La logica del diviso in William Wilson

In “Fantastico Poe” (a cura di Roberto Cagliero), Ombre Corte, Verona 2004

1. La figura del doppio può attrarre o respingere. “Il tema del Doppelgänger è di una noia mortale”, ha detto per esempio Nabokov in un’intervista. Quanto a Poe, non è scontato – almeno per la critica più recente – che egli abbia scelto questo tema a causa di un’irresistibile fascinazione: non sembra arbitrario sospettare intenti parodici nella scrittura enfatica con cui si apre il racconto, e che si attenua, viene contraddetta o scompare quando il narratore rivolge le sue capacità analitiche al rapporto con il proprio sosia. Se vogliamo servirci della nozione di “parodia”, dobbiamo però tener conto della sua “doppiezza” o duplicità: secondo le indicazioni di Bachtin, non dobbiamo confondere una parodia puramente retorica o formale (solo linguistica) con una parodia cognitiva, che mette in luce la concezione del mondo contro cui opera distruttivamente. Non è la stessa cosa parodiare il sonetto di un determinato autore o parodiare la forma sonetto, “la concezione sonettistica del mondo”. Il criterio che permette di distinguere una parodia semplice, come “nuda e superficiale distruzione della parola altrui”, da una parodia complessa è “il grado di resistenza” della parola-oggetto: nella parodia complessa (cognitiva) si realizza un ibridismo forte, in cui si incrociano “due lingue, due stili, due punti di vista linguistici, due pensieri linguistici e, in sostanza, due soggetti di discorso”.

Cercherò di sviluppare, nel corso della mia breve analisi, soprattutto l’idea di un conflitto tra stili di pensiero: ciò che qui mi interessa, e che credo corrisponda all’intentio auctoris, è la logica del doppio, cioè l’elaborazione prevalentemente “mentale” di una materia sino a quel momento prevalentemente “emozionale”. Parlo di logica del doppio perché intendo, in primo luogo, mettere l’accento sul doppio come risultato non di un “raddoppiamento” bensì di una scissione; e soprattutto focalizzare la mia attenzione sulla logica delle scissioni, o del diviso.

2. La logica del diviso, utilizzata da Poe in questo racconto, non corrisponde a uno stile separativo: qui divisione non vuol dire “separazione” – qualcosa che sta accanto a qualcos’altro, o di fronte ad esso, nella reciproca nettezza dei confini –, bensì “scissione congiuntiva”: identità della non-identità, legame paradossale, rafforzato da ogni tentativo di separazione o di lacerazione. Ed è nel passaggio da una narrazione lineare a una narrazione paradossale che si può riconoscere la grandezza di Poe.

Uno scrittore mediocre, e comunque uno scrittore più ingenuo, avrebbe descritto il protagonista esclusivamente come un ribelle, insistendo sulla caratterizzazione iniziale:

“Mi abbandonai, così, ai più selvaggi capricci, alle più irrefrenabili passioni. I miei genitori, deboli nello spirito […] poco fecero – come poco avrebbero potuto fare – per reprimere le mie riprovevoli tendenze […] Da quel tempo la mia parola fu legge in famiglia, per modo che, a un’età in cui la maggior parte dei fanciulli vengono riguardati, io venni affidato al mio più assoluto arbitrio e mi trovai padrone, eccetto che nel nome, di tutte le mie azioni” (WW 207).

Subito dopo, il testo ci propone un brusco rovesciamento: la scuola in cui William Wilson trascorre “il terzo lustro della sua vita” non viene descritta come un luogo di oppressione per il suo spirito anarchico, bensì come un luogo di incantesimi (“palace of enchantment”), ricco di eccitazioni e fonte di una inesausta nostalgia. Di questo paradosso il narratore si mostra perfettamente consapevole: da un punto di vista ordinario (“in the fact of the world’s view”), c’è ben poco di fascinoso nella serie regolata e monotona degli eventi scolastici (la sveglia al mattino, l’ordine di andare a coricarsi la sera, le lezioni, le rappresentazioni, le brevi passeggiate, durante le quali gli allievi erano “incolonnati come soldati” – “paraded” –, ecc.); eppure la scuola viene amata non benché imponga una severa disciplina ma proprio perché la impone. Lo conferma il senso di timore e di reverenza con cui il protagonista contempla il direttore della scuola, che è anche pastore della chiesa, quando sale sul pulpito a passi lenti e solenni (WW 208).

È in relazione al direttore che Wilson usa il termine paradosso:
“Mi chiedevo come quel personaggio venerabile, dall’aspetto tanto umile e benevolo, dall’abito così ben spazzolato, e ondeggiante alla maniera degli ecclesiastici e dalla parrucca tanto finemente intrecciata e incipriata, potesse essere il medesimo uomo il quale, con espressione acida, e tutta sudicia la persona di tabacco, faceva dianzi eseguire, ferula alla mano, le draconiane leggi della scuola. Bizzarro e smisurato paradosso la cui mostruosità impediva qualsiasi soluzione” (WW 208-9).

Ma i tratti paradossali caratterizzano l’intero spazio scolastico: il vecchio edificio è così labirintico che risulta impossibile comprendere dove ci si trovi – si noti che ciò avviene a causa di suddivisioni incomprensibili (“to its incomprehensible subdivisions”, 209); nell’aula di studio i libri sono lasciati nel più completo disordine, e sono così tatuati e logori da aver smarrito la forma originaria (210). Questo collegio, basato su leggi draconiane, appare dunque come un contenitore di caos.
All’antitesi, su cui si è troppo insistito, tra la volontà dell’eroe e la Legge (o il mondo esterno) bisognerebbe dunque sostituire una misteriosa complicità: l’ordine e il caos sono correlativi, cioè, interdipendenti. L’eroe ha bisogno della Legge, e si affida alla sua protezione – alla sua “recinzione” (“enclosure”) – per poter godere del caos. La funzione protettiva dell’academy verrà meno quando Wilson fuggirà: soltanto allora le sue potenzialità trasgressive e criminali avranno modo di realizzarsi. Dunque l’istituzione e la Legge non sopprimono la “natura ardente, imperiosa, entusiasta” di William Wilson (“the ardor, the enthusiasm, and the imperiousness of my disposition”), e però la restringono all’esercizio sia pure tracotante di una leadership, al dispotismo di una mente dominatrice e geniale (“master mind”) sugli spiriti meno energici dei compagni. Dalla complicità con la Legge si passa alla rottura solo quando il protagonista abbandona la scuola: e ciò non avverrà a causa della sua disposizione ribelle, bensì in rapporto a quella che potremmo chiamare, utilizzando un’espressione di Poe già menzionata, una “incomprehensible subdivision”.

3. Si ritiene generalmente che la somiglianza sia una relazione simmetrica: se A somiglia a B, necessariamente B somiglia ad A. Va però osservato che le somiglianze e le simmetrie non producono automaticamente la confusione, e neanche il paradosso. Oggetti prodotti in serie possono venire facilmente distinti, per esempio tramite numeri o etichette; quanto alla somiglianza tra individui, essa non genera di per sé inquietudine, soprattutto nelle società moderne; che William Wilson abbia un omonimo, e che questo compagno, entrato nel collegio lo stesso giorno, gli somigli in maniera straordinaria, è qualcosa che i compagni accettano con la massima disinvoltura: tutto fa pensare che i due siano fratelli.
Non è dunque la somiglianza, ma la strategia di somiglianza, o meglio ancora la strategia di assimilazione, adottata dal gemello-rivale, che suscita nel protagonista tanto dispetto e tanta ansia. Ancora una volta abbiamo a che fare con i paradossi. Anzitutto con quello della eguaglianza /superiorità:

“La ribellione di Wilson era fonte, per me, di grave imbarazzo: […] sentivo in fondo di temerlo e, d’altra parte, non potevo impedirmi di considerare come una dimostrazione di superiorità – essendo costretto a uno sforzo continuato per evitarne la supremazia – proprio quello stato di eguaglianza (equality) che egli si sforzava di mantenere nei miei riguardi. Questa superiorità, o comunque eguaglianza (equality), non era avvertita che da me soltanto, e per una inspiegabile cecità, sembrava che i nostri compagni non ne serbassero il più lontano sospetto” (WW 212).

In questo brano ci sono diversi aspetti che devono essere rimarcati: gli altri studenti non vedono nella somiglianza tra i due Wilson, e neppure nella loro omonimia, un rischio di confusione: li considerano due persone diverse, separate in virtù del principium individuationis e cioè, quantomeno, dal fatto che questi due individui occupano una posizione differente nello spazio. L’aspetto unheimlich della somiglianza viene addomesticato e banalizzato (si tratterebbe di due fratelli). Ebbene, se gli altri studenti possono far ricorso a questo tipo di spiegazione rassicurante, non è forse perché essi appartengono – mentalmente – al regime separativo? Il protagonista si trova in una condizione diversa: egli possiede una percezione che non è soltanto più raffinata, più sottile, rispetto a quella dei suoi compagni, e che deriva piuttosto da un diverso modo di guardare. Il suo è uno sguardo confusivo. Poiché il racconto viene condotto in prima persona, non abbiamo la possibilità di sapere se la percezione di confusività – spazio labirintico, congiunzione di qualità opposte – rifletta uno stato di cose reale, o venga anche solo esasperato da una prospettiva, il cui statuto ontologico dovrà essere chiarito. In ogni caso, la simmetria viene percepita da William Wilson come la più terribile delle minacce, e la sua strategia difensiva consiste nello sforzo continuo di introdurre il non-simmetrico nella relazione di somiglianza: “Lui mi somiglia, ma io non somiglio a lui”. B può somigliare ad A, tuttavia A non somiglierà a B.
Questa strategia difensiva è tanto più necessaria in quanto il rivale suscita emozioni ambivalenti: il protagonista non riesce a detestarlo del tutto; le sue disposizioni nei riguardi del sosia vengono definite “un eterogeneo amalgama e multicolore” (“a motley and heterogeneous admixture”); il rapporto di interdipendenza viene confessato quasi enfaticamente: “È inutile aggiungere per il moralista che Wilson e io eravamo i più inseparabili tra tutti gli scolari” (“the most inseparable of companions”, 293).
Dunque la duplicità e la scissione non riguardano solo il rapporto tra l’eroe e il sosia. Questi due personaggi non sono due “soggetti pieni”, definiti dalla rivalità reciproca e dal tentativo di usurpazione da parte del Doppelgänger. Se quest’ultimo fosse solo un persecutore, se fosse solo l’incarnazione allegorica del Super-io, Poe avrebbe scritto uno di quei racconti che Nabokov, non a torto, giudicava mortalmente noiosi: un racconto lineare, con un eroe e un antagonista dalle identità separate anche se collegate dal terrore della somiglianza. Invece Poe mette in scena l’identità della scissione, che si manifesta coerentemente nell’inseparabilità e nell’attrazione verso il persecutore.
Resta un elemento non-simmetrico, grazie a cui il protagonista può rivendicare una distinzione che è anche una forma di superiorità, ed esso consiste in un’imperfezione fisica del doppio:

“Il mio rivale era afflitto da una imperfezione della laringe che non gli consentiva di elevare la voce più alto d’un sommesso mormorio. Da tale imperfezione non mi facevo scrupolo di trarre ogni possibile vantaggio” (WW 214).

E tuttavia anche questa differenza viene continuamente accorciata e quasi annullata dall’eccezionale capacità di imitazione, di cui il rivale è dotato:

“Copiò così la foggia dei miei abiti, la mia andatura, il mio generale portamento e, nonostante la difficoltà di quella sua minorazione costituzionale, persino la voce. È chiaro tuttavia che, quanto alla voce, egli non tentava i toni elevati ma ne aveva afferrato, comunque, quale che fosse, il segreto e, a patto di parlare basso, egli riusciva ad ottenere che il suo bisbiglio fosse l’eco perfetto della mia voce” (WW 215).

Benché qui si parli di “imitazione” (“an imitation of myself”), il comportamento del sosia non può venir ridottto a una capacità mimetica, straordinariamente sviluppata: il presupposto dell’imitazione è l’esteriorità, mentre qui si tratta di un rapporto molto più “intimo”. Il lessico dell’intimità e dell’interiorità esige tuttavia una presa di distanza (una virgolettatura) per evitare una concezione ingenua degli strumenti di analisi che verranno adesso proposti.

4. Fino a questo momento ho cercato di descrivere il testo di Poe: naturalmente nessuna descrizione è neutra; ma, per quanto operi selettivamente mettendo in risalto certi aspetti del testo anziché certi altri, una descrizione differisce da un’interpretazione. Interpretare un testo significa avventurarsi al di là della superficie visibile e delle zone implicite più direttamente connesse, e far riferimento a modelli euristici già esistenti, già sperimentati, magari in altri campi. L’obiezione che viene spesso avanzata contro le procedure esplicative riguarda il loro carattere di “applicazione”: per esempio, far ricorso alla psicoanalisi per approfondire il tema del doppio può sembrare una scelta del tutto giustificata; ma, si dice, il rischio è quello di applicare meccanicamente un modello che cercherebbe nella letteratura solo l’occasione per la propria conferma, trascurando l’integralità dei testi. Obiezioni di questo genere vanno sempre tenute nella giusta considerazione; e senza dubbio il rispetto di un testo nella sua pienezza è, o dovrebbe essere, l’ideale per ogni interprete. Si può replicare nondimeno che l’atteggiamento descrittivo si espone a obiezioni altrettanto forti; anzitutto, perché rischia di impoverire e di appiattire il rapporto ermeneutico; in secondo luogo perché chi rifiuta strumentazioni esplicite fa uso quasi inevitabilmente di una strumentazione implicita, non problematizzata e vincolata alle ovvietà del pensiero quotidiano.

Dovendo scegliere tra una psicologia delle passioni, legata alla doxa, e il modello psicoanalitico, non abbiamo esitazioni: con l’intento però di non applicare meccanicamente la psicoanalisi, e di farla interagire con la letteratura. L’analisi letteraria del personaggio può fornire alla psicoanalisi un contributo non inferiore a quello che la psicoanalisi offre alla comprensione dell’identità nei testi letterari.
Scrive Freud nel saggio sul perturbante:

“Il motivo del sosia è stato oggetto di un esame approfondito in un lavoro omonimo di Otto Rank. Si indagano colà le relazioni tra il sosia e l’immagine riprodotta dallo specchio, tra il sosia e l’ombra, il genio tutelare, la credenza nell’anima e la paura della morte, ma anche si mette chiaramente in luce la sorprendente storia dell’evoluzione di questo motivo. Il sosia rappresentava infatti, in origine, un baluardo contro la scomparsa dell’Io, una ‘energica smentita del potere della morte’ (Rank), e probabilmente il primo sosia del corpo fu l’anima ‘immortale’ […] Ma queste rappresentazioni sono sorte sul terreno dell’amore illimitato per se stessi, del narcisismo primario che domina la vita psichica sia del bambino che dell’uomo primitivo, e, col superamento di questa fase, muta il segno del sosia, da assicurazione di sopravvivenza esso diventa un perturbante presentimento di morte”.

Né Rank né Freud tentano di spiegare l’evoluzione di questo motivo: si limitano a constatare una trasformazione, in base alla quale il doppio ha rinunciato al suo significato “amichevole”, cioè alla sua funzione protettiva, per assumere una funzione persecutoria (è il rivale, il nemico dell’amore e della felicità). La svolta sarebbe avvenuta nell’epoca del Romanticismo. Benché sostanzialmente corretto, questo profilo storico tende a farci dimenticare che il ruolo di protezione non scompare del tutto nella letteratura moderna: il caso più rilevante è forse quello del doppio conradiano in The Secret Sharer, dove il sosia, un misterioso individuo sbucato dalle tenebre e dal mare, e responsabile di una grave trasgressione, agisce nei confronti del giovane capitano (l’eroe di questa storia) come un Ideale dell’Io; come un modello positivo, che lo aiuta a superare le sue incertezze, e a giungere a un più forte dominio di sé. Perciò alla semplice evoluzione storica dovremmo quantomeno accompagnare una proposta di tipologia, che ci permetta di distinguere le diverse funzioni svolte dal Doppelgänger.

Riprendendo Rank, Freud sottolinea lo stretto legame tra il motivo del doppio e la problematica del narcisismo, a cui egli aveva dedicato, qualche anno prima, uno studio fondamentale. Tuttavia il saggio freudiano sul narcisismo presenta un limite, che consiste nell’adozione di un punto di vista prevalentemente economico: Freud descrive i tipi di energia pulsionale, distingue la libido oggettuale dalla libido dell’Io, traccia un quadro essenziale delle forme di investimento libidico (differenza tra sublimazione e idealizzazione, ecc.). Ma per descrivere adeguatamente un fenomeno psichico, il punto di vista economico (o energetico) deve venir completato dal punto di vista topico e da quello dinamico: così afferma lo stesso Freud nella Metapsicologia. A questi tre punti di vista Lacan aggiungerà la prospettica logico-linguistica, tutt’altro che assente nella ricerca freudiana ma non abbastanza esplicitata.

Quale sia l’importanza del narcisismo nella teoria psicoanalitica, lo si può intuire anche dal fatto che è questa la problematica che Lacan sceglie di affrontare all’inizio del suo insegnamento. Nella sua rilettura di Freud, Lacan va al di là della spiegazione economica e utilizza un modello dell’identità basato sui meccanismi di identificazione. A partire dal Seminario II, tale modello viene presentato mediante uno schema, assai noto, che riproduciamo qui in forma semplificata:

 

schema-l

Lo schema L indica la formazione della soggettività attraverso due fasi, chiamate prima e seconda identificazione. La prima identificazione trova il suo momento decisivo nello stadio dello specchio, cioè nell’atto con cui un soggetto (S) si riflette in un oggetto o in un individuo (la madre, un altro bambino) che svolgono la funzione-specchio rinviandogli la sua immagine, stabilizzata e morfologicamente unitaria: riflettendosi in a’, S diventa a, cioè Io. In tal modo il soggetto è uscito dalla condizione morcelé, in cui si trovava. Ha acquistato un certo dominio sull’anarchia pulsionale, ma per entrare nel dominio delle relazioni sociali deve compiere un altro passo, e accedere al luogo del Grande Altro (A): il luogo della Legge, del Super-io, ma anche di quei modelli positivi che la psicoanalisi indica con l’espressione Ideale dell’Io. Questa è la seconda identificazione.

I luoghi indicati con a’ e con A non sono luoghi ai quali si accede una sola volta o istantaneamente: essi offrono al soggetto un numero illimitato di possibili identificazioni, che possono confermarlo in ciò che è oppure trasformarlo. Decisivo non è il numero delle identificazioni, bensì il registro a cui esse appartengono: sull’asse aa’ l’identità viene elaborata nel modo dell’Immaginario, mentre a partire da A (seguendo la direzione della freccia) l’asse Immaginario viene intersecato e spezzato dal Simbolico.

Un’ultima precisazione: quando afferma che il mancato accesso all’Altro determina l’“insocialità” del soggetto, e fa dell’individuo un “soggetto mancato”, Lacan non sta utilizzando lo schema argomentativo del “tutto o niente”. Il Simbolico è un luogo storicamente determinato e attraversato da conflitti: è come una città, composta da quartieri molto diversi tra loro, e non è impossibile che un individuo restringa la sua esistenza ai confini del proprio quartiere. Immaginario e Simbolico sono modalità linguistiche fortemente eterogenee. Nondimeno la soggettività è determinata dal loro intreccio, più o meno armonizzato: nel collegio descritto da Poe in William Wilson l’armonizzazione è minima; il Simbolico include l’Immaginario – il separativo include il confusivo – e nello stesso tempo vi è incluso; l’ordine circola nel labirinto.

Per quali motivi il soggetto potrebbe rifiutare il rapporto con l’Altro? Ad esempio, perché non trova nel Simbolico nessuna possibilità di identificazione positiva. Sembra questa la situazione raffigurata inizialmente nel racconto di Poe: genitori “deboli di spirito” (weak-minded), afflitti da infermità costituzionali, e inadeguati a rappresentare la Legge: tutto ciò che riescono a imporre è il nome, William Wilson. Nei confronti di questo, che è l’unico legame con la sua famiglia, il protagonista proverà sempre avversione: “Il suono delle sue sillabe era veleno al mio orecchio” (WW 214).

Rifiutando il Nome-del-Padre si smarrisce il rapporto con il Simbolico: fin qui troviamo una semplice conferma del modello lacaniano. Da tale modello possiamo trarre qualcosa di più di una semplice conferma se tentiamo di utilizzarlo per comprendere ciò che Rank e Freud si limitavano a constatare: l’evoluzione del doppio, da difensore a persecutore. Consideriamo di nuovo lo schema L cercando di sfruttarne tutte le potenzialità “topiche”, cioè la sua articolazione spaziale: qual è il luogo del Doppelgänger in questo schema? Da quale varco dobbiamo attenderci la sua apparizione? Non ci possono essere dubbi sull’appartenenza del doppio all’Immaginario, che è il registro della confusività, delle simmetrie, delle relazioni speculari. Diremo allora che William Wilson, il personaggio che è anche la voce narrante, occupa la posizione contrassegnata dalla lettera a mentre il sosia appare in a’ ? Senza dubbio, ma la questione è più complessa.

5. Una celebre formula lacaniana afferma che, rigettando (forcludendo) un elemento del Simbolico, lo si vede riapparire dalla parte del Reale (= la realtà non simbolizzata) nella forma di un’immagine, cioè di un elemento dell’Immaginario. Proviamo a utilizzare questa formula.

Dal rifiuto di assimilare il Simbolico, la dimensione della Legge, deriva una catastrofe per la soggettività in via di formazione: crollano le possibilità di un’articolazione superiore, viene sbarrata la via della complessità. Vissuta inizialmente con euforia, questa chiusura viene percepita come un gesto reversibile: tutto è reversibile nell’Immaginario. L’oscura minaccia e il terrore che provengono da una porta sbarrata, nel racconto di Poe, vanno probabilmente compresi alla luce di questo meccanismo:

“Da un angolo della murata che recingeva la scuola, guardava una porta ancor più massiccia dello stesso muro, la quale era saldamente sbarrata, fornita di un chiavistello, e sormontata da una corona di punte acuminate di ferro. Essa ci ispirava i più profondi terrori. Non accadeva mai che si aprisse se non per le tre sortite, con le relative entrate, di ogni settimana e nello stridere che allora faceva sui cardini, noi ci trovavamo sopraffatti da una profondità di mistero che schiudeva, alle nostre vergini menti, un intero mondo di solenni meditazioni” (WW 209).

Il terrore ha la sua origine nel fuori. È dall’esterno (dalla estimità, come la chiama Lacan, e non dall’intimità del soggetto) che potrebbe irrompere – che cosa? la cosa stessa, il Reale, il non-nominabile, qualcosa che si annuncia con i suoi stridori (“creak”) ma che resta celata in “a plenitude of mistery”. Dunque il paradosso riguarda il “dentro/fuori”: ciò che viene temuto come esterno è già presente all’interno; la minaccia non proviene da un misterioso altro, ma dal più simile.
Questa esteriorizzazione pura deriva dal rigetto del Simbolico; tale rigetto o rifiuto non è istantaneo e solo nei casi più gravi tende a essere completo. Colui che si rivolge al lettore, autobattezzandosi William Wilson, non è dunque uno psicotico, se con questo termine indichiamo un individuo del tutto incapace di stabilire rapporti pubblici; e non lo è grazie alla protezione, e all’azione formativa e strutturante, offerta dalla scuola. Però negando il Nome-del-padre – tutto ciò che quel nome può evocare o implicare, è per lui oggetto di un’avversione permanente –, il protagonista apre un buco nel Simbolico: una zona di non-essere in cui la realtà simbolizzata, e la sua stessa identità, rischiano di venir risucchiati, come l’acqua che scorre in una vasca.

Se questa è la situazione di tutti coloro che incontrano il proprio doppio, possiamo formulare un’ipotesi: il doppio sorge in un primo momento per tamponare e coprire il buco creato dalla forclusione dell’Altro e dunque, in un primo tempo, tenta di svolgere le funzioni dell’Altro. Ma quanto dura questo tentativo? Percepire l’apparizione del doppio come una durata non è facile: lo “straordinario turbamento che promana da tale figura” (Freud) e il carattere istantaneo con cui questo turbamento si manifesta, in molte storie sul doppio, tendono a farci dimenticare la specificità di alcuni testi, come quello di Poe, in cui tale apparizione non ha il carattere dello shock. Qui il doppio diventa ciò che è (benché lo sia fin dall’inizio): e lo diventa attraverso una costante e sempre più perfetta imitazione, riuscendo ad imporre la propria terrificante simmetria al soggetto recalcitrante.

L’aspetto temporale ha una particolare rilevanza in Poe, ma anche in Conrad: in The Secret Sharer il “raddoppiamento” appare non privo di incertezze, e di differenze minime. L’evoluzione nel tempo è percepibile anche nel Sosia di Dostoevskij, dove la prima apparizione del doppio distoglie Goljadkin dal suicidio.

Riprendendo lo schema L, in una versione da cui risulti assente il Simbolico, la funzione difensiva del doppio può venire espressa nella formula: A = a’. La negazione del Grande Altro, e della sua differenza nei confronti del soggetto in via di costituzione, ha come risultato l’emergere della somiglianza: l’altro con la minuscola è il simile - il perfettamente simile, l’agente di una confusione tra identità e alterità, il futuro usurpatore. Ma, lo ripetiamo, in un primo tempo e per un certo tempo il simile tenta di svolgere una funzione difensiva.

Qual è o quali sono i fattori che determinano il passaggio dalla funzione difensiva a quella persecutoria? Non è facile rispondere a questa domanda, e certamente non è possibile farlo ora in misura adeguata; potremmo tuttavia valorizzare un’osservazione di Freud, il quale collega l’apparizione del sosia al ritorno del superato e non al ritorno del rimosso. La distinzione è fondamentale: il ritorno del rimosso si riferisce ai desideri, mentre il ritorno del superato consiste nella resurrezione di antiche credenze (onnipotenza dei pensieri, magia, ritorno dei morti, ecc.). Va osservato che, per quanto legittima, questa tipologia non esclude – anzi, serve a rendere più comprensibili – i casi ibridi: comunque, il ritorno del superato concerne la problematica del credere.

Credere in che cosa? Nell’immortalità, o in una qualche possibilità di vincere la morte? Credere in se stessi? Le coordinate simboliche che possono conferire al soggetto la capacità di tollerare (collocandola in una dimensione astratta) la propria mortalità o fragilità sono notevolmente diverse: il declino delle grandi religioni costringe la soggettività moderna a cercare nuove strategie per placare la propria ansia.

Nel caso di William Wilson, il problema non sembra però quello della morte ma del desiderio di onnipotenza. Non è l’idea di dover morire, ma quella di un limite alla propria volontà (“will”) a rappresentare una ferita narcisistica per il personaggio che dice Io, e che non è disposto ad accettare resistenze che non provengano da lui stesso. Proprio da qui, tuttavia, e soltanto da qui, giunge il pericolo, e questo è il motivo per cui, oscuramente, l’eroe di questo racconto ha bisogno di limiti che lo proteggano: limiti all’interno dei quali egli può esercitare la sua tirannica volontà, limiti severi che si aprono solo raramente, periodicamente, sotto il controllo della Legge. La “vendetta” del Simbolico si manifesterà all’interno, nella forma di quell’unica resistenza che egli non può negare – perlomeno, non interamente.

6. La personalità narcisistica è generalmente oggetto di riprovazione. E l’atteggiamento moralista tende a imporsi non solo nell’ambito della vita quotidiana, dove “narcisismo” è sinonimo di “egoismo”, ma anche nel campo della ricerca psicologica e letteraria. Niente di più facile, ad esempio, che scorgere nel doppio di William Wilson un’incarnazione del Super-io, l’autorità morale che il protagonista ha sempre rifiutato e il garante delle leggi che egli trasgredisce continuamente dopo la fuga dal collegio. Anche l’analisi fin qui condotta non esclude del tutto la possibilità di una lettura che privilegi il dispositivo etico del racconto: chi rigetta il Simbolico, dal Simbolico verrà punito – quando l’A(ltro) assumerà i tratti di a’ (identici a quelli di a).

C’è da dubitare peraltro che la letteratura assuma atteggiamenti di condanna, e si automortifichi nella trasmissione di un messaggio etico. La vera letteratura è sempre legata alla dimensione della conoscenza. Anche nella prima grande versione letteraria del mito di Narciso non troviamo – e comunque non troviamo soltanto – la condanna della specularità narcisistica, ma uno sguardo sulla condizione umana e sul tratto aporetico che la contraddistingue. Narciso viene presentato inizialmente, nel testo di Ovidio, come “colui che non si riflette”: cioè come un essere indiviso. Incapace di qualunque amore, di qualunque alterità, egli è unicamente un oggetto di desiderio; per lui si consuma inutilmente la sventurata Eco. L’acme del racconto non è tanto la scoperta di un’immagine erotica, a causa della quale o in virtù della quale l’indifferente verrà punito; la storia di Narciso non è una storia di punizione se non per il senso comune, e per la ricezione pedagogica che lo impoverisce.

L’essenziale, nel racconto, è costituito non dalla scoperta del simile bensì dalla scoperta della divisione, che è determinata paradossalmente da un eccesso di vicinanza. Perciò Narciso invoca la distanza: “Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse più distante” (Votum in amante novum: vellem, quod amamus abesset!). Desiderio inaudito, e impossibile. Se il narcisismo è la verità dell’amore, quest’affermazione non va intesa in un senso banalmente riduzionista: non vuol dire che l’amore per gli altri è in realtà egoismo, e che non siamo capaci di amare gli altri; vuol dire che è impossibile amare se stessi.

Ciò che importa è il rapporto del desiderio con l’impossibile: questo è il problema – non il messaggio – che si può derivare dal mito di Narciso.
Se proviamo a considerare la costellazione del Doppelgänger come una serie di variazioni, imperniate sul mito di Narciso – non soltanto la psicoanalisi, ma molti studi letterari autorizzano quest’ipotesi –, dobbiamo mettere l’accento sulla divisione, e non sulla punizione: un personaggio diviso, che rappresenta un soggetto diviso, incontra ciò che lo separa da sé stesso, l’impossibilità di coincidere con sé stesso. La fonte della sua più grande fragilità, ma anche un’occasione di conoscenza. Tra i racconti che formano la costellazione del doppio, questa occasione non viene quasi mai utilizzata (la grande eccezione è in Conrad). La variazione di Poe consiste nell’aver messo in scena l’ambivalenza, l’odio verso di sé, verso la propria incapacità a coincidere con il proprio Io: e il lungo duello con un sosia parodico, scoronante, che detronizza l’Io e lo riporta al vuoto, alla fenditura, al dissidio, da cui il soggetto è costituito.

Note

  1. V. Nabokov, Strong Opinions, 1973; trad. it. Intransigenze, Adelphi, Milano 1994, p. 109.
  2. M. Bachtin, Estetica e romanzo [1975]; trad. it. Einaudi, Torino 1979, p. 417.
  3. Ibid., pp. 172 e 438.
  4. Si rinvia a E.A. Poe, Racconti, trad. it. di G. Baldini, Milano, Garzanti, 1972. William Wilson sarà citato in sigla WW, seguito dal numero di pagina di questa edizione.
  5. 5 Diverso è il caso dei gemelli nelle società primitive.
  6. In alcune traduzioni (Gabriele Baldini, Elio Vittorini) il termine equality viene reso la prima volta con “eguaglianza”, la seconda con “emulazione”.
  7. S. Freud, Das Unheimliche, 1919; trad. it. Il perturbante, in Opere, vol.9, Torino, Boringhieri, p. 96. Il saggio a cui Freud si riferisce è Der Doppelgänger (1914), del suo allievo Otto Rank.
  8. J. Conrad, The Secret Sharer, 1912; trad. it. in I racconti del comando, a cura di M. Curreli, Bompiani, Milano 1997.
  9. S. Freud, Introduzione al narcisismo, 1914; trad. it. in Opere, vol. 7.
  10. S. Freud, Metapsychologie, 1915; trad. it. in Opere, vol. 8.
  11. J. Lacan, Seminario I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954; trad. it. Einaudi, Torino 1978.
  12. Cfr. Écrits, 1966; trad. it. Einaudi, Torino 1974, p. 50.
  13. Cfr. la metafora di Wittgenstein: “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi (Ricerche filosofiche, 1953; trad. it. Einaudi, Torino 1967, p. 17).
  14. Non tutte le immagini, ma solo quelle “non simbolizzate”, dotate di un misterioso potere di captazione, appartengono propriamente all’Immaginario.
  15. L’istantaneità dell’apparizione del sosia potrebbe venir considerata come un tratto folklorico.
  16. S. Freud, Il perturbante, cit., p. 97.
  17. S. Freud: “La proposizione ‘Tutti gli uomini sono mortali’ fa bella mostra di sé nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma nessuno la considera tale e ora come in passato è estranea al nostro inconscio l’idea della nostra stessa mortalità” (Il perturbante, cit., p. 103).
  18. Ovidio, Metamorfosi, libro III, v. 468; trad. it. di P. Bernardino Mazzola, Torino, Einaudi, 1979.
  19. Ancora un paradosso: non è che “non dobbiamo”, è che “non possiamo” amare noi stessi. Il narcisismo nell’accezione comune sarebbe dunque un tentativo di negare questa impossibilità e di restaurare – o meglio di raggiungere – una condizione indivisa.

© 2020 Giovanni Bottiroli. Tutti i diritti riservati