemici tutti gli elementi del testo: non solo, globalmente, l’identità dei personaggi, ma la rete delle azioni e delle cause. Se vogliamo tener conto di questa nuova polisemia, dobbiamo scindere, per esempio, il concetto di ‘causa’ nelle sue diverse accezioni. Poiché causa è ‘il meccanismo scatenante’, si dovrà osservare che nella tragedia greca la causa è fondamentalmente l’hamartìa – termine, com’è noto, non facile da tradurre, in quanto oscilla tra errore e colpa. Oscillazione che accompagna l’intera storia della letteratura, e l’interpretazione dei testi: forse in tutte le grandi opere, infatti, possiamo riconoscere il conflitto tra un dispositivo etico e un dispositivo cognitivo, e uno dei maggiori difetti della critica tradizionale sta nell’aver privilegiato il dispositivo etico, più semplice e lineare.

In alcuni casi, ad esempio nell’Edipo re, la dimensione dell’intelligenza e il conflitto tra stili di pensiero sono l’oggetto stesso della narrazione; e tuttavia l’attenzione dei lettori si è orientata generalmente sul dispositivo etico, che enfatizza il parricido e l’incesto. In altri casi, come nelle Trachinie, la ‘materia’ passionale appare così dominante da inibire le risorse dell’intelligenza critica. Se però esaminiamo meno affrettatamente il problema della causa nelle Trachinie, ci rendiamo subito conto delle novità introdotte da Sofocle. In che consiste la colpa tragica? Nell’infedeltà di Ercole, che suscita la gelosia di Deianira? Questa spiegazione appare banale e moralistica; inoltre viene smentita dagli omaggi che l’opera di Sofocle rende a Eros e ad Afrodite, omaggi che assolvono l’eroe. Dicono le fanciulle del Coro: “Grande è la forza di Cipride, e sempre consegue vittoria” (T, 497). La caratterizzazione di Deianira come moglie gelosa - l’attribuzione del predicato ‘gelosa’ a questo personaggio – risulta decisamente forzata in quanto la donna appare pienamente consapevole dell’esuberanza sessuale di Ercole e ormai rassegnata alle sue infedeltà: “Persino sugli dèi Eros domina a suo piacimento, e su di me, certo; e perché non su un’altra donna, come lo sono io? Sarei proprio folle, dunque, se biasimassi il mio sposo, colpito da tale malattia, oppure questa donna, sua complice in una cosa che per me non è affatto una vergogna né un male” (T, 443-448). E subito dopo: “Eracle non ha forse avuto moltissime altre donne, come mai alcun uomo? Nessuna di loro ha mai dovuto subire da parte mia una parola cattiva o un’offesa. E così questa, neppure se si struggesse di passione” (T, 459-462). Innegabilmente, Sofocle si sta allontanando dalla trama mitica: queste parole di Deianira segnano il punto di massima divaricazione tra il plot mitico e quella che abbiamo chiamato ‘la seconda trama’. Come si spiega il successivo ritorno alla trama mitica, e alla gelosia di Deianira? Dobbiamo pensare a un’indecisione, o addirittura a una contraddizione? E’ possibile che un dubbio di questo genere si sia insinuato nella mente di più di un lettore, e che a inibirne la formulazione pubblica sia stato solo il prestigio della poesia di Sofocle. Comunque sia, l’ipotesi di un’indecisione contraddittoria va lasciata cadere, e appare subito arbitraria, se si analizza il testo nel suo funzionamento, e si comprendono le modalità letterarie di quel ‘principio di appoggio’, enunciato da Freud per le pulsioni.

Soffermiamoci ancora sul problema della colpa e della causa. Sofocle scrive per un pubblico adulto, in grado di apprezzare la raffinatezza delle sue costruzioni ‘psicologiche’, cioè identitarie. Perché mantiene un elemento magico-fiabesco come è la veste impregnata di veleno? In che modo tale elemento potrà mantenere la propria plausibilità, senza apparire come il residuo inassimilato e inassimilabile di una cultura arcaica?

A condizione, prima di tutto, di ridurne il peso, cioè di smaterializzarlo in quanto causa efficiente, e poi riuscendo a conferire alla veste un diverso statuto causale. Vi è dunque una strategia diversiva, che sposta l’accento – e dirige l’attenzione dello spettatore – sugli effetti del veleno, che vengono descritti con crudele precisione, e sulle sofferenze atroci, smisuratamente prolungate, di Ercole. Ma vi è anche un’indagine sulla causa, che fa emergere lo statuto causale dell’identità.

Proviamo a chiederci – anche se la domanda può apparire immotivata – se la veste imbevuta del sangue di Nesso avrebbe avuto lo stesso effetto su chiunque altro, oppure se essa acquista il suo tremendo potere distruttivo perché viene indossata da Ercole. Questa domanda, è appena il caso di ribadirlo, può apparire immotivata e bizzarra. Data l’impossibilità di una verifica su altri personaggi, il lettore si appellerà alla lettera del testo: la veste imbevuta del sangue di Nesso, dirà, acquista il suo potere corrosivo quando viene esposta al calore (del sole, di un fuoco): il bioccolo di lana che s’incendia (T, 695-sgg.) non lascia spazio all’ipotesi secondo cui sarebbe Ercole a scatenarne la virtualità distruttiva.

In base a questa lettura, di cui va osservato il carattere rigidamente lineare, la causa scatenante è una causa esterna, anonima. Ma anche una causalità contagiosa, poiché il veleno che penetrerà nel corpo dell’eroe è il medesimo che egli ha fatto schizzare dall’idra di Lerna, e con cui ha bagnato la punta delle sue frecce; ora il veleno sta tornando verso di lui, dopo aver determinato la morte del centauro. A chiudere il cerchio è l’ingenuità di Deianira? Torneremo tra poco su questo ‘tratto’ psicologico. Per adesso, possiamo cogliere la rilevanza di un’isotopia del contagio, che assume un carattere liquido. Possiamo anche delineare una seconda lettura, in alternativa a quella lineare: all’inizio e alla fine di questo percorso circolare sta la figura di Ercole. Se Ercole brucia a causa del veleno – un incendio che egli riuscirà a spegnere solo sul rogo -, se il rimedio consiste in una variazione e in una intensificazione del morbo, allora si potrà esprimere l’idea secondo cui Ercole è devastato dalla sua stessa violenza, dall’eccesso di cui è il portatore. La causa principale della morte di Ercole – causa che non sopprime quella lineare, magica, ma si appoggia ad essa e la trasforma – va individuata nell’‘incandescenza pulsionale’: la tunica è solo l’occasione, la causa minore. Perciò lo spettatore della tragedia non viene infastidito dal permanere di un elemento fiabesco, folklorico, e sa riconoscere la coerenza dell’opera .

 

6. La teoria delle pulsioni non deve trascurare, secondo Freud, l’aspetto economico, cioè relativo alla quantità dell’energia. L’analisi del più pulsionale degli eroi non potrà dunque ignorare l’aspetto quantitativo. Nell’eccesso della forza è implicita la némesi: non soltanto perché una fiamma, destinata a spegnersi solo per mancanza di alimento, finirà col cercare il proprio alimento anche in se stessa, ma perché l’eccesso di quantità appartiene al modo d’essere del personaggio. Il verso 715 menziona un altro Centauro, Chirone, ferito accidentalmente da Ercole, e che preferì rinunciare all’immortalità pur di porre termine alle proprie sofferenze. Nel caso di Ercole, non è la natura immortale, ma l’incredibile forza e resistenza fisica a prolungarne il dolore. Un individuo normale, una x per cui valgono leggi generali, sarebbe stato corroso in brevissimo tempo, gli sarebbe scoppiato il cuore, ecc. Non è questo che accade ad Ercole. La sua iperbolica potenza vitale gli permette di mostrare una straordinaria forza d’animo - “Su dunque, prima che questo male si risvegli, o dura anima mia, dammi un morso d’acciaio che mi serri saldamente le labbra come due pietre sovrapposte (T, 1259-1262) -, ma anche di manifestare ancora una volta di quali eccessi sia capace la sua rabbia. Sulla soglia del disfacimento fisico, con le carni a brandelli, egli appare più che mai come Ercole furens: “anche se non sono più nulla, anche se non posso muovere nemmeno un passo, io piegherò con le mie mani, pur così come sono, la donna che mi ha fatto questo” ( τήν γε δράσασαν τάδε χειρώσομαι ) (T, 1107-1109). Poco prima, ha chiesto al figlio di consegnargli la donna che lo ha partorito, per seviziarla, e per “sapere con giusta chiarezza se tu, vedendo il suo volto maledetto sfigurato da giusta punizione, ti addolori di più per la mia sorte o per la sua” (T, 1067-1069). Fino all’ultimo istante della propria esistenza Ercole non rinuncia a oltrepassare la soglia. Possiamo considerare l’ordine impartito al figlio di sposare Iole, già incinta, come una manifestazione postuma dei suoi eccessi, e come un’ulteriore conferma della sua natura duplice, che appartiene all’ordine e al disordine, che è instauratrice della legge e confusiva.

La durata delle sue sofferenze consente ad Ercole di venire a conoscere la verità sui fatti, e dunque l’innocenza di Deianira. Ma Deianira è davvero innocente? Nel mito, la sposa di Ercole corrisponde allo stereotipo della sventatezza femminile: credulità e imprudenza la inducono a inviare un presunto filtro (o anti-filtro) d’amore che in realtà è un terribile veleno. Nella rielaborazione sofoclea, emerge una figura diversa.

Le varianti mitiche non s’interrogano sull’ingenuità di Deianira, ma la tragedia è obbligata a farlo. Perciò l’autore tragico affronterà esplicitamente il dubbio che prende forma nella mente di ogni spettatore non ingenuo: come è possibile che Deianira creda alla benevolenza di Nesso, ferito a morte da Ercole? E’ verosimile che, nei molti anni in cui ha conservato il sangue del Centauro, nessun sospetto l’abbia mai sfiorata? Possiamo credere che la verità si faccia strada in ritardo? (T, 707-sgg).

Oppure dobbiamo sospettare una complicità con il Centauro, e con la sfera delle pulsioni? Tale complicità può derivare solo dall’ambivalenza. Si pone allora la domanda: perché – se è vero che ogni passione è ambivalente, e che l’amore include l’odio – l’ambivalenza non si è manifestata in precedenti occasioni? Se è la duplicità dei sentimenti, e non la verità, che si fa strada in ritardo, come mai ciò accade soltanto ora? Nessuna delle precedenti infedeltà di Ercole ha suggerito a Deianira di far ricorso al sangue del Centauro. Lo sperma di Ercole - di nuovo, l’isotopia del liquido - ha potuto scorrere ovunque senza mai accendere la sua gelosia. Ma la situazione attuale è diversa; quando apprende chi è veramente Iole, Deianira non può contenersi: “Quella vergine – no, non la credo più una vergine, ma una donna a lui legata, ormai ! – io, ignara, l’ho accolta in casa come un marinaio imbarca un nuovo carico. Ed è una merce che mi distrugge l’anima. Ora siamo in due sotto una coltre sola ad attendere l’amplesso. Questa è la ricompensa di Eracle – l’uomo che io chiamavo fedele e leale - per avergli custodito la casa per così tanto tenpo. Eppure non so essere adirata con lui, che è spesso colpito da questo male. Ma vivere insieme a costei, avendo il marito in comune, quale donna potrebbe sopportarlo ?” (T, 536-46).

Dunque è questa la ubris, intollerabile, di Ercole: per la prima volta egli introduce l’infedeltà e la rivalità nel proprio spazio privato. Il suo è un gesto arrogante, ancor prima che crudele: arrogante sul piano intellettuale, perché mostra di sottovalutare le reazioni che potrà indurre, ancor prima di essere arrogante sul piano etico. Ecco l’hamartìa, nel suo duplice aspetto. Ercole è già avvolto nella sua stessa ubris. Egli sta già seviziando la moglie – prima di proferire la sua furente minaccia, come avverrà solo verso la fine dell’opera.

Gli effetti di questa azione sulla mente di Deianira sono realmente paragonabili a quelli che il veleno avrà sul corpo dell’eroe. Ascoltiamo di nuovo le parole di Deianira: questa, dice la donna riferendosi a Iole, è una merce che mi distrugge l’anima – la mente, il cuore ( λωβητον εμπόλημα της εμης φρενός, T, 538), e che mi farà impazzire. Non è con i termini ingenuità o sventatezza che possiamo descrivere il suo comportamento successivo: il dolore la sconvolge ; l’odio sempre represso con argomentazioni razionali – chi potrebbe contrastare il regno di Afrodite nei cuori degli uomini ? Io, una donna, dovrei essere così stolta da lottare contro Eros come un pugile? – questa volta prevale.

Nella mente di Deianira torna ad affacciarsi l’intuizione del terribile potere di quelle gocce di sangue, che ha custodito per tanti anni. Certamente, questa affermazione si riferisce al non-detto del testo, al suo implicito. Ma possiamo ignorare l’implicito del testo senza riproporre gli stereotipi di una psicologia povera, e un’antropologia del soggetto indiviso ? Tanto più che, in questo caso, l’ipotesi dell’ambivalenza non è la proiezione di un concetto freudiano su un personaggio isolato, e trova molte conferme testuali.

L’implicito di un testo è un insieme di inferenze, la cui legittimità sta nella sovrabbondanza di relazioni che l’autore ha instaurato componendo l’opera : una sovrabbondanza che sfugge ampiamente al suo controllo, e la cui percezione ha forse ispirato a Tolstoj una definizione dell’opera come labirinto. Comunque, è questo tessuto relazionale che rende possibile, - quando non viene ‘schiacciato’ sulla linearità narrativa, come accade nelle opere mediocri – il sorgere di nuove interpretazioni.

Appartiene all’implicito testuale delle Trachinie l’intuizione più veritiera di Deianira: aver compreso sin dall’inizio che l’eroe salvatore aveva delle affinità con i mostri contro cui lottava. Jan Kott ha giustamente ricordato una sentenza di Nietzsche : «Chi combatte contro i draghi diventa a sua volta un drago ». Dunque la verità di Ercole non risiede nelle imprese di un eroe civilizzatore, che ripulisce la terra dai mostri, di un eroe separatore, che traccia una frontiera tra natura selvaggia e civiltà, bensì nella congiunzione tra gli opposti. Ercole è perennemente in contatto con un’alterità informe, e a quest’alterità egli attinge la sua stessa identità. La sua possente energia trae alimento dalle medesime fonti da cui nascono i suoi avversari.

La verità delle Trachinie – ciò che Benjamin chiama il Wahrheitsgehalt, il ‘contenuto di verità’ di un testo, distinto dal suo ‘contenuto di realtà’ – è una logica di annodamento e di complicità tra gli opposti. Tra civiltà e mostruosità, tra Eros e Thanatos, il confine è fluido. Si direbbe che, rispetto ai confini che pure contribuisce a tracciare, Ercole si collochi nello stesso tempo al di qua e al di là.

Perciò dall’identità di Ercole furens sgorga - per dare coerenza a tutta l’opera - l’isotopia della distruzione e dell’informe. Questo è il vero tessuto delle Trachinie (la sua organizzazione, non il suo involucro), e questa è la coerenza che rende feconda l’ibridazione tra il mito e l’analisi psicologica (e filosofica).

Ci accorgiamo che essa è presente fin dall’inizio, nel primo monologo di Deianira, dove si narra come la fanciulla fosse stata offerta in sposa a un essere inquietante, instabile. « Provai per le nozze, dice Deianira, un’angoscia tremenda, come mai altra donna d’Etolia. Il mio pretendente era un fiume, l’Acheloo, che si presentava in tre forme diverse per chiedere la mano a mio padre : ora con l’aspetto di toro, ora di sinuoso e cangiante serpente, ora di uomo con la testa bovina ». Sono un’infelice, sono stata sempre destinata all’infelicità : quand’ero ragazza seppi che avrei dovuto sposarmi, pensate, con un senza-forma. « A salvarmi giunse poi il glorioso figlio di Zeus e di Alcmena, e mi liberò. Come si svolse la lotta, non potrei narrarlo, perché non lo so. Soltanto chi assistette impassibile a quello spettacolo lo potrebbe raccontare » (T, p. 75).

E’ al coro delle fanciulle di Trachis che spetta il racconto : come non restare colpiti dalla modalità di questa lotta, in cui gli avversari sono indistinguibili ? « E fu allora un fragore di mani, di archi, di corna taurine insieme confuse. Fu un sopraffarsi a vicenda di corpi avvinghiati, un succedersi di colpi mortali, a fronte a fronte, un gemere affannoso da entrambe le parti » (T, 516-522). Ercole prevale. Ma come interpretare la sua vittoria ? Ora comprendiamo che in questa lotta, e forse in molte altre, Ercole non rappresenta le esigenza della Cultura contro la Natura, e che l’energia metamorfica di Acheloo è stata vinta solo da un’energia più grande, non meno informe e brutale. Da questo vincitore troppo simile al vinto, da questo marito Deianira si dovrà difendere : con le sue stesse armi, con il sangue avvelenato del Centauro, che lei custodisce e dimentica per molti anni in un cofano di ottone. Quando l’oltraggio giunge a devastare lo spazio domestico, Deianira se ne ricorda.

 

7. Tra i numerosi, e meno visibili paradossi del genere forse più paradossale di tutti, e paradossale per definizione, la tragedia, vi è dunque, dal punto di vista di Deianira, la scoperta di aver sposato un senza-forma analogo a quello da cui Ercole l’aveva apparentemente liberata. E poi vi è l’isotopia del liquido, che oltre al sangue e allo sperma include l’elemento acquatico di Acheloo, e naturalmente anche l’acqua del fiume che Deianira attraversò sul dorso di Nesso: questa isotopia sfocia, paradossalmente, nel fuoco – il veleno ardente, corrosivo, e il rogo sul monte Eta.

Non sembra siano necessarie altre conferme per quanto riguarda l’identità di Ercole come identità congiuntiva. Vale però la pena di rammentare che questa congiunzione è conflittuale, e non assimilabile a forme ireniche di coincidentia oppositorum. Nel legame tra gli opposti, come viene generalmente presentato dagli autori tragici, energie furenti tentano di districarsi.

Ciò che non accade né potrebbe accadere nella Trachinie e nell’Eracle, dove Ercole viene rappresentato come l’eroe ‘più pulsionale’, si verifica invece in altre zone del mito e della tradizione letteraria. Gli opposti vengono slegati, separati. E la strana teologia dell’Ercole diviso è il risultato meno plausibile di questa rassicurante separazione, già menzionata in precedenza: Ercole che risiede nell’Olimpo, accanto agli immortali nella cui cerchia è stato accolto, e che nello stesso tempo – come il resto incandescente e non sublimabile della pulsione – si aggira nell’Ade; qui egli conserva le sue caratteristiche minacciose, si guarda intorno, dominato dalla passione di uccidere. Così lo rappresenta Omero: “Intorno a lui stridio di morti, come d’uccelli / che fuggono ovunque atterriti; egli, simile a notte cupa, / teneva l’arco snudato e sulla corda una freccia, / scrutando con sguardi terribili, sempre pronto a scoccare”.

A sottolineare la scarsa plausibilità di questa ripartizione interviene la letteratura satirica e comica. In un dialogo di Luciano, Diogene, sceso nell’Ade, s’imbatte in Ercole; inconfondibile nei suoi tratti distintivi (l’arco, la clava, la pelle di leone, la prestanza fisica), l’eroe precisa di essere l’ombra di se stesso, cioè del vero Ercole che si trova in cielo tra gli dèi. Questa singolare situazione confusiva diventa subito oggetto delle impertinenze di Diogene: sei sicuro – chiede il filosofo – di non essere tu il vero Ercole, e che non sia invece la tua ombra a spassarsela con Ebe ‘dalle belle caviglie’? E quando eravate in vita: eri già allora la sua ombra? Eravate due oppure un essere solo, successivamente sdoppiato dalla morte? Ercole, sempre più irritato, ricorda la sua duplice natura, umana e divina – ma per suscitare una nuova domanda ironica: dunque Alcmena generò due Eracli, uno da Zeus, uno da Anfitrione, così che, “a vostra insaputa, eravate gemelli per parte di madre”. Replica l’eroe: “No, cretino; eravamo entrambi la stessa persona”. Diogene però insiste, arriva a ipotizzare un triplice Ercole, distinguendo l’eroe assunto in cielo, la sua ombra, e il corpo incenerito sul monte Eta .

Una filosofia separativa non può comprendere i paradossi di un eroe ‘congiuntivo’, che annoda gli estremi, com’è appunto Ercole. A ben vedere, le potenzialità comiche nascono dalla ripartizione, cioè dalla distribuzione in spazi diversi, da una moltiplicazione spaziale estranea al vero Ercole. Si noti che, nella visione tragica, ‘il vero Ercole’ non è quello glorificato, ma la personalità eccessiva, l’eroe pulsionale che arde a causa della sua stessa incandescenza.

Il fatto che l’apoteosi nell’Olimpo lasci un resto negli Inferi potrà allora essere inteso come il sintomo di quella unità paradossale che si è cercato di descrivere: un sintomo è una visione degradata. A questa degenerazione, e all’idealizzazione che, da Antistene in poi, ha trasfornato Ercole nell’immagine di colui che sopporta le privazioni, che domina l’elemento passionale, e che simboleggia la saggezza e l’equilibrio, bisognerebbe opporre nuovamente l’antica duplicità. Vorrei riproporla senza troppa enfasi, e a partire dal mondo di oggi. La duplicità di Ercole che unisce esaltazione e umiliazione, vittoria e sconfitta, mi ha richiamato alla mente una massima, che mi è capitato di leggere tempo fa nella sala d’attesa di uno studio dentistico. Avevo tra le mani “Donna moderna”, una di quelle riviste che Ercole avrebbe sfogliato con interesse, nel periodo in cui si esercitava col fuso e la conocchia seduto accanto ad Onfale. La massima, enunciata da un allenatore di football americano, uno sport che richiede muscoli possenti e corporature erculee, dice: “nessuna vittoria è mai totale, nessuna sconfitta è mai completa; quello che conta è il coraggio”. Analogamente, ripensando alla strana teologia dell’Ercole diviso, potremmo dire: l’apoteosi non è totale, la collocazione negli Inferi non è completa: ciò che importa è che Ercole, il più eccessivo di tutti gli eroi greci, è stato l’eroe del coraggio.