Un'introduzione all'Eterno ritorno dell'eguale
Per amore della necessità flessibile
1. “Tutto ciò che è profondo ama la maschera” 1. È davvero poco verosimile che “il più abissale dei pensieri” non si presenti mascherato, o velato – mi sembra opportuno indagare la semantica della “maschera” collocandola in un insieme di somiglianze, di oggetti sufficientemente simili e sufficientemente diversi. Che cos’è una maschera? Un oggetto rigido, che nasconde un volto? Un’apparenza che può essere tolta? Oppure – in una prospettiva seriale e metonimica – un elemento che conferisce il proprio stesso carattere a ciò di cui dovrebbe essere lo schermo? Non vi sarebbe dunque un volto, o comunque l’eventualità di scoprire un volto, una verità nascosta, oltre la serie delle maschere?
Quest’alternativa pretende di esaurire le possibilità di indagine. Il rapporto tra il volto e la maschera corrisponde evidentemente al rapporto tra essenza e apparenza, e a quello tra “mondo vero” e “favola”. Diventa decisivo allora riflettere sul rapporto, prima ancora che sui termini chiamati a riempirlo.
Pensare alla maschera come se fosse un velo ci offre un primo vantaggio: un velo non è un oggetto rigido, dunque il tratto semantico /rigidità/ viene subito allontanato. Il velo può aderire, incollarsi a ciò rispetto a cui si interpone, e delinearne una figura quasi esatta, ma può limitarsi a fluttuare, come una cortina impenetrabile. Inoltre, la nozione di “velo” non può non richiamare immediatamente le posizioni di Heidegger e di Lacan: la dialettica2 di velamento e svelamento è ben nota; forse meno nota ai filosofi è la riflessione lacaniana sul velo, che vorrei utilizzare come punto di partenza.
Sono costretto a riassumere qui, e a presupporre, i risultati di una mia precedente riflessione 3. Richiamandosi alla sfida tra Zeusi e Parrasio 4, Lacan descrive il velo come un oggetto dall’identità flessibile, che può funzionare come un elemento separativo ma anche (e soprattutto) come una frontiera congiuntiva, inscindibilmente unito al nulla di cui è la maschera: nell’analisi lacaniana non si tratta solo di Zeusi che viene ingannato da Parrasio, bensì dell’occhio che viene ingannato dallo sguardo. Questo microracconto allegorizza la scissione modale. Oltre che come oggetto flessibile, il velo si mostra come un oggetto diviso.
Proverò dunque ad avvicinarmi al più abissale dei pensieri, e in particolare alla versione narrativa e allegorica formulata in “La visione e l’enigma”, utilizzando una logica flessibile e scissionale. Nel momento in cui definisco Vom Gesicht und Räthsel un’allegoria non intendo evidentemente far ricorso alla coppia “sensibile/intelligibile”: non penso a un contenuto, avvolto o velato da un veste che si potrebbe togliere o sollevare. Non vorrei ripetere l’errore di Zeusi Con il termine allegoria indico piuttosto la densità di un testo, destinato a coloro che preferiscono errathen anziché erschliessen (sono i termini presentati in forma di antitesi da Zarathustra). Tuttavia la difficoltà di tenere a freno l’impulso alla decifrazione non va sottovalutata: “Sarebbe un fraintendimento dello Zarathustra se dall’opera si volesse estrapolare la dottrina dell’eterno ritorno come “teoria”, sia pure in forma di parabole”, dice ad esempio Heidegger 5; insomma, la visione non va tradotta in un contenuto più letterale; non ci sono due versioni, una allegorica e una letterale, dello stesso contenuto; benché consapevole di tutto questo, Heidegger non può fare a meno, ogni tanto, di porre delle equivalenze tra lettera e figura: il nano è lo spirito di gravità (non è lo stesso Nietzsche a dirlo ?) e il serpente nero “è l’aspetto tetro, sempre identico e in fondo senza fine e senza senso del nichilismo, è il nichilismo stesso” (N, 367).
Ci troviamo di fronte a una difficoltà non facilmente sormontabile: dobbiamo imparare a tradurre senza tradurre, a interpretare senza cedere alla tentazione di decifrare o parafrasare; e nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che è inevitabile appoggiarsi, almeno parzialmente e provvisoriamente, a meccanismi di semplice decodifica. Potremo superare questa difficoltà solo a condizione di far riferimento a una teoria del linguaggio abbastanza potente da contrastare ogni gesto di riduzione. Ma dovremo anche far riferimento a una teoria delle modalità che ci permetta di non lasciarci paralizzare dalla “rappresentazioni correnti” – filosoficamente correnti - della possibilità e della necessità; e ad una teoria del tempo che ci indichi una via d’uscita rispetto all’alternativa tra linearità e circolarità – perché l’ipotesi ciclica, nella versione antica o in quella “scientifica” moderna, va comunque abbandonata. Abbandonata, lasciata cadere o meglio ancora lasciata perdere: l’immagine circolare del tempo è destinata ad appagare l’occhio, a distrarlo, mentre ciò che occorre saper cogliere è la schisi, la scissione – e non solo quella tra l’occhio e lo sguardo.
Nelle poche pagine che seguono, cercherò di mostrare la fecondità dell’intreccio tra una teoria del linguaggio, una teoria delle modalità e una teoria del tempo. Inizierò con le categorie modali, e con la loro polisemia, che la tradizione filosofica non ha saputo riconoscere se non in misura del tutto insufficiente. Indicherò il possibile, il reale (cioè l’effettuale) e il necessario con l’espressione modalità classiche. Perché la loro polisemia non è stata riconosciuta? O meglio, in che senso è stata non riconosciuta?
Non sto dimenticando per esempio la distinzione, introdotta da Aristotele e poi ripresa molte volte, sia pure con variazioni, tra una necessità logica, formale o assoluta (connessione tra concetti) e una necessità materiale o ipotetica (connessione causale). Mi sembra però che una distinzione di questo genere sia – e non sto giocando con le parole - una distinzione di genere, e non di stile 6. In altre parole: sia nel primo che nel secondo tipo, la necessità appartiene a un medesimo stile di pensiero, cioè a un pensiero rigido. Naturalmente possiamo ammettere differenze di grado all’interno della necessità che Kant chiama materiale: un cavallo è necessario per un viaggio in misura minore di quanto il cibo sia necessario alla vita. Ma il significato fondamentale della necessità resta invariato: necessario è ciò che non può essere altrimenti.
L’univocità del necessario viene infranta solo se entra in relazione con la pluralità degli stili di pensiero: accanto alla necessità rigida, attestata da una lunga tradizione, bisogna ammettere allora una necessità flessibile. Il filosofo che più di ogni altro ci costringe a ripensare la dimensione del necessario, e a connettere la necessità con la flessibilità, è Nietzsche.
2. L’originalità della posizione di Nietzsche è confermata dal fatto che, quando la rigidità del necessario diventa fonte di insoddisfazione, i filosofi preferiscono abbandonare il terreno della necessità e ripiegare su quello della possibilità. Per esempio, la riduzione della necessità logica alla “condizione di immunità” accordata a certe proposizioni, in base al ruolo centrale che occupano in un sistema, questa riduzione, proposta da Quine, equivale all’abbandono della nozione di “necessario”: con la preferenza quasi obbligata per alcune proposizioni ci si sposta sul terreno del possibile.
La nozione di necessità flessibile – nozione paradossale e ancora tutta da elaborare in termini di esplicitezza e di piena consapevolezza – non deriva da un indebolimento della necessità, e dall’adozione della logica del quasi; i pensatori creativi non si limitano ad attenuare la perentorietà delle nozioni tradizionali o a compiere una prudente ritirata là dove un’aporia non può venir sciolta mediante lo stile di pensiero canonico. È del tutto plausibile, peraltro, che la loro pratica teorica non sia accompagnata immediatamente da una formulazione linguistica adeguata alle formidabili novità che essi mettono in moto. Dobbiamo quindi imparare a riconoscere i luoghi in cui Nietzsche ha iniziato a elaborare un nuovo concetto di necessità, o di destino.
Le direzioni di ricerca più promettenti sono tre:
- la distinzione tra regole e leggi (una regola include l’eccezione, una legge la esclude oppure, se deve ammetterla, risulta falsificata);
- l’identità personale;
- la necessità estetica, ciò a cui Proust fa riferimento nell’espressione “gli anelli necessari dello stile”.
È chiaro che ciascuna di queste tre direzioni esigerebbe un grande lavoro di analisi; qui mi limiterò a una breve ricognizione. In relazione al problema dell’eterno ritorno, sembra più opportuno concentrarsi inizialmente sul problema dell’identità personale, ma certamente non possiamo eludere una domanda più ampia: che cosa irrigidisce la necessità? E in che modo si potrebbe espellere il tratto /rigidità/ o /non poter essere altrimenti/ dal concetto di necessario?
La difficoltà di rispondere a queste domande sembra venir ingigantita da una probabile obiezione di carattere generale: come si può conciliare in Nietzsche il pensiero della necessità con la celebrazione del caso? Queste due nozioni non sono forse incompatibili?
C’è almeno un passo dello Zarathustra che sembra confermare quest’obiezione:
“Per accidente (Von Ohngehähr) – è questa la nobiltà più antica, che io ho restituita a tutte le cose, liberandole dalla servitù della finalità (unter dem Zwecke)”.
Il caso si oppone alla necessità: come rifiutare un’opposizione così evidente? Se le cose danzano sui piedi del caso, sembra davvero difficile aggiogarle alla ruota di Ananke. Io vorrei però formulare un’altra ipotesi: perché non dovremmo pensare che il caso si oppone non alla necessità bensì alla finalità? Più esattamente: il caso si oppone alla necessità finalistica, teleologica, alla necessità in quanto subordinata a uno scopo. Troviamo così anche una risposta alla domanda precedente: che cosa irrigidisce la necessità? Ebbene, la relazione a un telos 7.
E ancora: perché dobbiamo continuare a pensare – dogmaticamente – che tra il caso e la necessità esista una sola possibile relazione, quella di contraddittorietà? I contraddittori si escludono reciprocamente senza possibilità di mediazione; la nozione di “quasi necessità” appare come un tentativo di far scivolare il rapporto “caso / necessità” sul terreno dei contrari; ma, come si è detto, questa impostazione non convince perché non è abbastanza creativa. Resta però un’altra possibilità: pensare a un rapporto tra correlativi, tra opposti che si presuppongono reciprocamente. Si presuppongono, e si includono.
Le cose danzano sui piedi del caso: ciò non esclude la necessità, ma solo la necessità teleologica. Invece una necessità che opera “inizialmente”, come forza o spinta, e non come fine o meta; una necessità plurale, perché non vincolata a un scopo globale: non è forse questa la necessità flessibile?
Introducendo la pluralità nell’idea di necessario, si sono create le condizioni per l’espulsione del rigido: abbiamo restituito alle cose la loro antica nobiltà, un destino individuale. Ma questa espressione è ancora troppo ambigua: finché non si pluralizza anche l’idea di “individuo”, si continuerà a parlare di destino in una prospettiva di determinismo rigido.
Naturalmente non ci possono essere dubbi per quanto riguarda la frantumazione del soggetto unario, e indiviso, nella filosofia di Nietzsche. Ma a questo punto si presenta un altro ostacolo, o forse dovrei dire un altro equivoco, cioè la riduzione della pluralità a molteplicità. Una riduzione auspicata e operata da Deleuze, e da cui deriva una semplificazione inaccettabile. Il pensiero del molteplice, della differenza-ripetizione, non sa più vedere il conflitto. Cercherò ora di mostrare come il conflitto e la scissione siano fondamentali per una comprensione dell’eterno ritorno dell’eguale. Troverò un sostegno – in diversi punti, non sempre – nella lettura di Heidegger.
3. Il corso universitario del 1937, “L’eterno ritorno dell’eguale”, contiene le indicazioni più corrette e più stimolanti per chi intende trovare una via d’accesso al più abissale dei pensieri. Proverò a sintetizzare la lettura heideggeriana in alcune tesi, che mi sembrano sostanzialmente condivisibili:
- non si può comprendere il “che cosa” della dottrina dell’eterno ritorno trascurando il “come”. Questa è una tesi che Heidegger ribadisce innumerevoli volte 8, e che vorrei riprendere mettendo l’accento sullo stile – sia sulla forma della comunicazione nietzscheana, in Così parlò Zarathustra, e dunque sulla scelta di un linguaggio “figurale”, sia sulle differenze tra stili di pensiero;
- per accedere al pensiero di Nietzsche bisogna saper riconoscere, e allontanare, la “fallacia dell’effettualità”: le categorie modali, nel cui orizzonte si manifesta la dottrina del ritorno, sono il possibile e il necessario. Da ciò deriva il ridimensionamento della “dimostrazione” nietzscheana, che non è comunque una dimostrazione naturalistica (N, 311-314), che non si colloca nello spazio epistemologico delle scienze naturali, che, insomma – nel linguaggio modale della mia riflessione – non appartiene alla miscela dell’effettuale. Dall’interesse di Nietzsche per le scienze naturali, e per una possibile dimostrazione “naturalistica”, si può inferire la volontà di sottrarre la natura all’interpretazione scientifica, come interpretazione “fattuale” o quantitativa, e non una rivalutazione della bêtise positivista. Si consideri inoltre che, in molti contesti, il termine natura non ha nulla a che vedere con l’ordine o il disordine naturale delle cose. Quando aspira a “diventare natura” 9, Nietzsche – o meglio, il soggetto nietzscheano – manifesta il desiderio di sciogliersi solo, e unicamente, nelle proprie possibilità necessarie.
Meno condivisibile è la linea argomentativa sviluppata da Heidegger per quanto concerne il rapporto tra scienza e filosofia. Può darsi che a una scienza in quanto tale rimangano inaccessibili i propri concetti fondamentali, ma ciò non implica che “una scienza è scientifica, cioè è sapere genuino che va oltre una mera tecnica, solo in quanto è filosofica” (N, 312). E non è del tutto vero quello che scrive Heidegger, che la logica della filosofia è completamente diversa da quella della scienza (N, 315), perché le filosofie dominate dalla fallacia dell’effettualità, le filosofie che si propongono di esaminare solo “ciò che è”, presentano (o possono presentare) una forte affinità stilistica con le scienze naturali. La differenza decisiva non è tra scienza e filosofia, ma tra stile separativo (scientifico o filosofico) e altri stili; - nel pensiero dell’eterno ritorno, dice Heidegger, “il tragico diventa il carattere fondamentale dell’ente” (N, 236). Questa impostazione conduce a riconoscere l’importanza del conflitto, e di un linguaggio capace di accoglierlo. “Tutte le cose ti bramano … Tutte le cose vogliono farti da medico!”, dicono gli animali a Zarathustra, convalescente. Commenta Heidegger: “Gli animali parlano a Zarathustra della sua nuova conoscenza (cioè del pensiero dell’eterno ritorno) con parole suadenti che sono per lui una lusinga a inebriarsene e basta. Ma Zarathustra sa che in verità queste parole e questi suoni sono “arcobaleni e parvenze di ponti tra cose eternamente divise (sind nicht Worte und Töne Regenbogen und Schein-Brücken zwischen Ewig-Geschiedenem ?) ” (N, 259) ;
- il “che cosa” della dottrina nietzscheana non può venire staccato dalla “forma” in cui si esprime, ma neanche dalla figura dell’enunciatore: “dobbiamo attenerci allo stile dell’opera, capire tutto in base a ciò che accade e a come accade. Dobbiamo altresì comprendere la dottrina, così come viene insegnata, tenendo presente chi è Zarathustra e com’è colui che la insegna e come la dottrina determina colui che insegna” (N, 256). Il pensiero e la prospettiva in cui esso viene articolato non sono separabili; dobbiamo chiederci chi è Zaratustra, ma per sapere chi è Zarathustra abbiamo bisogno di una teoria dell’identità.
A questo punto possiamo tentare di leggere il testo decisivo, “La visione e l’enigma”, consapevoli che esso non ci trasmette un messaggio o un’idea, che non va tradotto in un contenuto più letterale, bensì in un insieme di strumenti. La visione introduce la necessità di nuove teorie – per analizzare il linguaggio, le modalità, l’identità, il tempo. Così, nel corso di questo o altri tentativi sarà legittimo formulare domande del tipo: chi è il pastore? oppure: chi è Zarathustra? Ma queste domande andranno sempre intese in un senso ampio, e riferite alle nuove categorie.
4. “Das Gesicht und das Räthsel” costituisce la seconda comunicazione sull’eterno ritorno dell’eguale. Questa comunicazione è enigmatica, cioè velata. Ma il velo non è – quando è un oggetto modale – qualcosa da sollevare (si ricordi l’inganno in cui cade il pittore Zeusi); quando è velata, o in quanto è velata, la verità non giace nuda oltre il velo. Se la verità, come dice Heidegger, è la cosa più velata (N, 245), ciò accade perché essa coincide con il processo del proprio svelamento (è il paradosso dell’a-letheia). A questo processo in cui la verità si svela in quanto è essenzialmente velata si può dare un nome che ci riporta verso il campo della semantica: densità.
Un testo denso non nasconde nulla: tutto è visibile nelle sue superfici. Invisibili, o inaccessibili, restano però tutti gli elementi o i rapporti che appartengono a una logica diversa da quella utilizzata dall’indagine. Si noti che non sto proponendo una banale immagine mimetica della conoscenza; in effetti, è l’appartenenza a una logica (cioè a uno stile di pensiero) a determinare l’identità di un oggetto anche dal punto di vista del semplice riflesso mimetico, o se si preferisce dell’adaequatio. Non è l’oggetto in sé che resta invisibile, direbbe Lacan (indubbiamente la polizia ha visto la lettera abbandonata nel portacarte del ministro D., però non l’ha riconosciuta), ma l’oggetto in quanto manca al suo posto. In questo statuto paradossale bisogna individuare le condizioni della sua inafferrabilità.
Che cosa “manca al suo posto” nella visione di Zarathustra? In quale oggetto, o in quale elemento, possiamo riconoscere una mancanza che non è una “mancanza di” 10, non una mancanza cosale (che aspira al proprio riempimento) bensì una mancanza di ordine modale, cioè una divisione? Infatti gli oggetti che mancano al loro posto obbediscono alla logica del diviso.
Questo elemento è un’immagine – non stiamo considerando uno stato di cose bensì una visione. A questa visione, peraltro, così come ai sogni e ad ogni immagine privata, possiamo accedere solo tramite un resoconto narrativo o descrittivo; ma qui gli spettatori della visione sono due, benché uno di essi sia in realtà incluso nello sguardo dell’altro: oltre a Zarathustra vi è il nano, che lo stesso Zarathustra ha portato in alto, percorrendo un pietroso sentiero di montagna, ed è al nano che il maestro dell’eterno ritorno offre, prima di fargli delle domande, la propria descrizione:
“Guarda questa porta carraia, nano” continuai: “Essa ha due fronti (der hat zwei Gesichter). Due strade si congiungono qui (Zwei Wege kommen hier zusammen): nessuno finora le ha percorse fino in fondo.
Questa lunga strada all’indietro: essa dura un’eternità. E quella lunga strada in avanti: quella è un’altra eternità.
Esse si contraddicono, queste strade: cozzano con la testa l’una contro l’altra (Sie widersprechen sich, diese Wege; sie stossen sich gerade vor den Kopf): e qui, sotto questa porta, è il punto in cui esse si congiungono (wo sie zusammen kommen). Il nome della porta sta scritto sopra di essa: “attimo” (Augenblick)”.
Lo spirito di gravità viene adesso sfidato a interpretare l’enigma. La sua risposta (“Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo”) suscita la collera di Zarathustra, e questa reazione aumenta l’enigmaticità del racconto poiché, esprimendo la sua collera, Zarathustra non sembra offrire ragioni di contrasto:
“E non sono tutte le cose così saldamente annodate (fest alle Dinge verknotet) che questo attimo si trae dietro tutte le cose avvenire? Dunque anche se stesso? (…)
E questo ragno lento che striscia nel chiaro di luna, e questo stesso chiaro di luna, e io e tu sotto la porta, che bisbigliamo insieme (zusammen flüsternd) di cose eterne – non dobbiamo tutti essere già esistiti? … non dobbiamo eternamente ritornare?”
Commenta Heidegger: “Sembra che nella sua seconda domanda Zarathustra dica la stessa cosa contenuta nella riposta del nano alla prima domanda: tutto ruota in circolo. Sembra” (N, 251). Così come sembrano concordare con Zarathustra i suoi animali, quando usano parole suadenti, e ripetono – ma il loro è già un ritornello – che “eternamente ruota la ruota dell’essere”. Ma perché la dottrina diventa ritornello? Tra il discorso del nano e gli animali è riscontrabile “una insidiosa somiglianza” (N, 261). La differenza vera è invece quella che divide i loro discorsi, l’uno più borbottante, l’altro più abile e scherzoso, dalla visione di Zarathustra – essi non vedono la stessa cosa! Non vi è tra loro che una sottile differenza, la più piccola crepa, ma : “la crepa più piccola è la più difficile da superare (die kleinste Kluft ist am schwersten zu überbrücken)” 11 (N, 259-260).
L’uso della parola circolo, e comunque la presenza di un’immagine circolare, non deve trarre in inganno: il più abissale dei pensieri produce una differenza abissale tra la versione circolare del ritorno e quella di Zarathustra – in che modo, però, si può pensare all’eterno ritorno lasciando cadere l’immagine del circolo?
Chi si avvicina più di tutti all’enigma (non alla soluzione, ma, come si è detto, qui non siamo di fronte a un enigma da sciogliere o da risolvere) è senza dubbio Heidegger, il quale osserva che al nano e agli animali sfugge completamente “ciò che Zarathustra, assai stranamente dice, cioè che nella porta carraia le due vie “sbattono la testa l’una contro l’altra” (N, 263). In un modello circolare, le due vie, il futuro e il passato, dovrebbe scorrere l’una dietro l’altra.
“Eppure qui vi è uno scontro (Und dennoch ist da ein Zusammenstoss). Naturalmente soltanto per colui che non rimane spettatore, ma è egli stesso l’attimo che agisce entrando già nel futuro, senza lasciar cadere il passato, ma al tempo stesso raccogliendolo e affermandolo. Chi sta nell’attimo è rivolto in una duplice direzione: per lui passato e futuro scorrono in direzioni contrarie l’una all’altra (gegeneinander)” (N, 263).
È implicito in questa interpretazione che ci si debba lasciare alle spalle una volta per tutte l’alternativa tra tempo lineare e tempo circolare 12. Nella visione di Zarathustra il tempo è un tempo diviso.
Il tempo non è né lineare né circolare: è conflittuale. Mi sembra però che Heidegger non sviluppi abbastanza la sua intuizione; preferisce insistere sulla decisione (“Vedere l’attimo significa: starvi. Il nano invece vi si tiene fuori, vi sta accovacciato accanto; N, 263) e sulla logica della co-appartenenza (Zusammengehörigkeit), sia per quanto riguarda il “che cosa” e il “come”, sia, e specialmente, per quanto riguarda la coappartenenza tra le due risposte di Nietzsche relative “all’ente nel suo insieme”: la prima si riferisce alla costituzione dell’ente (die Verfassung des Seienden), la seconda al suo modo d’essere (Weise zu sein) (N, 382 e segg.).
Ritengo che Heidegger avrebbe dovuto spingersi oltre, nella prospettiva modale a cui fornisce comunque uno straordinario contributo.
5. Proverò subito a chiarire come sia possibile spingersi oltre, riprendendo per intero il passo di Heidegger sopra citato: “L’ente ha però al tempo stesso, in quanto costituito in questo o quel modo (als das so und so Verfasste), il suo modo di essere, è in quanto tale o possibile o reale (wirklich) o necessario” (N, 382).
Qui Heidegger si mantiene entro i confini delle modalità classiche. Una dimensione, o meglio ancora una prospettiva, che ho proposto di ampliare introducendo le categorie del rigido e del flessibile, e la distinzione tra i modi del significato, i regimi di senso 13. Si comprenderà facilmente come la riflessione sulle categorie modali, intrecciata con un’analisi linguistico-semantica, possa trovare nel problema del tempo un nuovo territorio in cui espandersi. Il problema del tempo è troppo complesso per venir affrontato con categorie esclusivamente temporali: finché si considera il tempo mediante le suddivisioni tra passato, presente e futuro, e soltanto per mezzo di queste suddivisioni, non si fa un passo avanti. I pensatori che hanno saputo offrire delle novità, da Nietzsche a Bergson ad Heidegger, lo hanno fatto immergendo questo problema nel liquido delle modalità – solo così esso sale davvero in superficie. Per quanto riguarda lo Zarathustra, la veste linguistica (il velo linguistico) svolge un ruolo ulteriore e determinante.
Ma se il tempo del ritorno è un tempo diviso, non dovremmo vedere nella visione (Gesicht) il conflitto tra due visioni ?14 E una “visione divisa” non va forse collocata nella serie degli elementi divisi, cioè degli elementi che mancano al loro posto?
La visione manca al suo posto. Ciò accade, forse, perché in essa lottano due logiche, quella del wider e quella dello zusammen. In effetti, anche questo punto rimane oscuro: due sentieri che si congiungono (kommen hier zusammen) per contraddirsi, per sbattere la testa l’uno contro l’altro (Sie widersprechen sich, diese Wege; sie stossen sich gerade vor den Kopf). Nel linguaggio heideggeriano, abbiamo qui un caso di co-appartenenza: supponendo che passato e futuro si appartengano reciprocamente, esautoriamo lo schema del tempo lineare e separativo. La logica della Zusammengehörigkeit rischia però di soffocare quella del widersprechen e del Kampf; è vero che la lotta tra le due vie non si limita ad una reciproca opposizione, a un’antitesi esterna (torneremmo a uno stile separativo), e che gli opposti devono compenetrarsi, includersi a vicenda; è vero che soltanto a condizione di pensare il passato come futuro, lo si scioglie dalla sua rigidità e si apre la possibilità di una redenzione. Tutto ciò non deve farci perdere di vista la logica scissionale (il Wider dentro lo zusammen).
Proviamo a sfruttare sino in fondo, comunque, le virtualità che nascono dall’ipotesi di una coappartenenza e che contrastano con le rappresentazioni correnti del tempo. La più “corrente” di queste rappresentazioni potrebbe suonare così: “il tempo è il passare di ciò che passa” 15. Questa definizione accentua l’evanescenza del tempo e la sua paradossale persistenza (“Il tempo persiste mentre passa”) 16, ma non sa descrivere ciò che accade nella sua essenza: in effetti il tempo non è semplicemente ciò che passa, ma ciò che passando si irrigidisce. Factum ... fieri infectum non potest, dice un’antica sentenza ripresa da molti autori. Ebbene, è proprio questo il problema discusso nel capitolo “Della redenzione”:
“Il volere libera, ma come si chiama ciò che getta in catene perfino la liberatrice?
‘Così fu’ (Es war): così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua afflizione più solitaria. Impotente verso tutto ciò che è stato fatto – essa è una cattiva spettatrice per ogni passato.
La volontà non può volere all’indietro; che essa non possa spezzare il tempo e l’avidità del tempo – è questa la più solitaria afflizione della volontà (…)
Questa, sì, solo questa è la vendetta stessa: l’avversione della volontà per il tempo e per il suo ‘Così fu’ ” 17.
A meno che la volontà non redima se stessa, mediante un’approvazione a ritroso:
“Ogni ‘Così fu’ è un frammento, un enigma, un’orrenda casualità – finché la volontà creatrice non dica anche: “Ma così io volli!”.
Chi ha insegnato, o può insegnare alla volontà la riconciliazione con il tempo? chiede Zarathustra. La dottrina dell’eterno ritorno si candida a questo ruolo: essa ci invita a volere eternamente, in modo tale da desiderare che questo possa tornare “ancora una volta e ancora innumerevoli volte” 18. Tuttavia l’enfasi della volontà, chiamata a volere eternamente, non sembra una risposta concettualmente adeguata. Che il volere debba caricarsi di un pathos infinito (è anche questo “il peso più grande”), che esso debba imprimere a ogni scelta, a ogni decisione, il sigillo dell’eternità – non c’è qualcosa di ammirevolmente velleitario in questa concezione? Per volere eternamente, non basta il desiderio – esso è alla portata di qualunque uomo, anche dell’ultimo uomo; occorre saper mordere e vincere la grande nausea (Ekel), il disgusto rappresentato dal serpente nero.
Nondimeno, se la visione dell’eterno ritorno è la promessa di nuove teorie, questo slancio emozionale non ci basta. Né può bastare l’appello alla volontà, o alla capacità di sopportazione: “mi domandai una volta, e quasi soffocai alla mia domanda; come, è necessaria per la vita anche la plebaglia?” 19. Nessun eroismo può sostituire l’analisi concettuale.
Dobbiamo cercare una logica oltrepassante rispetto agli stili di pensiero tradizionali. Una logica congiuntiva, in grado di pensare il passato come possibile (solo così esso viene sciolto dalla rigidità) e il futuro come necessario (ma non come rigido!). “Tutto è necessità – così dice la nuova conoscenza; e questa stessa conoscenza è necessità”, scriveva Nietzsche in Umano troppo umano20. Negli anni in cui nasce lo Zarathustra, egli affida ai suoi appunti questa decisione e questa formula: “Sì! Voglio continuare ad amare soltanto ciò che è necessario! Amor fati sia il mio ultimo amore!” 21. Solo ciò che è necessario: ma la necessità si dice in molti modi.
Dunque Amor fati deve voler dire “amore della necessità flessibile”, e non accettazione di ciò che è accaduto come se fosse il prodotto della nostra volontà. Volere a ritroso non è volere ciò che non possiamo più cambiare, bensì: di volere contro il passato.
Quanto all’eterno ritorno, perché esso viene riferito all’eguale? Qui eguale non può avere il medesimo significato che assume nella miscela dell’effettualità, poiché nel tempo diviso dell’eterno ritorno abbiamo la possibilità di accedere alla miscela della possibilità necessaria. Se pensiamo il passato come possibile – che cosa ne consegue logicamente? Che il passato torni eguale significa che il possibile non smette di essere possibile. Il possibile non smette di non accadere22. Così l’effettualità torna ad essere fluida, come può essere solo quando è ancora possibile. Solo se il passato torna come possibile, è possibile che non tornino “mia madre e mia sorella” 23.
Tutto ciò è estremamente enigmatico. Senza dubbio. Ho provato a sviluppare una concettualità che fluttua in una visione – per di più, in una visione instabile, divisa da una fenditura, divisa da se stessa. Non ho cercato di far tornare la visione al suo posto, ma di lasciarla nella sua instabilità.
Ho usato formulazioni rapide? Ciò non dovrebbe essere un’obiezione contro la loro validità: è probabile che l’eterno ritorno sia un pensiero che non può venir indagato una volta per tutte o troppo lentamente.
“con i pensieri profondi mi comporto come con un bagno freddo – presto dentro, presto fuori.
(…) Oh, come rende svelti il gran freddo! Incidentalmente domando: è vero che una cosa è incompresa e ignota per il semplice fatto che viene afferrata a volo, adocchiata a colta in un baleno? Si deve proprio prendere prima di tutto saldo possesso di essa? Averci fatto sopra la cova come su di un uovo? Diu noctuque incubando, come diceva Newton di se stesso? Per lo meno ci sono verità particolarmente timide e sensibili al solletico, di cui non ci si può impadronire se non all’improvviso, verità che si deve cogliere di sorpresa o lasciarle andare …” 24.
Il “che cosa” della verità dipende dal “come”. Ancora una volta il problema dello stile, e il linguaggio dell’agonistica: il medesimo gesto è o non è efficace a seconda della velocità con cui viene eseguito. Chi legge troppo velocemente o troppo lentamente non capisce nulla, diceva Pascal. È assai improbabile che per comprendere il più abissale dei pensieri si possa pensare a qualunque velocità, in qualunque modo.
Note
- Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. it. in Opere, VI, t. II, p. 46.
- L’uso di questo termine può apparire quantomeno provocatorio, se si considera con quanta ostilità il pensiero della differenza (soprattutto nella filosofia francese) si sia opposto al pensiero dialettico. Tuttavia Deleuze non è Heidegger: Deleuze tenta di emarginare il conflitto (polemos), Heidegger lo considera essenziale.
- Mi permetto di rinviare a Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Bergamo 2002 ma anche, per il programma di una “rivoluzione modale”, a Teoria dello stile, Firenze, La nuova Italia, 1997.
- “Dicono che Parrhasios venne a gara con Zeuxis, e mentre questi presentò dell’uva dipinta così al vero che gli uccelli volarono sul quadro, Parrhasios espose una tenda dipinta (linteum pictum) con tanta naturalezza, che Zeuxis, già sicuro della vittoria dopo la prova degli uccelli, chiese alla fine che togliesse via la tela e mostrasse il quadro ; e solo allora, capito l’errore, si confessò vinto, con aperta franchezza, riconoscendo che egli aveva, sì, ingannato gli uccelli, ma che Parrhasios aveva giocato il pittore” (Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 65).
- M. Heidegger, Nietzsche, 1961 (trad. it. Adelphi, Milano 1994, p. 243). D’ora in avanti quest’opera sarà citata in sigla: N, seguita dal numero di pagina della traduzione italiana.
- Si può dire la stessa cosa per tutte le distinzioni di campo: significato logico, metafisico, esistenziale, ecc.
- Non credo che questa spiegazione, la più pertinente in questo contesto, contenga l’unico “fattore di rigidità”; non posso esaminare adesso la subordinazione del necessario rispetto all’universale.
- N, pp. 240,
- Frammenti postumi, autunno 1883, 20 (4), VII, I/2, p. 252.
- La critica di Deleuze e Guattari nei confronti di Lacan nasce da un enorme fraintendimento.
- Così parlò Zarathustra”, “Il convalescente, trad. it. Rizzoli, Milano 1985, p. 245. La traduzione di Sossio Giametta è: “l’abisso più stretto è il più difficile da superare”. Franco Volpi opta per “la crepa più piccola è la più difficile da colmare”. Ho tenuto conto di entrambe le traduzioni, ma ho preferito rendere überbrücken con “superare”.
- Niente di più insulso che rilanciare l’ipotesi circolare come ipotesi scientifica. E in ogni caso il problema che va posto in via preliminare è: le scienze naturali sono in grado di pensare mediante una logica congiuntiva? I paradossi potrebbero svolgere un ruolo importante anche nel campo delle scienze?
- I lettori di “Oltrecorrente” possono trovare una rapida presentazione di quella che chiamo “rivoluzione modale” nel mio articolo Le scissioni dell’alfa privativo. Per una concezione modale della verità, ospitato nel n. 5 (2002).
- Tutto è doppio nello Zarathustra. Non c’è formula che non sia accompagnata da una possibile parodia o da un fraintendimento. Tutto è conflittuale, ma solo potenzialmente, e per il lettore che sappia scorgere anche “le più piccole crepe”.
- M. Heidegger, Was heisst Denken?, 1954, trad. it. I, p. 141.
- Ibid., p. 142.
- Così parlò Zarathustra, cit., “Della redenzione”, p. 163.
- Nietzsche, Lagaia scienza, 1882, af. 341.
- Così parlò Zarathustra, “Della plebaglia”, p. 117.
- Nietzsche, Umano troppo umano, I, 107.
- Frammenti postumi 1881-1882, in Opere, V, 2, fr, 15. (20), p. 457).
- Definizione che, presa alla lettera, sembra riferirsi piuttosto all’impossibile, ma che può valere per la possibilità “proveniente dal passato”. In effetti, l’impossibile andrebbe definito come ciò che non smette di non (poter) accadere.
- “Ma confesso che la più profonda obiezione contro l’eterno ritorno, il mio pensiero propriamente abissale, è sempre mia madre e mia sorella” (Nietzsche, Ecce homo, “Perché sono così saggio”, 3, trad. it. in Opere, vol. VI, t. III, p. 275).
- Nietzsche, La gaia scienza, af. 381.