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Davanti alla Legge

In “Arcipelago” 2, 2002

1. Pensare la violenza, pensare la guerra – in senso originario o in senso derivato? Potrebbe essere questa l’alternativa più difficile da superare. Dice Eraclito:

la guerra è padre di tutte le cose, il re di tutte le cose (pòlemos panton men patèr estì, panton de basilèus), e gli uni manifesta come dèi, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberii.

La guerra padre di tutte le cose (pater viene tradotto da Heidegger con Erzeugender, colui che produce o genera): ma quale ‘pensiero della guerra’ è stato generato dal polemos? Quale pensiero riflette o rivela l’essenza del conflitto? Sembra che, fin dai tempi antichi, la guerra abbia generato una forma di razionalità a cui è stato dato il nome di strategia, o arte militare, ma non ancora un pensiero strategico nell’accezione filosofica, un pensiero che, fra l’altro, sfuggirebbe all’alternativa tra originario e derivato.

2. La prima formulazione per la mia ricerca (da quando ho creduto, per la prima volta, di poter tentare una riflessione personale sul terreno della filosofia) è stata questa: occorre dare una lingua filosofica all’arte militare – si deve offrire alla metis, la ragione astuta dei Greci, la possibilità di parlare la lingua dei concetti. La metisii governava un insieme di saperi empirici, di abilità (quella del navigante, del cacciatore, del retore, del medico, e così via), di attitudini a conoscere oggetti instabili, polimorfi, reticenti alla saldezza dell’episteme. Questi saperi sarebbero rimasti empirici, cioè inferiori, anche se non a un medesimo livello: l’arte di seguire le tracce o di pilotare una nave non avrebbe avuto sviluppi paragonabili a quelli della medicina. La filosofia ha tematizzato alcuni di questi ‘oggetti’ ma lo ha fatto, evidentemente, in una prospettiva che tendeva a ridurre la loro peculiarità; ad esempio, perché le inferenze di cui si serve la metis trovassero un riconoscimento, molto parziale, si è dovuto attendere l’indagine di Peirce e la teoria dell’abduzione. Insomma, la tradizione filosofica dell’Occidente ha preferito considerare la guerra come un oggetto (una rappresentazione) oppure come un impulso (una volontà) e non come una logica.

Si potrebbe obiettare che questo giudizio è valido solo se riferito alla tradizione anti-eraclitea. In Eraclito è il logos stesso a venir inteso come polemos – una concezione in cui si riconosceranno Hegel, Nietzsche e Heidegger. Tuttavia, in questo momento, il problema non può essere affrontato sul piano della ricostruzione storica: le domande sulla logica di Eraclito, e sui modi in cui essa è stata interpretata da Hegel, da Nietzsche, o da Heidegger, devono venir rinviate; bisognava almeno evocarle, in ogni caso, perché la nostra riflessione trarrà i suoi spunti dall’empiria, e da casi empirici di violenza e di guerra deriverà i motivi di alcune distinzioni. Come sempre, l’inizio di una riflessione incespica meno nell’empiria che non in cattive opposizioni, in articolazioni irrigidite e depistanti. Ciò che va subito chiarito, allora, in relazione al logos / polemos, è la differenza tra un pensiero della molteplicità e un pensiero delle divisioni; di questa differenza Eraclito era consapevole?

Metto da parte, con sommo rispetto, il nome di Eraclito. Se il restante popolo dei filosofi rigettava la testimonianza dei sensi, perché questi indicavano molteplicità e cambiamento (Vielheit und Veränderung), egli rifiutava la loro testimonianza perché essi mostravano le cose come se avessero durata e unità (Dauer und Einheit).iii

Non discuteremo qui se siano i sensi oppure la ragione a determinare e a diffondere la superstizione dell’unità; decisiva è la capacità di non oscillare tra il molteplice empirico e l’unità generale del concetto, tra le innumerevoli manifestazioni della violenza e della guerra, e la violenza o la guerra. L’articolo determinativo favorisce la superstizione grammaticale dell’unità, e in questa unità superstiziosa si rischia di rimanere imprigionati quando si usa l’articolo determinativo per introdurre la nozione di polemos, o le sue traduzioni heideggeriane (Kampf, Streit, Aus-einander-setzung). Dunque, anziché opporre le rappresentazioni della guerra al pensiero della guerra, a un pensiero originario, per il quale “Ciò che viene qui denominato polemos è un conflitto che emerge prima di ogni cosa umana e divina. Non si tratta di una guerra di tipo umano”,iv anziché cercare una distanza o una differenza da cui potrebbe emergere non casualmente una cattiva vicinanza, tenteremo un’altra via: la via di un pensiero che descrive senza sprofondare nell’effettualità di ciò che descrive. Un pensiero non-effettuale, non-oggettuale.v

Proveremo a descrivere una pluralità, e non una molteplicità. Cercheremo distinzioni là dove distinguere è difficile – la violenza non favorisce le distinzioni; essa sembra generare, spontaneamente e reattivamente, solo le dicotomie (o la condanna) da parte dell’etica. Sarebbe imperdonabile, tuttavia, rinunciare ancora una volta ad afferrare la razionalità filosofica che si manifesta nella guerra solo a causa dell’orrore prodotto dall’‘irrazionalità’, e dagli effetti, della violenza.

3. Almeno in linea ipotetica, la violenza comprende una pluralità di forme. Per cercare di assumere una buona distanza nei confronti dell’empiria, potremmo cercare anzitutto dei punti di appoggio in teorie già esistenti, ad esempio la psicoanalisi. Una descrizione, una tipologia nel senso qui auspicato, potrebbe allora distinguere una violenza invidiosa, una violenza punitiva e una violenza festosa. Questi tre atteggiamenti corrisponderebbero grosso modo alle istanze psichiche freudiane, Io, Super-io, Es. L’idea è tutta da chiarire; iniziamo dalla violenza punitiva.

Con questa espressione indico una forma di violenza che mi sembra ispirata, giustificata ed esaltata dal rapporto tra un individuo (o un gruppo) e un Principio che l’oltrepassa. Prima di discuterla, è però necessario superare ancora un’esitazione, e chiedersi se forma sia un termine adatto. Non c’è dubbio, infatti, che la violenza sia una spinta o una tensione verso l’informe, verso la negazione della forma; e anche se la forza distruttiva non è obbligata a somigliare all’oggetto in fase di distruzione, anche se la violenza può assumere una veste altamente organizzata, l’impressione di una somiglianza (forse nascosta, sotterranea) è difficile da negare.

L’attrazione rende o può rendere simili. “Si finisce sempre con il somigliare al proprio nemico” ha detto Borges. L’avverbio sempre non va inteso, così come molti avverbi che compaiono nelle massime e negli aforismi, in senso letterale: tuttavia esso segnala una tendenza imperiosa, non facilmente contrastabile. È il problema della simmetria e dell’asimmetria – problema che ha una dimensione etica e una dimensione strategica.

Esaminiamo dunque le nozioni di ‘forma’ e di ‘informÈ. In che senso si può parlare di forme di violenza? Banalmente, nel senso di ‘manifestazioni’, di ‘modi in cui la violenza si manifesta’? Ma qual è l’atteggiamento metodologicamente più adeguato alla diversità di tali manifestazioni? Niente di più ovvio e di più facile che venire calamitati dall’empiria. Nei testi di Wolfgang Sofsky, ad esempio, abbondano le descrizioni: si passa dalle armi alla tortura, dal combattimento alla caccia, alla fuga, al massacro, dal ruolo degli esecutori a quello degli spettatori; ma le descrizioni sono ridondanti, l’aggettivazione moraleggiante è scontata, e le proposte di spiegazione restano assai generiche. Il motivo più profondo della violenza sarebbe l’illusione dell’immortalità, il trionfo sulla morte;vi ma Sofsky sembra confondere il desiderio di vincere la morte (desiderio che caratterizza diverse attività umane, tra cui quella estetica), e il desiderio di impersonare la morte, cioè di identificarsi con il principio di distruzione, con la pulsione di morte. Mettendo l’accento sulla radice comune, e trascurando i modi di elaborazione, Sofsky approda inevitabilmente a una conclusione tautologica: “il mostruoso sogno di dominare la morte partorisce solo mostri”.vii Non c’è dubbio: quando è mostruoso, e solo allora, il sogno di dominare la morte partorisce mostri. Quando però non è mostruoso può spingere ad azioni del tutto diverse, per esempio a costruire un monumento aere perennius (più duraturo del bronzo, secondo la nota espressione di Orazio).

Un’altra e non meno grave ambiguità è riscontrabile nell’uso del termine sovranità, tratto forse da Bataille: “nel dolore e nella morte della vittima l’esecutore vive l’esperienza di una sovranità assoluta, di una libertà assoluta dal peso della morale e della società”.viii Nella sua genericità, quest’enunciato può essere vero in numerosissimi casi, ma bisogna domandarsi in che consiste esattamente l’“esperienza di sovranità”. Per diventare ‘sovrani’ è sufficiente sciogliersi dalle proprie catene? Leggendo Sofsky, si ha l’impressione che la sovranità sia democraticamente a portata di tutti, accessibile da qualunque varco che conduca nella sfera della violenza. Tutto ciò appare quasi come una nobilitazione involontaria della terribile “condizione di parità” descritta da Hobbes in riferimento allo stato di natura – l’eguaglianza consiste nel fatto che chiunque può uccidere ed essere ucciso.

Prima la violenza sgorgava dal desiderio di immortalità, adesso dal desiderio di potere, o meglio di onnipotenza. A queste spiegazioni, vaghe ed epidermiche, si potrebbe contrapporre la spiegazione ‘metafisica’ di Girard; il titolo di una delle sue opere, La violenza e il sacro, presenta un connettivo, una “e”, che va letta come un rapporto di identità: “È la violenza che costituisce il vero cuore e l’anima segreta del sacro”.ix Dunque la violenza è il sacro, e il sacro è “tutto quel che domina l’uomo con tanta maggior sicurezza quanto più l’uomo si crede capace di dominarlo”.x In questa concezione desublimata, il sacro non è il divino; potremmo chiamarlo piuttosto il dominante; si tratta di un’impurità contagiosa, fluida – la violenza ha un carattere eminentemente comunicabile, e da ciò derivano i suoi straordinari effetti mimetici. Se la violenza è tendenzialmente illimitata, ciò non dipende dalle sue presunte radici nella soggettività degli uomini (dal desiderio di immortalità o di onnipotenza), ma dalla sua stessa ‘natura’, dal suo meccanismo:

“Più gli uomini si sforzano di dominarla e più le danno alimento; essa trasforma in mezzi d’azione gli ostacoli che uno crede di opporle, simile in ciò a una fiamma che divora tutto quello che, con l’intenzione di spegnerla, le si può gettare sopra.”xi

Che la violenza oltrepassi la sfera della soggettività tradizionalmente intesa – il soggetto uno, indiviso, prefreudiano – è un’idea importante, così come l’altra idea fondamentale di Girard, secondo cui non è tanto la differenza quanto la somiglianza a generare il conflitto. Ma entrambe devono venire problematizzate: per esempio, una nozione imprecisa di ‘somiglianza’ conduce Girard a una lettura dell’Edipo re tutta imperniata sulla violenza dei ‘doppi’ (lettura che considero sbagliata e che però qui non posso approfondire);xii è l’altra idea di Girard che vorrei discutere, la violenza come “processo infinito, interminabile”.xiii Poco importa come la violenza si generi (anche il dibattito sulle radici biologiche o culturali della violenza non sembra interessare molto Girard): l’aspetto fondamentale è che, una volta scattata, la violenza è difficile da placare; la possibilità di una escalation illimitata, da cui si genera il ciclo interminabile della vendetta, è così intrinseca alla violenza che solo una strategia d’inganno può risultare efficace; l’unico modo di placare la violenza è di deviarla, offrendole uno sfogo. Si tratta di sfruttare la ‘comunicabilità’ della violenza, cioè la sua disponibilità a gettarsi su un qualunque oggetto di ricambio, e di farla confluire su una vittima sostitutiva: questa è per l’appunto la funzione del sacrificio.

La violenza interminabile descritta da Girard è una violenza vendicativa, punitiva. Essa nasce dalla “necessità” della vendetta; qui necessario non indica qualcosa che deve accadere o che deve essere compiuto inevitabilmente, non indica un’assenza di alternativa; in un qualche senso, però, stiamo parlando di una violenza non del tutto arbitraria, non immotivata (il che non vuol dire che essa risulti legittima).

Credo sia importante non trascurare la motivazione, o meglio questo tipo di motivazione, perché esistono forme di violenza immotivate, o quantomeno svincolate dal ciclo girardiano della vendetta: violenze “inutili” – questo è l’aspetto che le rende così agghiaccianti. In ogni caso la violenza punitiva non va confusa con la violenza invidiosa.

4. Mi servirò della nozione di “invidia” così come è stata precisata da Lacan nel Seminario XI e, alcuni anni fa, in un bel libro di Silvano Petrosino,xiv che deve parecchio a Lacan, e che ha il grande merito di leggere questa passione fondamentale in riferimento alle categorie modali (l’invidia ha a che fare con la sfera del possibile, non con quella del necessario).

L’invidia non è la gelosia: mentre la gelosia è una passione triadica, l’invidia è diadica,xv e separativa: ciò che conta, per l’invidioso, è che un altro soggetto – che solo in una particolare prospettiva è un ‘rivalÈ – non si congiunga con l’oggetto del desiderio, con l’oggetto della sua felicità. Perciò l’invidia è una passione “separativa” . Come dice Lacan:

“ciò che il bambino, o chiunque altro, invidia (envie), non è necessariamente qualcosa di cui potrebbe avoir-envie, avere invidia-voglia, come impropriamente ci si esprime in francese. Il bambino che guarda il fratello (attaccato al seno della madre), chi ci dice che abbia ancora bisogno d’attaccarsi alla mammella? Tutti sanno bene che l’invidia è comunemente provocata dal possesso di beni che non sarebbero, per chi invidia, di alcuna utilità, e di cui non suppone neppure la vera natura.”xvi

Secondo Aristotele, lo sfondo dell’invidia è costituito dalla prossimità, dalla somiglianza (reale o percepita come reale): “Proveranno dunque invidia coloro che hanno dei loro simili o che sembrano averli” (Retorica II, 1387 b 25-28). Per afferrare correttamente la nozione di “somiglianza”, in questo contesto, bisogna aggiungere al campo della realtà effettuale quello della possibilità. La distinzione pertinente qui non è tra la realtà e l’apparenza (dove l’apparenza sarebbe una realtà priva di essere), bensì tra l’effettuale e il possibile. A proposito del dolore dell’invidioso, Petrosino osserva:

“ciò che provoca dolore non è semplicemente il non possesso del bene in questione, quanto piuttosto il manifestarsi di un ritardo o vuoto in quel piano del possibile che il possesso di quel bene sembra invece portare a compimento […]

L’invidioso vede […] che l’altro, nelle sue stesse condizioni, a partire dalle stesse possibilità, ha realizzato ciò che anch’egli avrebbe potuto, ma non ha saputo realizzare […] egli vede nel bene posseduto dall’altro l’immagine della propria possibilità, ma come capovolta o invertita, la vede cioè unicamente nel riflesso della più inequivocabile e irrecuperabile espropriazione ”.xvii

L’invidia deriva da uno stato di impotenza – da un’impotenza assoluta, perché ciò che l’altro ha potuto (e può) realizzare coincide con la possibilità che l’invidioso non avrà mai a disposizione, benché egli ritenga di esserne stato sfiorato. Il possibile per l’invidioso si identifica con “ciò che avrebbe potuto, ma non è stato possibile”. Non lo è stato, e non lo sarà mai più. L’invidioso soffre dell’impossibilità di accedere a quelle che continuano ad apparirgli come le stesse possibilità, per lui e per l’altro.

Ma, a ben vedere, le possibilità che l’altro ha realizzato sono ‘le stessÈ solo per omonimia: riprendendo l’osservazione di Lacan, diremo che l’invidioso non ha una conoscenza chiara e adeguata della cosa, il cui mancato possesso lo fa soffrire. Di ciò che rappresenta l’oggetto del suo desiderio, egli non saprebbe che farsene. È questa contraddizione che spinge la sua rabbia sino all’apice.

L’eventualità di trovarsi in balia della violenza invidiosa va considerata come una delle più temibili. Questo tipo di violenza – vorrei delinearne i tratti tipologici, prima di cercare degli esempi – nasce non dal desiderio o dal sentimento di onnipotenza, ma, come si è detto, dall’impotenza; è una violenza maligna, gratuita, il cui obiettivo è meno quello di uccidere che non quello di mutilare. Quando leggiamo di feroci mutilazioni arrecate al nemico (mani tagliate, piedi tagliati, ecc.), sia che queste atrocità riguardino la storia recente (la guerra civile in Liberia, o il Ruanda), sia che appartengano alla storia antica – nel racconto di un grande storico si legge che nel corso di un’invasione barbarica “molte fiorenti città furono distrutte e l’agricoltura della Tracia fu quasi completamente rovinata dall’efferata barbarie dei Goti, che tagliavano ai contadini prigionieri la mano destra che guida l’aratro” –,xviii in tutti questi casi è difficile non ipotizzare un impulso invidioso: quale vantaggio nel tagliare la mano destra ai contadini se non la gioia di privarli della possibilità di un’esistenza, a cui un popolo nomade non avrebbe comunque accesso?

Bisognerebbe riflettere sul ruolo e sul peso della violenza invidiosa nelle rivoluzioni; sul veleno che essa ha versato dentro le ferite aperte dalla guerra civile; sul malocchio, sull’occhio cattivoxix con cui troppi ‘rivoluzionari’ hanno guardato al processo storico in corso, perdendo di vista le possibilità grandiose e difficili che stavano nascendo, e mostrando di preferire ad esse la “possibilità di togliere”. L’ultimo film Eric Rohmer, La nobildonna e il duca,xx ce ne offre un esempio: la cittadina Lucy Russell, che è stata condotta davanti a un tribunale rivoluzionario, viene prosciolta dall’accusa di tradimento; tuttavia, mentre sta per lasciare l’aula del tribunale, uno dei membri del comitato, insoddisfatto dell’esito, le rivolge una nuova accusa, palesemente arbitraria, cavillosa, generata solo dall’astio. Ciò che risulta intollerabile al persecutore è la felicitàpossibile di una persona, che è appena sfuggita a una gravissima minaccia. Il suo sollievo, la sua gioia, il ritorno alla vita, non tolgono nulla al persecutore, non lo sminuiscono; però contrastano l’esercizio di una violenza privativa, e tanto basta per suscitare quest’odioso accanimento.xxi

3. Ho indicato una relazione tra violenza invidiosa e sfera del possibile, ma ciò non significa che la violenza punitiva, finora solo accennata, esaurisca invece il rapporto con la necessità. Bisogna dunque chiarire in che senso un’incontrollabile volontà di punizione attinga all’idea, o alla sensazione, del necessario.

Vorrei mettere alla prova una definizione: punitiva è la violenza che si ispira alla Legge. Il verbo che compare in questa definizione non è scelto a caso: “ispirarsi a” non è semplicemente “richiamarsi a un modello”, cioè a un esempio che ha valore di esemplarità; significa agire secondo lo spirito (e non seguendo la lettera), affidandosi alla propria immaginazione e alla propria capacità ermeneutica. La punizione sarà allora un caso di applicatio, nell’accezione ermeneutica del termine.xxii

Applicare la legge non è un atto meccanico, guidato da regole impersonali; al contrario, la buona applicazione esige un apporto personale, anzitutto sul piano del discernimento (subtilitas intelligendi) e dell’aderenza al contesto. Ma non basta: l’applicatio va intesa non come mera esecuzione di un atto ermeneutico precedente, bensì come il momento vitale dell’intero processo (così in Gadamer).xxiii Si può dire che l’applicatio metta in luce l’incompletezza della legge, la necessità che una lacuna venga saturata dalla personalità dell’interprete-esecutore. Dobbiamo capire in che consiste propriamente questa lacuna.

Nel libro V dell’Etica Nicomachea, l’incompletezza della legge viene presentata da Aristotele come l’impossibilità di enunciare correttamente l’universale in rapporto a tutti i particolari (cap. 14, 1137 b). Perciò accade che la legge debba venir interpretata, colmata, ed eventualmente corretta:

“Quando la legge dice in universale, ma le sopraggiunge un caso che fuoriesce dall’universale, allora è corretto, là dove il legislatore ha tralasciato e ha commesso un errore dicendo in universale, correggere ciò che è stato omesso: cosa che il legislatore stesso avrebbe detto se fosse stato là presente e avrebbe prescritto se avesse visto.” (1137 b 20-24)

Bisogna dunque sbarazzarsi dello stereotipo che fa coincidere la sfera della legge con quella della rigidità prestabilita; e bisogna sbarazzarsi anche dell’immagine stereotipata di Aristotele come pensatore ‘tassonomico’, distributore del molteplice; merita di venire ripresa, ad esempio, la puntualizzazione di Gadamer a proposito della distinzione aristotelica tra diritto naturale e diritto positivo, che è stata fatta corrispondere erroneamente alla distinzione tra un diritto immutabile e un diritto mutevole:

“in tal modo ci si lascia sfuggire il nocciolo più profondo della sua posizione. Egli (Aristotele) conosce bensì l’idea di un diritto immutabile, ma lo limita esplicitamente agli dèi, e afferma che tra gli uomini non solo il diritto positivo ma anche il diritto naturale è mutevole.”xxiv

Ciò che conta è “la natura della cosa”, e la natura comprende sia il rigidamente determinato sia l’imperfezione dell’universale, l’insufficienza del pensiero rigido a determinare i casi singoli. Nel concetto aristotelico di phronesis, così come in quello kantiano di Urteilskraft (facoltà del giudizio) l’incompletezza e l’inadeguatezza del pensiero rigido evocano la necessità di un altro stile di pensiero – uno stile che la tradizione occidentale non ha saputo elaborare, data l’enorme difficoltà di stabilire anche solo una cornice, al cui interno una logica della flessibilità possa venire enunciata. E tuttavia la mancanza che abita nel cuore della legge non può venire colmata o saturata con rigidità, o semirigidità, di ordine pragmatico. Ed è proprio a causa di tale mancanza che la porta della Legge – come nella parabola di Kafka – resta sempre aperta. In linea di principio, è sempre possibile che là dove la legge è vuota faccia irruzione la violenza.

4. La parabola di Kafka, dove troviamo l’immagine di un ingresso destinato soltanto a un individuo, offre un’eccellente illustrazione al problema dell’incompletezza della legge e della necessità di una applicatio governata dalla personalità del singolo. L’impossibilità di entrare equivale però all’impossibilità di interpretare? L’incompletezza della legge coincide con la sua totale infondatezza? Oppure la polisemia della legge viene enfatizzata dal gesto, o anche solo dalla volontà, di entrare – i guardiani sono infiniti: infinita è la moltiplicazione degli ostacoli e degli errori nella mente di chi crede di poter completare la legge, penetrando in essa come in uno spazio, in una zona della realtà effettuale?

Sembra plausibile che dalla consapevolezza di un vuoto, di un manque, nel cuore della legge non sia derivabile alcuna indicazione immediata sulla via da percorrere, se si vuole che le integrazioni e le correzioni non assumano la forma del fraintendimento, della distorsione, dell’usurpazione. Un’indicazione è peraltro reperibile in un mito greco, narrato da Esiodo nella Teogonia.

“Zeus, re degli dei, prese in sposa per prima Metis, colei che sa più di tutti gli dèi e degli uomini mortali. Ma quando Metis fu sul punto di partorire la dea glaucopide Atena, allora, ingannando il suo cuore, egli la inghiottì nel suo ventre seguendo i consigli di Gaia e di Urano stellato.”

Così l’avevano consigliato entrambi, perché nessun altro al posto di Zeus avesse il potere regale tra gli dèi sempre esistenti; da Metis infatti era fatale che nascesse una prole assai saggia; per prima la fanciulla glaucopide Tritogenea, dotata di forza eguale a quella del padre e di saggio volere, poi un figlio, re degli dèi e degli uomini, dal cuore violento; perciò Zeus la inghiottì nel suo ventre, affinché la dea potesse consigliarlo sul bene e sul male.

“Per secondo poi sposò la splendida Themis, che fu madre delle Ore, Eunomia, Dike ed Eirene prudente, che vegliano sull’opera degli uomini mortali....”xxv

Colui che detiene il potere inghiotte metis, la ragione astuta; avrà il monopolio della strategia? Così dovrebbe essere, e tuttavia il racconto mitico non elimina l’ambiguità: che Atena esca successivamente tutta armata dalla testa di Zeus, non rinnova e non indica l’incompletezza del Padre? La fenditura sparirà, senza lasciare alcuna cicatrice, o si tratta piuttosto di una Spaltung, di una scissione che spiega, almeno in una certa misura, perché agli dèi greci si adatti il linguaggio della finitudine? Atena è l’inguaribile ferita di Zeus; egli sarebbe stato onnipotente solo se avesse potuto conservarla dentro di sé.

Prescindendo da un’ambiguità che potrebbe essere soprattutto il risultato della nostra interpretazione, c’è qualcosa che il mito ci mostra – che non lo dichiari, e si limiti a mostrarlo, rinvia alla dimensione della densità, e non della vaghezza: il regno della giustizia, il regno di Themis e di Dike, viene preceduto da quello di Metis. In qualche modo la strategia è il ‘fondamento’ della giustizia. Chi è dunque Themis – anche senza voler giocare sul fatto che il suo nome è quasi l’anagramma di Metis? L’oblio, la rimozione, il velamento, l’occultamento della strategia?

Quello che il racconto mitico sembra suggerire, ancora, è che, in seguito all’instaurazione del regno di Themis, il legame tra etica e strategia debba venir spezzato. D’ora in avanti sarà possibile all’etica tenere il proprio discorso in modo arrogante, fondativo, essa potrà aspirare – benché si debba attendere Kant per giungere a questa formulazione – alla propria autonomia.

Diversi autori (tra cui Lacan) distinguono tra etica e morale. Io preferisco distinguere tra l’etica, come dimensione o campo d’indagine (e di esperienza) e l’etico, da intendersi come stile di pensiero: etico, come aggettivo stilistico, significa ‘anti-strategico’. È dal pensiero etico, tanto negli autori antichi quanto nei moderni (per esempio Habermas), che proviene la condanna della strategia definita come razionalità calcolante, empirica, intrinseca alle relazioni tra mezzi e fini. Contro il pensiero etico e le sue rigidità hanno lottato i moralisti, da Montaigne a Nietzsche: a partire da questi pensatori, e dalla psicoanalisi, il nesso tra etica e strategia potrebbe venire ristabilito.

5. Ora siamo in grado di formulare un’ipotesi sulla violenza punitiva. Si tratterebbe di una violenza ‘applicativa’, che scaturisce dall’esercizio della legge chiamata a ristabilire la propria integrità ideale, macchiata, derisa o infranta dal colpevole. Se la legge ha potuto essere fraintesa, prima ancora che violata, è a causa della sua finitudine, della sua incompletezza; nella sua fragilità – le tavole della legge possono in qualunque momento venire spezzate –, essa invoca un difensore, un interprete: qualcuno che colmi le lacune del legislatore, intervenga sulle omissioni, ristabilisca il nesso tra l’universale e il caso singolo.

E tuttavia la legge non può essere completata: sapranno ricordarsene i suoi difensori? All’impossibilità di entrare in essa corrisponde l’impossibilità che la legge entri nel singolo individuo – impossibilità, dunque, di un’interiorizzazione completa. Tra gli uomini e la legge non può esistere intimità: ciò che chiamiamo ‘interiorizzazionÈ è in realtà un’alienazione, un diventare altro, la deformazione di un’identità in divenire. Bisognerebbe rileggere in questa prospettiva la storia dell’interiorità europea, dalla sua nascita alla sua laicizzazionexxvi: il filo che può aiutare a ricostruirla è forse rappresentato da una relazione confusiva, dalla reversibilità tra interiorizzante e interiorizzato. Lo testimoniano i mistici 

“Se l’uomo è nella giustizia, egli è in Dio ed egli è Dio.xxvii

Bisogna notare che il giusto, in quanto tale, riceve tutto il suo essere dalla sola giustizia (totum esse suum accipit a sola iusticia) ed è prole e figlio generato direttamente (proprie) dalla giustizia.xxviii

Questi enunciati descrivono una relazione confusiva e però, si potrebbe osservare, restano su un piano astratto; cioè non dicono nulla quanto alla possibilità che un individuo venga riconosciuto, dagli altri o dalla propria coscienza, come giusto, e non suggeriscono nulla per ciò che concerne la presenza sul piano statistico di uomini che sarebbero identici alla giustizia. È probabile che il delirio di identificazione, che qui traspare, abbia assunto solo raramente la forma che gli è stata conferita da Angelo Silesio:

“Io so che Dio non può vivere neppure un istante senza di me:
se io diventassi nulla, Dio cesserebbe con me
Io sono l’altro io di Dio: soltanto in me
trova chi in eterno gli sarà simile ed eguale.”xxix

In una società secolarizzata le possibilità di un’immedesimazione totale con la divinità tendono a scomparire. Oppure cambiano soltanto forma? Se ripensiamo alla distinzione di Eckhart tra la divinitas, come fondo oscuro, in cui nessuna distinzione è possibile, e Deus, come attività operante, articolante, la cui azione si rinnova attimo per attimo nelle creature, non potremo liberarci facilmente dal dubbio che la morte di Dio, il grande evento indicato da Nietzsche, corrisponda assai più alla scomparsa o alla lontananza di Deus che non della divinitas. Nelle società moderne si è usato sempre di meno il linguaggio religioso per nominare le potenze del confusivo, ma ciò non implica che alcuni attributi dell’entità suprema abbiano rinunciato ad abitare nella psiche di chi è disposto ad accoglierli. La giustizia, la legge, si presentano agli occhi di molti come un pulviscolo normativo, come il risultato di un dibattito ininterrotto, ontologicamente – anche se non retoricamente – sobrio; ma, di nuovo, ciò non significa che nell’applicazione della legge e dell’autorità (paterna, scolastica, statale, ecc.) gli individui abbiano rinunciato a trarre ispirazione dalla divinitas e dal suo fondo oscuro.

Credo sia più interessante cercare nella letteratura, anziché nella cronaca, esempi che appartengono alla quotidianità. Vorrei considerarne due che, nella loro distanza temporale e nella differenza dei contesti, confermano la tenacia di quell’illusione che abbiamo definito come “possibilità di completare la legge”. Il primo è tratto da A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce, il secondo da Libra di DeLillo.

Una lezione di latino: l’insegnante, padre Arnall, si infuria con la classe per la cattiva qualità dei temi svolti; l’allievo Fleming fornisce una risposta errata e viene costretto a inginocchiarsi sul pavimento. Poi l’uscio si apre leggermente e si chiude:

“A quick whisper ran through the class: the prefect of studies. There was an instant of dead silence and then the loud crack of a pandybat on the last desk. Stephen’s heart leapt up in fear.
- Any boys want flogging here, Father Arnall? cried the prefect of studies. Any lazy idle loafers that want flogging in this class?
He came to the middle of the class and saw Fleming on his knees.”xxx

Il ragazzo viene punito: la bacchetta, il pandybat, scende più volte sulle mani di Fleming con un rumore terribile.

“Stephen’s heart was beating and fluttering.
- At your work, all of you! shouted the prefect of the studies. We want no lazy idle loafers here, lazy idle little schemers. At your work, I tell you. Father Dolan will be in to see you every day. Father Dolan will be in tomorrow.
He poked one of the boys in the side with his pandybat, saying:
- You, boy! When will Father Dolan be in again?
- Tomorrow, sir, said Tom Furlong’s voice.
- Tomorrow and tomorrow and tomorrow, said the prefect of the studies”. Make up your minds for that. Every day Father Dolan. Write away…”xxxi

A questo punto il prefetto nota l’atteggiamento di Stephen, il quale non può ubbidire perché ha gli occhiali rotti ; la sua spiegazione tuttavia non è accettata e anche lui viene punito. L’ingiustizia subita e la solidarietà dei compagni spingono Stephen Dedalus a rivolgersi al rettore – e questi gli garantisce che padre Dolan non tornerà per picchiarlo di nuovo. Quando viene comunicata agli altri ragazzi, la decisione del rettore scatena l’entusiasmo. Tuttavia quest’episodio ha una coda: un po’ di tempo dopo Stephen apprende da suo padre che padre Dolan non è stato rimproverato per il suo errore, anzi, il rettore e il prefetto hanno commentato l’episodio con grandi risate; e il signor Dedalus approva.

Dall’immaginazione di Joyce a quella di DeLillo. Durante il servizio militare (in Giappone) Lee Oswald sta scontando un breve periodo di carcere; l’episodio che ora verrà riassunto è un caso di applicatio del regolamento.

“Oswald stood at the white line in front of the urinal. A guard moved alonside, peering in that inquisitive way, like what do we have here to pass the time.
Oswald requested permission to cross the line.
- I’m looking at your hairline, shitbird. What is supposed to be the length of the hair in the area of the nape of the neck?
- Zero length.
- What I do see?
- I don’t know.”xxxii

La guardia insiste nelle sue domande, lo insulta, lo provoca:

“The guard reached around and grabbed him by the nuts.
- I know the type.
- Aye aye sir.
- I spot the type a mile away.
- Aye aye sir.
- The type that can’t stand pain.
- Aye aye sir.
- The sniveling phony marine.xxxiii

Un secondo prigioniero si avvicina alla linea bianca e chiede di oltrepassarla. Il nuovo arrivato sembra attirare su di sé tutta la libido inquisitoria e punitiva della guardia, che lo interroga sul regolamento militare, e punisce le risposte sbagliate mediante colpi di manganello. Le risposte di Oswald invece sono corrette, egli pensa di aver raggiunto una specie di intesa con la guardia, finché quest’ultima, improvvisamente e con sua grande sorpresa, lo colpisce alla clavicola.

“The blow knocked him back three steps and forced him to one knee. HÈd thought he was through getting hit for the day.
There are no right answers, the guard advised, - looking into the distance.xxxiv

Un istante dopo, ancora un colpo di manganello e una nuova enunciazione di principio:

“There are no right answers in this head. It is the stupidest arrogance to give an answer that you think is right.xxxv

Oswald non riesce più a trattenersi e si piscia addosso. La guardia lo colpisce, sempre senza guardarlo (“This was one of the features of the local style”), ma ora i suoi occhi hanno una luce spenta; Oswald teme di venir massacrato di botte. Cerca di mantenere la calma; attende che la guardia esca da quello stato mentale, inquietante ed estatico. I due prigionieri aspettano:

“They had to let the moment cohere, build itself back to something they all recognized as a rainy Wednesday in Japan.
He stood at the white line and waited.xxxvi

La “sindrome di interiorità”, così come si manifesta in questi due episodi, presenta alcune caratteristiche:

  1. un’involontaria caricatura della subtilitas intelligendi. “I know that trick”, so riconoscere il cattivo studente, dice padre Dolan (“I see schemer in your face”); “I know the type”, so riconoscere il soldato codardo, che non sopporta il dolore (“the sniveling phony marine”), dice la guardia.
  2. l’impossibilità di dichiararsi, o dimostrarsi, innocente. L’inchiesta da parte dell’autorità ha un valore puramente retorico-didattico: l’inquisito è già colpevole. Dunque non esiste la minima possibilità, per Stephen, di fornire una giustificazione accettabile della propria mancanza; in maniera ancora più esplicita, la guardia carceraria dice “There are no right answers”, non ci sono risposte giuste – davanti alla Legge.
  3. la sospensione del principium individuationis, l’azzeramento del contesto: l’applicatore della Legge (l’uomo della giustizia, Eckhart) manifesta epifanicamente la forza di cui è la severa incarnazione. Le coordinate spazio-temporali vengono sospese: in tal senso va intesa la minaccia del prefetto (egli tornerà sempre, “tomorrow and tomorrow and tomorrow ... Every day Father Dolan”), e anche la speranza, in Oswald, di un ritorno alla normalità: perché la violenza del carceriere non si scateni, occorre che ognuno si ricordi che quello è semplicemente “a rainy Wednesday, in Japan”. La salvezza sta nell’hic et nunc.

Ciò che va particolarmente rilevato è l’immagine completa della Legge. Essa non può venire né interpellata né interpretata né corretta: non è, come dovrebbe essere, uno strumento di distinzione (tra legale e illegale, tra buono e cattivo). Qui la Legge ha rinunciato al proprio ruolo cognitivo, e si manifesta unicamente come istanza di punizione: coloro ai quali non è stato affidato il compito di applicare la giustizia sono, per definizione, estranei alla Legge, spossessati della sua ‘intimità’. E per finire: in quanto virtualmente già completa e satura prima delle sue applicazioni, la legge trasmette la propria autonomia all’esecutore, i cui gesti acquistano l’arbitrarietà e il misterioso carattere sovrano della divinitas.

6. Se confrontata con l’agghiacciante arbitrarietà della violenza invidiosa, la violenza punitiva appare non priva di una motivazione ‘dichiarabilÈ: essa pretende anzi di sgorgare da una fonte universale e impersonale. Tuttavia, e vi ho già accennato prima, la polisemia della necessità non si esaurisce nella sfera del rigido – anche se la definizione di necessario come “ciò che non può essere altrimenti”xxxvii è apparsa quasi sempre inattaccabile se non addirittura ovvia. La violenza punitiva è una violenza rigida, derivata quasi logicamente da premesse di cui è stata indicata brevemente una via di ricostruzione.

Posso solo mostrare qui una direzione di ricerca che porti a riflettere sulla “necessità flessibile”, nozione che il senso comune e il logos giudicano paradossale, e che diventa analizzabile invece con gli strumenti della razionalità strategica. Nel campo della storia militare troviamo casi di violenza difficilmente classificabili; vorrei commentarne uno, che sembra porsi all’incrocio tra la violenza punitiva, la decisione strategica (in misura, però, alquanto limitata) e una violenza iperbolica, che s’ispira anch’essa alla Necessità, ma in un senso non semplicemente punitivo. Il caso è, lo ripeto, enigmatico, difficile da classificare – esso sprigiona un terribile fascino, non posso fare a meno di confessarlo.

Nella già menzionata History di Edward Gibbon, spostato e relegato in una nota, troviamo questo racconto di punizione, che si riferisce alla spedizione militare di Timur (Tamerlano) in India: “in his camp before Delhi, Timur massacred 100.000 indian prisoners, who had smiled when the army of their countrymen appeared in sight”.xxxviii

Contribuisce in maniera decisiva alla suggestione di questo micro-racconto lo stile di sfondo, come lo chiamerebbe Auerbach: nessun dettaglio macabro o ripugnante, nessuna concretezza, ma soltanto la terribile istantaneità dell’azione – si direbbe che la vita di centomila uomini sia stata troncata da un solo colpo di spada, prima che un immenso velo di sangue occulti la scena. La decisione appare repentina, irriflessa: in quanto punizione, essa è così sproporzionata da sembrare gratuita, e tuttavia scaturisce inesorabilmente dalla forza vitale di un individuo, che esprime violenza con la stessa necessità con cui un albero produce fiori e frutti.

La persona che la scatena non è un applicatore, un esecutore; è un capo, dotato di immensa forza carismatica. Non sarebbe onesto, almeno per quanto mi riguarda, negare la suggestione di questo racconto: la mia coscienza morale mi impone tuttavia di provare a rendere conto di tale suggestione – esiste un altro modo di esorcizzarla, senza allontanare lo sguardo?

Viene in mente la distinzione nietzscheana tra forze attive e reattive: se sgorgasse dalle forze attive – da una prevalenza delle forze attive, perché le forze si danno solo e costantemente in una miscela –, la violenza sarebbe giustificata? Ma quale tipo di violenza potrebbe venir prodotto dalle forze attive? Certamente non la violenza invidiosa, il cui carattere reattivo è trasparente; nemmeno la violenza punitiva, che solo illusoriamente crede di sottrarsi alla ‘reazionÈ, lasciandosi risucchiare da un principio superiore e incondizionato. Una violenza pura, innocente? Forse questo è un sogno che molti uomini hanno inseguito: la violenza come espressione della vita, della forza vitale. Di quest’idea non conosco però altro che versioni ideologiche (biologistiche, energetistiche).

Pura, ideologicamente immacolata, potrebbe essere solo una violenza che derivasse quasi esclusivamente dall’Es. Ma è possibile che ciò accada? Questo tipo di violenza avrebbe i caratteri della furia, e della festa – ciò conseguirebbe logicamente dalla sospensione dei vincoli dell’Io e dell’Ideale dell’Io.xxxix Sembra che esempi del genere siano effettivamente riscontrabili.

La definizione amok viene dal malese e in origine significa “dare il massimo in battaglia”. Non deriva dunque dal vocabolario del crimine, ma da quello della guerra e ha una tradizione antichissima. “Vittoria o morte” era il suo motto. I guerrieri malesi amok appartenevano a un’élite segreta. Erano addestrati a lanciarsi nelle file nemiche sprezzanti del pericolo. Questo metodo di combattimento non conosceva cautela o prudenza alcuna, né calcolo tattico. Pertanto non di rado si traduceva in un suicidio collettivo. Ma pochi di questi commando riuscivano a gettare nel panico interi eserciti. O per fedeltà a un principe o per fervore religioso, i guerrieri amok caduti in battaglia erano considerati eroi e prediletti dagli dèi. L’immolazione della propria vita su una montagna di nemici, uccisi con le proprie mani: questo era il massimo grado dell’onore di un guerriero, una concezione che l’amok malese ha in comune con tutti i combattenti dei campi di battaglia storici, con gli eroi greci di Troia, ma anche con i berseker di Odino, le guardie del capo dei vichinghi, vestite di pelle di orso.xl

Non bisogna confondere questa furia guerriera, che si esprime contro avversari armati, con i moderni impeti di follia riportati dalle cronache, con la volgarità omicida di uomini che sparano sulla folla mietendo vittime inermi. Quest’ultima forma di violenza, odiosa e vile, suscita ripugnanza. Nella violenza dell’amok, che non può non evocare le azioni di guerra dell’Iliade, e gli eroi che molti di noi hanno imparato ad amare, emerge peraltro una violenza non-strategica, la cui possibilità di redenzione va individuata nel coraggio, spinto fino al sacrificio (nessuna ideologia può annullare il fascino degli eroi di Omero).

Una violenza non odiosa, non ripugnante, è dunque possibile? È ancora storicamente possibile? O le guerre giuste sono ormai soltanto quelle che una società tecnologicamente più evoluta può condurre contro tiranni feroci (da Saddam Hussein a Milosevic, ecc), guerre dove la sproporzione delle armi rende anacronistica l’immagine del duello, e dell’azione eroica? Bellum = duellum era la formula su cui rifletteva Nietzsche.xli

Formula ‘originaria’, che andrebbe comunque riportata al suo contesto; Nietzsche la discute nella Genalogia della morale; il discorso potrebbe riprendere da qui, dalla genealogia dell’etico e dello strategico, contro quella dell’originario e del derivato.

Note

i. Cfr. Giorgio Colli, La sapienza greca, Vol. 3, Milano: Adelphi, 1980, p. 35. La traduzione è stata leggermente modificata.

2. Marcel Detienne et Jean-Pierre Vernant, Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs (1974), trad. it. di Andrea Giardina, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Roma-Bari: Laterza, 1978.

iii. Friedrich W. Nietzsche, Götzendämmerung (1888), trad. it. di Ferruccio Masini, Crepuscolo degli idoli, ovvero, come si filosofa col martello, Milano: Adelphi, 1986, p. 70.

iv. Martin Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935), trad. it. di Giuseppe Masi, Introduzione alla metafisica, Milano: Mursia, 1972, p. 72.

v. Un pensiero soggettuale, e non soggettivo.

vi. Wolfgang Sofsky, Traktat über die Gewalt, Frankfurt am Main: S. Fischer, 1996, trad. it. di Barbara Trapani e Luca Lamberti, Saggio sulla violenza, Torino: Einaudi, 2001, p. 47. L’edizione italiana raccoglie una serie di brevi saggi pubblicati tra il 1999 e il 2000.

vii. Ivi, p. 188.

viii. Ivi, p. 45.

ix. René Girard, La violence et le sacré (1972), trad. it. di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, La violenza e il sacro, Milano: Adelphi, 1980, p. 50.

x. Ibidem.

xi. Ibidem.

xii. Mi permetto di rinviare a “Il contagio delle somiglianze. Follia e violenza nel teatro greco”, in Giovanni Bottiroli, JacquesLacan. Arte linguaggio desiderio, Bergamo: Bergamo University Press, 2002, pp. 157-83.

xiii. René Girard, op. cit., p. 30.

xiv. Silvano Petrosino, Visione e desiderio, Milano: Jaca Book, 1992.

xv. Ciò che conta non è tanto l’oggetto (della rivalità), quanto il confronto con l’altro.

xvi. Jacques Lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), prima edizione a cura di Jacques-Alain Miller, 1973; trad. it. di Sciana Loaldi e Irene Molina, Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Torino: Einaudi, 1979, p. 117.

xvii. Silvano Petrosino, op. cit., p. 116.

xviii. Edward Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire (1776-88), trad. it. di Pietro Angarano e di Celso Balducci, Decadenza e caduta dell’impero romano, Vol. 4, Roma: Newton Compton, 1973, p. 74 (cap. 39).

xix. Cfr. ancora Jacques Lacan, op. cit., p. 117.

xx. L’anglaise et le duc / La nobildonna e il duca (dir. Eric Rohmer, C.ie Eric Rohmer / Pathé Image, Fra 2001, con Lucy Russell, Jean-Claude Dreyfus, Léonard Cobiant, dal libro Journal of My Life During the French Revolution di Grace Elliott).

xxi. Non si può attribuire a tutte le mutilazioni il medesimo significato. Resta comunque insoddisfacente e generica la spiegazione di Françoise Héritier, secondo cui le mutilazioni mirano a rendere inerti, impotenti, a ridurre allo stato di vegetali immobili, coloro che si temono come nemici. Cfr. Françoise Héritier, De la violence. Seminaire deFrançoise Héritier, Paris: O. Jacob, 1996).

xxii. Rinvio a Hans G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), trad. it. di Gianni Vattimo, Verità e metodo, Milano: Bompiani, 1983.

xxiii. “Anche dal canto nostro eravamo arrivati alla convinzione che l’applicazione non è una parte accidentale e secondaria del fenomeno del comprendere, ma lo costituisce invece nella sua stessa essenza fin dall’inizio” (Ivi, p. 376).

xxiv. Ivi, p. 371.

xxv. Esiodo, Teogonia, trad. it. di Graziano Arrighetti, Milano: Rizzoli, 1984, vv. 886-903. La traduzione è stata leggermente modificata per renderla più scorrevole.

xxvi. È importante osservare come la psicoanalisi rappresenti un fondamentale momento di rottura con l’idea di “interiorità”. Già nel 1923 un critico di grande intelligenza come Jacques Rivière aveva rilevato che “Proust e Freud inaugurano un nuovo modo di interrogare la coscienza. Rompono con le indicazioni del senso intimo; non vogliono più restargli in parallelo: attendono, spiano, invece dei sentimenti, i loro effetti; non vogliono capirli se non attraverso i loro segni. L’uomo interiore è qui, per la prima volta, trattato come un corpo” (cfr. Jacques Rivière, “Marcel Proust et l’esprit positiv”, trad. it. in Proust e Freud, Parma:Pratiche, 1985, p. 161.

xxvii. Meister Eckhart, Sermone sull’uomo giusto.

xxviii. Meister Eckhart, In Sapientia, III, trad. it. di Giuseppe Faggin, in La nascita eterna, Firenze: Sansoni, 1953, p. 153.

xxix. “Ich weiss ohne mich Gott nicht ein Nu kann leben, / Werd’ich zu nicht Er muss von Noth den Geist aufgeben” (I, 8). “Ich bin Gotts ander-Er, in mir findt Er allein, / Was Ihm in Ewigkeit wird gleich und ähnlich sein” (I, 278) (Angelus Silesius, Geistreiche Sinnund Schlussreime, 1657; trad. it. a cura di Luciano Parinetto, Mimesis, Milano 1993, pp. 66-67 e 90-91). La traduzione è stata leggermente modificata. .

xxx. “Un rapido bisbiglio corse per la classe: il prefetto agli studi. Ci fu un istante di silenzio mortale e poi il secco scoppio di una bacchetta sull’ultimo banco. Il cuore di Stephen balzò dalla paura.

- Nessun ragazzo che ha bisogno di essere picchiato qui, padre Arnall?, gridò il prefetto agli studi - Nessun pigro fannullone che ha bisogno di essere picchiato in questa classe?

Venne nel mezzo della classe e vide Fleming in ginocchio” (James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man (1916), trad. it. di Cesare Pavese, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, Milano: Mondadori, 1970, p. 96.

xxxi. “Il cuore di Stephen batteva e tremava.

- Al lavoro, voialtri!, urlò il prefetto agli studi - Non sappiamo che farcene qui di fannulloni oziosi, di piccoli macchinatori. Al lavoro, vi dico. Padre Dolan sarà qui a vedervi tutti i giorni. Padre Dolan sarà qui domani.

Piantò nel fianco di uno dei ragazzi la bacchetta, dicendo:

- Tu! quando sarà qui di nuovo padre Dolan?

- Domani, signore, disse la voce di Tom Furlong.

- Domani, posdomani e doman l’altro, disse il prefetto agli studi - Cacciatevelo in testa. Tutti i giorni padre Dolan. Scrivete adesso ...”, Ivi, p. 97.

xxxii. “Oswald si mise in piedi di fronte all’orinatoio, dietro la linea bianca. Una guardia gli passò vicino, scrutando in un modo inquisitivo che sembrava dire: cosa abbiamo qui per passare il tempo.

Oswald chiese il permesso di oltrepassare la linea.

- Sto guardando i tuoi capelli, stronzetto. Quale dovrebbe essere la lunghezza dei capelli sulla nuca?

- Lunghezza zero.

- E io che cosa vedo?

- Non lo so”, Don DeLillo, Libra (1988), trad. it. di Agnese Micheluzzi e Carmen Micillo, Libra, Napoli: Pironti, 1989, p. 127.

xxxiii. “La guardia allungò la mano e gli afferrò i testicoli.

- Conosco il tipo.

- Signorsì, signore.

- Riconosco il tipo lontano un miglio.

- Signorsì, signore.

- Il tipo che non sopporta il dolore.

- Signorsì, signore.

- Il finto Marine piagnucoloso”, Ivi, p. 128.

xxxiv. “Il colpo lo fece indietreggiare di tre passi, costringendolo a piegarsi su un ginocchio. Aveva pensato che per quel giorno non sarebbe stato più picchiato.

- Non ci sono risposte giuste, li informò la guardia, lo sguardo lontano” (Ivi, p. 130).

xxxv. “- Non ci sono risposte giuste in questa latrina. E l’arroganza più stupida è dare una risposta che si ritiene giusta”, Ibidem.

xxxvi. “Dovevano lasciare che la situazione ridiventasse coerente, che si ricostituisse in qualcosa che tutti avrebbero riconosciuto come un mercoledì piovoso in Giappone.

Si fermò dietro la linea bianca e aspettò”, Ivi, p. 131.

xxxvii. Aristotele, Metafisica, V, 5, 1014b 34.

xxxviii. “Nel suo campo davanti a Delhi, Timur massacrò centomila prigionieri indiani, che avevano sorriso, nel veder apparire l’esercito dei loro compatrioti” (Edward Gibbon, op. cit., Vol. 3, p. 334; cap. 34, nota 25).

xxxix. Per quanto riguarda il concetto di “festa” in Freud, si rinvia a Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), trad. it. di Emilio A. Panaitescu, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, Vol. 9, Torino: Bollati Boringhieri, 1978 (in particolare il cap. 11, p. 318).

xl. Wolfgang Sofsky, Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, Torino: Einaudi, 2001, pp. 41-42.

xli. Friedrich W. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), trad. it. di Ferruccio Masini, Genalogia della morale, in Opere, Vol. 6, tomo II, Milano: Adelphi, 1976, p. 229.