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L'oggetto del desiderio ha il colore del vuoto

Pubblicato in "Enthymema", 1, 2011. Argomenti presentati nel corso di Teoria della letteratura 2010-2011, presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Bergamo.

The thing has no name
(Joseph Conrad, Lord Jim)

1. Il desiderio si dice in molti modi, ma nei suoi modi più autentici è desiderio di essere. Più autentici non significa ‘più originari’, come si potrebbe credere a partire da un anti-platonismo stereotipato, che le filosofie della differenza sono riuscite a diffondere. Esistono certamente buone ragioni per respingere la distinzione tra l’archetipo e la copia, tra l’origine e il simulacro; però esistono ragioni altrettanto valide per diffidare dell’Uno e del Molteplice, cioè della coppia concettuale che presiede al platonismo e ai suoi rovesciamenti più meccanici e prevedibili (come in Deleuze, per esempio). Più potente, e feconda, di uno/molteplice è l’opposizione tra diviso e indiviso. Qui vorrei offrire una breve introduzione a questa coppia di concetti in relazione ai problemi del desiderio, privilegiando però il versante dell’oggetto.

Per il senso comune, l’attrazione in cui consiste il desiderio può essere descritta così: un soggetto (indiviso) desidera, con intensità variabile, un oggetto (indiviso). Naturalmente, le determinazioni indicate tra parentesi non vengono pensate dal senso comune; che siano implicite, tuttavia, non significa che non risultino essenziali. Rispetto a questo schema, alcune teorie hanno introdotto precisazioni e sviluppi. Non è trascurabile, al di là della faziosità che lo rende spesso irritante, il contributo di Girard: c’è sempre un terzo che presiede al desiderio, vale a dire che il desiderio è sempre mediato da un altro. Non posso che concordare con questa precisazione, che però era stata già introdotta da Lacan con la tesi «il desiderio è desiderio dell’Altro», senza rinunciare alle distinzioni introdotte o rese possibili da Freud – distinzioni che Girard semplicisticamente preferisce ignorare.2 Né è trascurabile lo statuto seriale dell’oggetto del desiderio, a condizione di non ridurlo a molteplicità empirica.

Cercherò adesso di presentare la concezione che ritengo più complessa, e più aperta a ulteriori sviluppi. Per la psicoanalisi di Freud e di Lacan, il problema del desiderio potrebbe venire enunciato schematicamente così: un soggetto diviso desidera, in modo ambivalente, un oggetto diviso. La comprensione e l’elaborazione di questa formula non sono affatto immediate.

 

2. Anzitutto, il soggetto diviso non va inteso soltanto come mereologicamente diviso. È così che molti continuano a leggere Freud, con riferimento alle due topiche: in entrambe, il soggetto sarebbe diviso in parti (o zone, o sistemi), la coscienza, il preconscio e l’inconscio, nella prima topica, l’Es, l’Io e il Super-io nella seconda topica. La vera concezione freudiana dell’identità è invece quella delineata in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, un’opera del 1921: l’identità è identificazione, o meglio è l’insieme dei processi di identificazione. Dunque, la teoria freudiana è relazionale, e non mereologica, anche se Freud non ha accentuato abbastanza questa novità; tant’è vero che un anno dopo, nel 1922, in L’Io e l’Es sembra accontentarsi di una concezione della psiche divisa in parti o sistemi. Con Lacan, la concezione relazionale diventa concezione modale: l’identità di un soggetto è determinata dai registri, che sono modi dell’esperienza. Due di essi, l’Immaginario e il Simbolico, sono anche modi di pensare e modi di guardare. Ciò vuol dire che l’identità è un insieme eterogeneo di modi di identificazione.

Senza nulla togliere all’originalità di Lacan, va osservato che queste distinzioni erano implicite in Freud. Consideriamo i processi di formazione della soggettività: la divisione presiede ad ognuno dei momenti essenziali, e opera permanentemente. La prima divisione è quella dal corpo della madre: staccandosi da essa, l’infans non è che una massa pulsionale, priva di coordinazione e di legge. Questo è comunque il momento di massima ‘indivisione’, cioè di minima articolazione, del soggetto. Articolandosi, l’individuo diventerà dividuum, o soggetto diviso: se esaminiamo questo processo non in rapporto alle pressioni della realtà esterna, come vuole un freudismo scolastico, ma come relazione tra due soggetti che chiameremo idem e alter, potremo constatare una prima differenziazione, quella che Lacan descrive come il passaggio da S ad a, tramite a’. Questo passaggio non va ridotto al processo che cronologicamente avviene per primo, cioè la fase dello specchio. Ciò che emerge qui è il desiderio di essere il simile – e anzitutto il simile che si desidera essere, la propria immagine narcisista. Tutti gli individui che occuperanno la posizione dell’imago narcisista verranno amati, di un medesimo amore. La relazione con la propria immagine perfetta (o Io ideale) corrisponde al registro dell’Immaginario. È qui che si collocano, ad esempio, le eroine romantiche con cui si identifica Emma Bovary.

Dunque l’Io può venire considerato sia come una zona (o un sistema), sia come una relazione. Il punto di vista mereologico non è errato, ma risulta inferiore al punto di vista relazionale.

Con la formazione dell’Io, il soggetto appare articolato in due sistemi, l’Io e l’Es. La formazione di un terzo sistema, l’Ideale dell’Io (o Super-io), implica dei costi psichici che il soggetto può anche non essere disposto ad accettare – e che periodicamente sospende: la festa è per Freud la sospensione temporanea del terzo sistema, che viene generato anch’esso mediante identificazione, ma questa volta non in rapporto all’altro con la minuscola (il simile), bensì in rapporto all’Altro con la maiuscola (il registro del Simbolico). Ripropongo qui la tesi che ho più volte sostenuto, e cioè che il Simbolico non è soltanto il registro della Legge, bensì il registro della complessità intellettuale: quello che ospita la maggior varietà di stili di pensiero. Il Simbolico è la dimensione ‘più divisa’, quella che permette al soggetto di articolarsi nella pienezza delle sue scissioni, cioè nell’intreccio e nel conflitto degli stili.

Nell’Immaginario domina la logica confusiva, nel Simbolico si dà il conflitto tra confusivo, separativo e distintivo. Perciò il soggetto può accedere ai modelli di identità – l’alter del Grande Altro – in modi diversi: confusivamente, come Don Chisciotte in rapporto ad Amadigi di Gaula, o come Jim in rapporto agli eroi dei libri che parlano delle avventure sul mare;3 distintivamente, come Julien Sorel in rapporto a Napoleone. E anche separativamente, quando il processo di identificazione non si svolge nelle modalità della metafora, ma più rigidamente nel modo della sineddoche.4

L’identificazione è un processo congiuntivo. Identificandosi con alter, idem si divide da se stesso – e la sua identità assume il modo della non-coincidenza. Dunque, l’identificazione di un soggetto con un altro soggetto può venire descritta come ‘non-coincidenza con se stesso’ oppure come ‘coincidenza con alter’. Ma rimane essenziale la differenza tra i processi confusivi e quelli distintivi. Nell’identificazione confusiva si profila il rischio di un collasso relazionale: assorbito eccessivamente da alter, il soggetto scivola verso l’indiviso.

 

3. La nozione di identità, così difficile da pensare, richiede diverse distinzioni. Riassumiamo, dal punto di vista filosofico, quelle sin qui introdotte:

a) i modi dell’identità: l’identità come coincidenza con se stesso (idem = idem, A = A: soggetto rigido) e come non-coincidenza con se stesso (idem = alter, A = non-A: soggetto flessibile, almeno virtualmente);

b) i modi della non-coincidenza: la non-coincidenza distintiva, come capacità di metamorfosi, e la non-coincidenza confusiva, che sfocia nella coincidenza con alter – dunque, con un ritorno all’indiviso, nella forma di un’estrema alienazione.

Mi pare di aver iniziato a chiarire la concezione del soggetto diviso. Le divisioni del soggetto non sono un dato, ma il risultato di una serie di processi, nessuno dei quali è irreversibile. Ogni soggetto è dunque caratterizzato dal conflitto tra diviso e indiviso, e molti sono gli esiti possibili di questo conflitto. Qui ne considero alcuni.

 

4. E il Reale? Che ne è del desiderio in rapporto al terzo registro? Ho parlato di identificazioni immaginarie e di identificazioni simboliche, ma esistono anche identificazioni nel reale? Con un’alterità che non è quella del simile, né quella con i modelli presentati dal Grande Altro, ma che è piuttosto un’alterità assoluta? La mia lettura di Lacan insiste sulla pluralità delle versioni di ogni registro. Quanto al Reale, esso può venir pensato in almeno due versioni, che chiamerò noumenica e pulsionale. Inteso noumenicamente, il reale è ciò che si sottrae alla nominazione, prima ancora che alla semantizzazione: è ‘la realtà meno il Simbolico’. Ma il reale è anche la dimensione pulsionale del soggetto.

La teoria delle pulsioni rappresenta una delle principali novità introdotte dalla psicoanalisi. Non che la pulsione (Trieb) sostituisca interamente la nozione di desiderio, però la allarga e la rende meno ovvia; sviluppa il punto di vista quantitativo, ma afferma anzitutto il conflitto tra rigidità e flessibilità. In effetti la pulsione è una forza eminentemente plastica, e al tempo stesso disponibile alla fissazione, cioè all’irrigidimento. Il conflitto tra indiviso e diviso s’intreccia dunque con quello tra rigido e flessibile.

In uno dei saggi che compongono la Metapsicologia, Pulsioni e loro destini, Freud propone uno smontaggio della pulsione in quattro fattori: i più importanti, quelli in cui si manifesta tutta la plasticità pulsionale, sono l’oggetto e la meta. Mi limito a ricordare che la pulsione è una forza imperiosa, che non può mai essere completamente negata e che è suscettibile di trasformazioni, o destini (la sublimazione, ad esempio). L’oggetto è l’elemento più variabile. Ma che cosa si deve intendere con oggetto della pulsione?

Siamo arrivati a una zona di grande complessità, che va indagata e illustrata pazientemente. In primo luogo, possiamo mettere meglio a fuoco la differenza e l’affinità tra pulsione e desiderio. Non sembra sensato parlare di una ‘pulsione di essere’ mentre – e lo si è detto proprio in apertura – il desiderio umano è propriamente desiderio di essere, e non di avere. Il desiderio di essere è il motore delle identificazioni, cioè di quell’esigenza di non-coincidere con se stesso che governa la soggettività umana, nelle sue forme più complesse. Se l’espressione ‘pulsione di essere’ appare sgraziata e stonata, si potrebbe essere meno severi con l’espressione ‘pulsione di non-coincidenza’? Forse sì, a conferma delle affinità tra pulsione e desiderio. Restano però delle differenze, che non è opportuno sopprimere: con la problematica della pulsione Freud offre la possibilità di pensare aspetti del desiderio che non casualmente i filosofi non avevano mai interrogato.

Schematicamente, potremmo dire che sul versante della pulsione diventa più agevole indagare tre aspetti: l’energia, il dirigersi verso oggetti parziali, il lato anonimo del desiderio. Una presentazione degli oggetti parziali richiederebbe evidentemente molto tempo; si ricordi che Lacan ha arricchito l’elenco freudiano (seno, feci, fallo) con altri due oggetti (la voce e lo sguardo). Qui vorrei insistere su un punto essenziale: per comprendere lo statuto teorico dell’oggetto parziale è necessaria una concezione non mereologica della parte. Per esempio, quando funziona come oggetto parziale, il seno non è semplicemente la parte di un corpo, allo stesso titolo delle altre parti: è piuttosto un oggetto ‘non integrabile’ al tutto, misteriosamente congiunto e diviso. È una falla che si apre là dove esso si rivela non-disponibile, pur nella sua debordante presenza. L’oggetto esercita tutta l’attrazione del vuoto. Meglio ancora, esercita l’attrazione di un pieno-vuoto. Dobbiamo chiarire questo paradosso.

 

5. Gli oggetti empirici (o fenomenici) non sono paradossali: per esempio, ognuno degli oggetti che si trova nella stanza in cui sto scrivendo, si trova al suo posto – in un’accezione logica, oltre che spaziale: coincide con se stesso. Senza dubbio non è un oggetto diviso. Anche gli oggetti divisi appartengono, in una certa misura, allo spazio della normale quotidianità: in una certa misura sono enti intramondani, direbbe Heidegger. Tuttavia il loro modo d’essere non si esaurisce nella presenza che un osservatore neutro potrebbe registrare distrattamente o con indifferenza.

Oggetto diviso: ancora una volta, divisomodalmente (e non mereologicamente): ‘tagliato’ dai registri e dai regimi. Lo statuto modale di un ente diviso è descrivibile mediante il conflitto. Dunque le spinte articolatorie che portano alla differenziazione sono contrastate da una pulsione dell’indiviso, o verso l’indiviso. Si potrebbe usare questa espressione per ribattezzare il Todestrieb freudiano.

La pulsione di morte viene definita da Freud come la spinta a ripristinare uno stato di cose precedente: nella sua radicalità, – e qui non posso non riproporre i toni speculativi di Al di là del principio di piacere – essa si dirige verso la coincidenza assoluta. Non la coincidenza separativa, che caratterizza un ente proprietario, in cui cioè sono distinguibili e nominabili delle proprietà, non la coincidenza che prescrive confini agli individui che esistono nella realtà linguisticizzata, ma la coincidenza che abbatte e sopprime ogni articolazione: la tendenza a collassare, a essere niente.

Rileggiamo il passo in cui Freud descrive l’inspiegabile sorgere della vita, la rottura dell’inerzia, e il contromovimento che l’annulla.

 

"In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione misteriosa di una forza che ci è ancora completamente ignota (…) La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato. In quel tempo morire era ancora abbastanza facile, per la sostanza vivente; probabilmente la sua vita aveva ancora un corso assai breve, la cui direzione era determinata dalla struttura chimica della giovane vita. È così possibile che per molto tempo la sostanza vivente fosse continuamente ricreata e morisse facilmente, finché decisive influenze esterne provocarono mutamenti tali da costringere la sostanza sopravvissuta a deviare sempre più dal corso originario della sua vita, e a percorrere strade sempre più tortuose e complicate prima di raggiungere il suo scopo, la morte."5

 

Non è forse una descrizione dell’indiviso? La vita è sorta misteriosamente da ciò che chiameremo lacanianamente la Cosa (das Ding), e poi è ricaduta all’indietro, si è autoannullata. Per una vocazione al rien, al niente.

In quel tempo, nel tempo di quel primo tentativo, essere indivisi era abbastanza facile: la Cosa si opponeva a ogni separazione. Poi avvenne una scissione – in principio avvenne una scissione –, e il soggetto (è il nome che diamo a questo tentativo di divisione) cercò di renderla stabile. Fu allora che la logica disgiuntiva si staccò dalla logica congiuntiva, e tentò di dimenticarla, di sopprimerla. La dichiarò erronea e folle. Una volta articolato, il linguaggio cercò di sopprimere al proprio interno ogni legame che si mostrasse reticente a una possibile dissoluzione.

Se riscriviamo così il passo di Freud, la morte come meta della pulsione appare come una meta ‘logica’: non è soltanto l’inorganico in cui la pulsione di vita ripiomba, il silenzio sterminato della materia. La pulsione di morte è la spinta al collasso di ogni distinzione (tra parti e tra modi; tra sistemi, registri, regimi). Prima di essere lo slancio che porta a distruggere l’alterità dell’altro, è la volontà di distruggere la propria stessa alterità, vale a dire la non-coincidenza con se stessi.

 

 

6. Abbiamo collegato lo smontaggio della pulsione in Freud, e in particolare l’oggetto e la meta, alla teoria dei registri. L’oggetto si è così scisso in oggetto fenomenico, accessibile morfologicamente e semanticamente tramite l’Immaginario e il Simbolico, e in oggetto inaccessibile, noumenico: das Ding, il Reale. Rispetto al reale, l’immaginario e il simbolico stanno, per così dire, sullo stesso versante: la scissione maggiore è tra l’oggetto e la Cosa.

Sappiamo che le medesime divisioni sono costitutive del soggetto: dunque, das Ding abita il soggetto prima di essere il punto in cui la pulsione di morte mira a inabissarsi. Perciò l’oggetto del desiderio non sta davanti al soggetto, come siamo portati a pensare in base al senso comune, e come è legittimo credere nella misura in cui l’Immaginario conferisce una forma alla causa che attrae il soggetto, e anche nella misura in cui il Simbolico costruisce separativamente la realtà (è una delle sue funzioni; non l’unica, lo si ricordi). L’oggetto del desiderio sta anche dietro il soggetto: più precisamente, è la causa del desiderio a stare dietro.6

La distinzione tra oggetto del desiderio e causa del desiderio non è semplice. Ciò che la rende oscura è la convinzione, spontanea e indistruttibile, secondo cui la causa del desiderio è l’oggetto stesso. Non è forse l’oggetto in quanto è ‘così e così’ che mi induce a desiderare? In quanto è esattamente così? Per le proprietà che lo contraddistinguono, e per almeno un dettaglio che lo rende unico?

Quest’ultima precisazione è davvero essenziale. Quando cerchiamo di indicare nelle proprietà le ragioni che hanno determinato la nascita del desiderio, assistiamo al curioso fenomeno della loro evanescenza nell’atto stesso della nominazione. Non che sia più facile nominare il dettaglio, ma, nel circoscriverlo, si ha la sensazione di essersi avvicinati maggiormente all’indicazione della causa. E tuttavia il dettaglio non è mai una componente di tipo mereologico; la mereologia ignora i paradossi, e qui ritroviamo il paradosso della parte non integrabile, qualitativamente oscura.

L’oggetto del desiderio ha a che fare con la Cosa. È inseparabile dalla Cosa, proviene dalla Cosa. Perciò non può esistere in una modalità archetipica, come una ‘prima forma’ che inaugura una serie di repliche o di copie. Si dirà che la nevrosi smentisce l’inesistenza dell’archetipo; a quest’obiezione si può replicare che la nevrosi è intellettualmente una fallacia, e che il nevrotico è colui che ha inserito un elemento empirico (ad esempio la madre empirica) all’inizio della serie; che l’ha elevata ad archetipo, per difendersi dalla Cosa.

Ho affermato che il desiderio proviene da das Ding. E la letteratura – se Freud ha ragione nell’indicare le affinità tra letteratura e psicoanalisi – non potrebbe non offrirci conferme a questa tesi. Vorrei indicare rapidamente due esempi.

Il primo riguarda La coscienza di Zeno. Qual è l’oggetto del desiderio per il protagonista di questo romanzo? Non un oggetto empirico, cioè una persona nei suoi tratti empirici, bensì un significante:

 

"Colà appresi soltanto che le sue quattro figliuole avevano tutte i nomi dall’iniziale in a, una cosa praticissima, secondo lui, perché le cose su cui era impressa quell’iniziale, potevano passare dall’una all’altra, senz’aver da subire dei mutamenti. Si chiamavano (seppi subito a mente quei nomi): Ada, Augusta, Alberta e Anna. A quel tavolo si disse anche che tutt’e quattro erano belle. Quell’iniziale mi colpì molto più di quanto meritasse. Sognai di quelle quattro fanciulle legate tanto bene insieme dal loro nome. Pareva fossero da consegnarsi in fascio."7

 

Difficilmente potrebbe mancare la bellezza come qualità nell’oggetto del desiderio; e la più desiderabile di queste fanciulle non sarà forse la più bella? Tuttavia la bellezza è una proprietà che contraddistingue anche ragazze il cui nome non inizia con la a. Dunque, non è una qualità generica a dominare irresistibilmente Zeno, ma la seduzione esercitata da un significante. Ne troviamo conferma subito dopo:

 

Quella prima visita io la ricordo come se l’avessi fatta ieri […] Correvo dietro alla salute, alla legittimità. Sta bene che in quell’iniziale a erano racchiuse quattro fanciulle, ma tre di loro sarebbero state eliminate subito e in quanto alla quarta anch’essa avrebbe subito un esame severo. Giudice severissimo sarei stato. Ma intanto non avrei saputo dire le qualità che avrei domandate da lei e quelle che avrei abbominate.8

 

Dal punto di vista teorico, queste pagine ci autorizzano a inferire che

  • l’oggetto del desiderio non è un ‘oggetto’, nel senso in cui usiamo abitualmente questo termine per far riferimento a enti intramondani;
  • ciò da cui proviene l’oggetto del desiderio è una dimensione in qualche modo indeterminata o informe, una sorta di nebulosa: il legame tra le forme possibili domina sulla forma destinata ad emergere (quattro fanciulle legate dal loro nome – da consegnarsi ‘in fascio’;
  • qualunque indicazione dell’oggetto del desiderio deve registrare il primato del significante: cioè del vuoto. L’iniziale a non contiene nulla, non può essere collegata a nulla.

Il secondo esempio riguarda Proust, e più precisamente la passeggiata delle fanciulle in fiore lungo la spiaggia di Balbec. Esse vengono percepite come una nebulosa di elementi o di tratti, nella quale per un certo tempo è impossibile introdurre demarcazioni precise e fissare contorni individualizzanti.

 

"Restavo davanti al Grand-Hôtel aspettando il momento di andare incontro alla nonna, quando, quasi ancora all’altro capo del molo dov’esse facevano muovere una macchia bizzarra (une tache singulière), vidi avanzarsi cinque o sei ragazzine.

 

 

 

[…] le ragazzine che avevo scorto, con quella destrezza dei gesti che nasce da una perfetta scioltezza del corpo (un parfait assouplissement de son propre corps) e da un disprezzo sincero per il resto dell’umanità, procedevano leste, senza esitazioni né rigidezze, compiendo esattamente i movimenti voluti, in una piena indipendenza reciproca di tutte le membra, mentre la maggior parte del corpo conservava quell’immobilità così notevole nelle buone ballerine di valzer. Esse non erano più lontane da me. Benché ognuna fosse un tipo assolutamente diverso dalle altre, tutte avevano una certa bellezza; ma, a dir vero, le vedevo da così pochi minuti, e senza osare guardarle fissamente, che non ne avevo ancora individuata (individualisé) nessuna. Tranne una, il cui naso diritto e la carnagione bruna faceva spiccare, in mezzo alle altre, come in certi quadri del Rinascimento, un Re Mago di tipo arabo, esse non mi erano note che per un paio di occhi duri, ostinati e ridenti; un’altra per le guance in cui il rosa aveva quella sfumatura di rame che rievoca il geranio; e anche di quei tratti non ne avevo ancora legato indissolubilmente nessuno ad una fanciulla piuttosto che a un’altra. E quando (secondo l’ordine in cui si svolgeva quel piccolo corteo, meraviglioso perché vi erano accostati gli aspetti più diversi, tutte le gamme di colore vi comparivano una accanto all’altra, ma che era confuso come una musica in cui avessi potuto isolare e riconoscere al passaggio le frasi, distinte ma dimenticate subito dopo) vedevo emergere un ovale bianco, degli occhi neri, degli verdi, non sapevo se fossero gli stessi che mi avevano già deliziato un momento prima, non potevo metterli in rapporto con una data fanciulla che io avessi separata dalle altre (séparée des autres) e riconosciuta. E quest’assenza, nella mia visione, del distacco (des démarcations) che avrei presto stabilito tra loro, propagava attraverso il gruppo un ondeggiamento armonioso, la traslazione continua di una bellezza fluida, collettiva e mobile."9

 

C’è molto di paradossale in questa descrizione; tanto più se la si confronta con la precedente descrizione della folla, che, in antitesi con la petite tribu, è governata da movimenti involontari e sgraziati: persone che passeggiano lungo il molo beccheggiando come sul ponte di una nave – tale è la disarmonia intrinseca al loro modo d’essere. Le fanciulle in fiore rispondono invece a un’armonia voluta, resa possibile da una estrema scioltezza (assouplissement) e padronanza (maîtrise de gestes). Le parti in movimento dei loro corpi includono l’immobilità che si ammira in una danzatrice – come i raggi in movimento di una ruota implicano la rotazione immobile del centro. Ciò che diventa sorprendente in questa descrizione è l’assenza del principium individuationis: l’armonia è collettiva e fluida, i corpi si confondono, soltanto oggetti parziali – carnagione bruna, guance rosa, occhi neri – salgono in primo piano. I contorni di ogni corpo svaniscono, come se la memoria non riuscisse a trattenerli nell’istante successivo a quello in cui sono stati percepiti, hanno l’inconsistenza dei tagli inferti da un coltello nell’acqua. La macchia assorbe i tentativi di demarcazione. Eppure questa tache singulière è composta da differenze, che a poco a poco si affermeranno.

Tutto è legato armoniosamente, nel gruppo delle fanciulle; e contemporaneamente tutto è slegato, nessuna di loro è se stessa più di quanto non sia le altre. Esse avanzano con l’indeterminatezza di una nebulosa.

Possiamo considerare il gruppo delle fanciulle in fiore come una metamorfosi di das Ding? I lettori del Seminario VII esiteranno a rispondere affermativamente, perché la Cosa viene presentata in riferimento soprattutto a una meta di distruzione (e di autodistruzione): la crudeltà della Dama, la soglia varcata da Antigone. Insomma, la problematica della pulsione di morte. Per contro, la bellezza viene introdotta da Lacan nel Seminario VII come una velatura con funzioni difensive. E tuttavia, niente è stabile per la teoria dei registri: il velo può ispessirsi e indurirsi, diventare una barriera che protegge troppo, e che indebolisce l’esperienza estetica; può anche venire attratto sul versante di das Ding, come avviene in The Tell-Tale Heart, dove l’orribile fascinazione esercitata sul protagonista da un oggetto parziale, un occhio, è accresciuta dalla membrana che lo avvolge.10

Accanto alle incarnazioni più distruttive e orrifiche di das Ding, vi sono però le sue incarnazioni domestiche: si pensi alla collezione di scatole di fiammiferi, con cui Lacan introduce la differenza tra oggetto e Cosa.11 Qui das Ding è la x che circola nella serie, l’assenza o il vuoto che tiene insieme gli oggetti della collezione.

Si può pensare alla bellezza come a una formazione difensiva. In fin dei conti, questa è l’ipotesi di Nietzsche ne La nascita della tragedia: il velo apollineo gettato sull’orrore del dionisiaco, sulla sconvolgente rivelazione che meglio sarebbe non essere mai nati, e che la cosa migliore per l’uomo è morire, non essere niente. Per Nietzsche, la bellezza è la forza di affermazione della forma.

Comunque la bellezza si dice in molti modi. Per il senso comune la bellezza è una proprietà, un tratto. Quando sta per introdurre il gruppo delle fanciulle, il Narratore della Recherche prende congedo da questa concezione, dopo averne presentato comunque una versione meno banalmente empirica:

 

"Ero in uno di quei periodi della giovinezza, sprovvisti di un amore particolare, vacanti, in cui – come un innamorato la donna che egli ama – si desidera, si cerca, si vede dappertutto la Bellezza. Basta che un tratto reale – il poco che si scorge di una donna vista da lontano o di schiena – ci permetta di proiettare davanti a noi la Bellezza, e subito ci immaginiamo di averla riconosciuta; il cuore ci batte, affrettiamo il passo, e resteremo sempre a metà persuasi che era lei, purché la donna sia scomparsa: soltanto se riusciamo a raggiungerla, comprendiamo il nostro errore."12

 

Dal platonismo di questa concezione si passa, in poche righe, a un anti-platonismo della macchia e della nebulosa: la bellezza proviene da das Ding, prende forma a partire dall’informe. Dal confusivo. La bellezza divisa o che si divide – «Adesso i loro tratti incantevoli non erano più indistinti e confusi (mêlés). Li avevo divisi (répartis) e agglomerati»13 – è destinata a conservare per sempre, tra le gamme di colore che la compongono («toutes les gammes de couleurs y étaient rapprochées»), anche il colore della possibilità di altre forme, differenti e affini.

L’oggetto del desiderio è un oggetto diviso. Non appartiene interamente a se stesso, non consiste interamente di se stesso. In questo senso, possiamo dire che ha il colore del vuoto.

 

7. Sul vuoto si può ironizzare facilmente, osserva Lacan nel Seminario in cui assegna alla nozione di ‘vuoto’ un ruolo esplicativo.14 Troviamo qui, per esempio, la tesi «l’arte è una modalità di organizzazione del vuoto» nell’ambito di una tesi più generale: «in ogni forma di sublimazione il vuoto sarà determinativo».15 Queste formulazioni sono fortemente suggestive, ma anche oscure. Indubbiamente non è facile chiarirle.

Nel Seminario VII tra i paradigmi del vuoto incontriamo, oltre a quelli già ricordati (la collezione di fiammiferi e la Dama dell’amor cortese), la brocca di Heidegger; vale a dire un riferimento alla conferenza del 1950, intitolata La cosa, in cui Heidegger afferma che un vasaio crea una brocca intorno a un vuoto («ex nihilo, a partire dal buco»). Ma si può attribuire al vuoto una forza modellizzante, formatrice? Verso quale verità ci potrebbe condurre questa visione?

Per seguire questa via occorre anzitutto sbarazzarsi del punto di vista comune, la concezione fisica (il vuoto come assenza di resistenze che non siano meramente atmosferiche), e passare a una concezione logica. Ma occorre sbarazzarsi anche della logica separativa, in base alla quale il vuoto è ‘una cosa che non c’è’ (dove non c’è alcuna cosa, c’è il vuoto).

Ci avviciniamo alla logica congiuntiva se iniziamo a delineare una concezione agonistica del vuoto, relativa cioè a uno spazio di combattimento. In tal caso il vuoto è la possibilità di non essere là dove si è – la capacità di spostarsi nell’istante stesso in cui l’avversario vibra il colpo, l’abilità nel sottrarsi all’urto (si pensi alla ritirata dell’esercito russo di fronte a Napoleone). Se il vuoto fisico fuori di me mi permette di non essere là dove sono, il vuoto logico dentro di me mi consente di non essere ciò che sono. Il vuoto è il ‘non’ della non-coincidenza.16

Note

 1 Riprendo qui argomenti presentati a lezione nel corso di Teoria della letteratura 2010-2011, presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Bergamo. 

2 Per una critica della concezione di Girard, mi permetto di rinviare a Giovanni Bottiroli, Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Il Sestante, Bergamo 2002, in particolare le pp. 205-254.

3 «Nella babele di duecento voci del ponte di corridoio egli dimenticava se stesso, e con la mante sognava la vita di un mare come è descritta dalla letteratura amena (the sea-life of light literature). Si vedeva nell’atto di salvare i naufraghi di navi che affondavano, di tagliare l’alberatura in mezzo a un uragano, di nuotare nella risacca portando una sàgola; oppure in veste di naufrago solitario, a piedi scalzi e mezzo nudo, percorrere gli scogli affiorati in cerca di frutti di mare per sfamarsi. Affrontava selvaggi su spiagge tropicali, sedava ammutinamenti in alto mare, e in una piccola imbarcazione sull’oceano rincuorava uomini disperati – esempio continuo di dedizione al dovere, e sempre intrepido come l’eroe di un libro (always an example of devotion to duty, and as unflinching as a hero in a book)» Joseph Conrad, Lord Jim, 1899-1900; ed. cons. Lord Jim, trad. it. di Giovanni Baldi e Manuela Giasi, Garzanti, Milano, pp. 11-12. Si noti che la zona di identificazione riguarda l’Ideale dell’Io, come esplicitamente indicato dal termine duty, ma il modo dell’identificazione è il confusivo. Non con lo stesso grado di confusività che mostra Don Chisciotte; e, diversamente da quanto accade in Cervantes, con un effetto iniziale di paralisi. Il romanzo di Conrad è un’indagine sugli effetti di questa identificazione, e su come Jim riuscirà ad affrontarli. 

4 Giovanni Bottiroli, Ricominciare dal Simbolico, in «LETTERa», n. 1, autunno 2011. Il paradosso di un’identificazione ‘separativa’ può essere giustificato solo con il procedimento della sineddoche, che è una ‘figura zero’.

5 Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920; ed. cons. Al di là del principio del piacere, in Opere, vol. IX, a cura di Cesare L. Musatti, traduzione di Anna Maria Marietti e Renata Colorni, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 187-249: 224. 

6 «Noi possiamo tentare di definire il campo del soggetto, in quanto non è soltanto il campo intersoggettivo, il soggetto sottoposto alla mediazione del significante, ma ciò che sta dietro a questo soggetto (ce qu’il y a derrière ce sujet)» Jacques Lacan, L’éthique de la psychanalyse. Séminaire VII, 1959-1960; ed. cons. L’etica della psicoanalisi . Seminario VII, trad. it. di Maria D. Contri, Einaudi, Torino, 2004, p. 130.

7 Italo Svevo, La coscienza di Zeno, edizione Dall’Oglio, Milano, (1923) 1978, pp. 89-90. 

8 Ivi, pp. 91-92.

9 Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, vol. II, À l’ombre des jeunes filles en fleurs, 1919; ed. cons. Alla ricerca del tempo perduto, vol. II, All’ombra delle fanciulle in fiore, traduzione di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri, Einaudi, Torino, 1978, pp. 391-393. 

10 Edgar A. Poe, The Tell-Tale Heart, 1843; ed. cons. Il cuore rivelatore, in Opere scelte, a cura di Giorgio Manganelli, Mondadori, Milano, 1991. La traduzione è stata modificata. «Io amavo quel buon vecchio. Egli non mi aveva fatto alcun male. Non mi aveva mai offeso. Io non desideravo il suo oro. Immagino che fosse il suo occhio! Sì, era quello senz’altro! Uno dei suoi occhi era simile a quello d’un avvoltoio… un occhio d’un pallido azzurro, come velato da una membrana (a pale blue eye, with a film over it). Quando esso cadeva su di me, mi si gelava il sangue… e a poco a poco, lentamente, io mi misi in testa di togliere la vita a quel vecchio e di sbarazzarmi così per sempre dell’occhio».

11 Jacques Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 143-145. 

12 Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, cit., p. 390.

13 Ivi, p. 395.

14 «Tutti scherzano sul maccherone che è un buco con qualcosa intorno». Jacques Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 155. 

15 Ivi, p. 165.

 
Bibliografia

16 Bibliografia di riferimento:

Sigmund Freud, Triebe und Triebschicksale, in Metapsychologie, 1915; Pulsioni e loro destini, in Metapsicologia, in Opere, vol. VIII, a cura di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 2008; Id., Jenseits des Lustprinzips, 1920; ed. cons. Al di là del principio del piacere, in Opere, cit.; Id., Massenpsychologie und Ich-Analyse, 1921; ed. cons. Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere, vol. IX, cit.

Jacques Lacan, L’éthique de la psychanalyse. Séminaire VII, 1959-1960; ed. cons. L’etica della psicoanalisi. Ilseminario, libro VII, trad. it. di Maria D. Contri, Einaudi, Torino, 2004; Id., Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Le séminaire, livre XI, 1964; ed. cons. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Il seminario, libro XI, cit.

Massimo Recalcati, Il vuoto e il resto. Il problema del reale in J. Lacan, CUEM, Milano, 2001; Id., Il miracolo della forma, Bruno Mondadori, Milano 2007.

Giovanni Bottiroli, Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Il Sestante, Bergamo 2002; Id., Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino, 2006.