Un sogno di Raskolnikov
1. «Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno a occhi aperti, per attuarlo». Così scrive Thomas Edward Lawrence, quando inizia a raccontare la sua avventura in Medio Oriente: «Intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale» 1
All’inizio della sua cronaca Lawrence pone dunque una generalizzazione, una massima, un enunciato costruito (come accade sovente per questo tipo di enunciati) sull’antitesi, e il cui aspetto retorico sembra prefigurare la descrizione della mente2. È da questa massima suggestiva e imperfetta che vorrei iniziare la mia riflessione sul personaggio di Raskol’nikov.
Non tenterò di discutere direttamente l’idea, la concezione filosofica (anch’essa fortemente antitetica) del protagonista di Delitto e castigo. Secondo quest’idea - che non conosciamo mai nella versione originaria in quanto essa ci viene presentata attraverso il filtro prospettico di altri personaggi; a Raskol’nikov viene concesso di sintetizzarla e di replicarla 3 -, secondo quest’idea gli uomini si dividono in «ordinari» e «straordinari»: gli uni devono vivere nell’obbedienza, gli altri hanno il diritto di violare la legge, e se necessario di spargere il sangue. «La prima categoria è signora del presente, la seconda dell’avvenire. I primi conservano il mondo e lo moltiplicano numericamente, i secondi fanno avanzare il mondo e lo guidano verso la meta» 4. L’idea viene discussa nel romanzo, e non tanto come un oggetto intorno a cui argomentare quanto attraverso la rifrazione attuata dai vari personaggi, dei quali bisognerebbe dunque ricostruire il sistema. L’essenziale, in questa concezione, è racchiusa nel «chi» della persona disposta o costretta ad assumerla, e non nel «che cosa», nel mero contenuto. Certamente il contenuto richiede dei chiarimenti: ma quando Porfirij pone il problema del criterio - «ditemi ancora: come distinguere questi individui straordinari da quelli ordinari? Hanno forse qualche segno speciale fin dalla nascita?... Perché, dovete ammetterlo, se si verificasse qualche confusione e un individuo di una categoria immaginasse di appartenere a un’altra, e cominciasse a ‘scavalcare tutti gli ostacoli’ secondo la vostra felice espressione...» -, è l’intera nozione a rivelarsi problematica. Come risulta subito evidente, il criterio non può consistere in segni esteriori, in «proprietà» o «qualità» dell’individuo. D’altronde il personaggio dostoevskiano non è un insieme di «tratti oggettivi che vanno a comporre un preciso profilo sociologico e caratteriologico» 5; al contrario, nessuna qualità - neppure l’autocoscienza - può circoscriverlo o definirlo. I più affascinanti personaggi di Dostoevskij sono volubili, di una volubilità suprema che assoggetta l’ontologia sino a dissolvere la concezione tradizionale degli enti forniti di proprietà. Dice l’uomo del sottosuolo:
“Se perlomeno non facessi nulla solo per pigrizia! Signore Iddio, quanto rispetto nutrirei allora per me stesso! Mi rispetterei proprio perché in tal caso avrei almeno qualcosa: la pigrizia; almeno questa qualità la possederei in modo certo e positivo, in modo tale da esserne sicuro io stesso. Domanda: quello chi è? Risposta: un fannullone; ecco, non sarebbe mica spiacevole sentir dire una cosa simile sul proprio conto. Ciò significherebbe che sono stato definito in maniera certa e positiva, e che sul conto mio c’è qualcosa da dire. “Fannullone!”, ma questo è un titolo, una missione, tutta una carriera”6
Come ha rilevato Bachtin, il personaggio di Dostoevskij «non è portatore di qualità e di proprietà»; neanche l’autocoscienza è un tratto - intenderla così sarebbe un imperdonabile fraintendimento. Piuttosto l’autocoscienza è ciò che dissolve la «concezione proprietaria» 7 della persona: lungi dal porsi «accanto agli altri tratti della sua figura, essa assume questi tratti in sé come proprio materiale, e li priva di qualsiasi forza di determinazione e di definizione del personaggio» 8. Potremmo dire che l’incompiutezza «proprietaria» dell’eroe di Dostoevskij è il sintomo di una nuova concezione filosofica dell’identità personale.
Non basta (vorrei insistere su questo punto) contrapporre il «chi» al «che cosa», se il chiviene poi riportato a tratti oggettivi sia pure specifici, oppure a una soggettività irriducibile al mondo delle cose in virtù della propria interiorità, e della insopprimibilità del punto di vista della prima persona. Credo sia fondamentale interrogarsi sulla peculiarità del «chi» di Dostoevskij.
Dice ancora Bachtin: «Il personaggio di Dostoevskij non è una figura obiettiva, ma una parola autorevole, una pura voce; noi non lo vediamo, lo sentiamo; e tutto ciò che noi vediamo e sappiamo oltre le sue parole, non è essenziale e viene inghiottito dalla parola...» 9. Se volessimo tradurre quest’affermazione nel linguaggio di Peirce, e nella teoria del personaggio che può venir derivata dalla «nuova lista delle categorie», diremmo che forse nessun scrittore ha saputo dissolvere, al pari di Dostoevskij, la Secondità degli esseri di finzione. Secondità è tutto ciò che corrisponde al «principium individuationis», nella sua concretezza e contestualità (informazioni spazio-temporali, caratteri più o meno costanti, propensioni, disposizioni, ecc.). La Secondità rinvia alla sfera dell’effettuale, della Wirklichkeit, così come la Primità e la Terzità corrispondono rispettivamente alle sfere del possibile e del necessario.
Ora, un personaggio che respinge con la più grande ripugnanza tutto ciò che lo imprigionerebbe nella Secondità, non risulterà quasi disincarnato? Indifferente al proprio involucro e al proprio corpo? Ascetico, disattento: vediamo Raskol’nikov camminare per le vie di Pietroburgo coperto praticamente di stracci, e sormontato da «un cappello alto e rotondo, tutto liso, rossastro per l’usura, crivellato di buchi e coperto di macchie, senza più falde e ammaccato nel modo più indecente», senza vergognarsi né del suo abbigliamento né di quel copricapo se non nel momento in cui esso viene considerato come un pericoloso segno di riconoscimento (DeC, 15). In effetti Raskol’nikov è interessato unicamente al proprio destino, alle sue possibilità necessarie. Se a un individuo fosse dato di non essere un individuo, tranne che per la sua intelligenza e gli schemi della volontà; se fosse possibile sottrarsi alle costrizioni della materia, agli attriti della contingenza e, soprattutto, respirare un’aria più pura!
2. Perché tutto inizia, lo si ricorderà, con l’afa di Pietroburgo. Un luglio caldissimo, le vie oppresse dalla folla, l’odore dei mattoni, della calcina, della polvere, il tanfo delle bettole. Tutto sembra congiurare per accrescere la nausea dell’azione. Settecentotrenta passi dividono (e naturalmente, congiungono) lo stambugio in cui Raskol’nikov vive e l’appartamento della vecchia usuraia. In quest’appartamento è contenuto un forziere, colmo di denaro e di gioielli, e qui sono forse contenute - il protagonista di questa storia non ne è ancora sicuro - le sue possibilità necessarie.
«Anche allora il sole splenderà così!...» è il pensiero che passa nella sua mente quando, durante la «prova», vede la stanza tutta illuminata dai bagliori del tramonto (DeC, 18). Non sappiamo - possiamo solo ipotizzarlo - quale effetto produca lo splendore ambiguo di questa luce vespertina sull’animo dello studente e se, in qualche misura, ha favorito la sua azione. Orizzonte, sfondo, anticamera, aureola imprecisa, sguardo. Comunque sia, il bagliore che illumina e attrae la mente di Raskol’nikov proviene essenzialmente dal forziere in cui sono racchiusi i tesori della vecchia: oggetto che non manca di trasmettere il riverbero di qualche somiglianza.
Il percorso che lo studente (un sognatore diurno) compie sognando a occhi aperti è una via che collega due significanti in senso lacaniano, due luoghi che si rappresentano reciprocamente, che non coincidono secondo la logica del medesimo, ma che sono sostanzialmente lo stesso luogo secondo la logica dello stesso10; e che rappresentano - o mettono in scena - lo stesso soggetto: «un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante» 11. Nella Pietroburgo «smaterializzata» di un romanzo in cui domina la parola, l’ansia di una parola nuova, l’insicurezza delle sue formulazioni, la scissione delle prospettive, nello spazio tormentato di Dostoevskij sono le leggi - o meglio: è la logica, flessibile, del significante a determinare i modi dell’identità: non solo quella degli individui ma anche quella degli spazi, così poco effettuali.
Torniamo nell’alloggio di Raskol’nikov. Il termine russo che lo designa è kamorka, generalmente tradotto in italiano con stambugio o bugigattolo. Si tratta di un locale dalle dimensioni estremamente modeste, tanto da venir paragonato a un armadio (DeC, 13); lungo circa sei passi, contiene un sofà che occupa quasi tutta una parete e, per largo, la metà della stanza; il resto della mobilia consiste in tre sedie malandate e in un tavolo verniciato, su cui giacciono, ricoperti dalla polvere, alcuni libri e quaderni (DeC, 41). Il locale è basso, e un uomo con una certa statura vi si sarebbe sentito a disagio, con l’impressione di urtare da un momento all’altro il soffitto con il capo (DeC, 41). Raskol’nikov è di statura superiore alla media (DeC, 14). Eppure questo alloggio così squallido contiene qualcosa di prezioso, una pascaliana «cosa che pensa». Qualcosa che pensa continuamente, che fa coincidere con il pensiero la sua intera attività (DeC, 43): attività sublime, che nella serva Nastasja - così come in un’antica serva trace, la quale ebbe il privilegio di osservare la sbadataggine di Talete - suscita però un riso irrefrenabile 12.
Non basta la sublimità del pensiero - ammesso che sia tale: non giudicheremo qui l’idea di Raskol’nikov; limitiamoci a ricordare che quest’idea lo avvicina a Nietzsche 13 - a trasformare un bugigattolo in uno scrigno. Ma perché desiderare una tale metamorfosi? Magie di questo genere appartengono alle fiabe o, in casi fortunati, alla vita di coloro che detengono la signoria del presente: agli uomini ordinari, laddove è frequente che gli uomini straordinari non vengano riconosciuti, almeno non immediatamente (DeC, 302). Sarebbe davvero stupefacente se Nastasja potesse comprendere e riconoscere la grandezza dell’idea in quello studente che passa le sue giornate in una specie di tana, sdraiato su un sofà dove si getta sovente a dormire senza neppure svestirsi: «Sarebbe stato difficile lasciarsi andare più in basso e trascurarsi più di così; ma a Raskol’nikov, dato il suo stato d’animo, tutto questo faceva perfino piacere» (DeC, 41).
Perché lo stambugio in cui il protagonista vive possa trasformarsi in un prezioso scrigno, sarebbe necessaria un’altra metaforfosi: l’eroe di questa storia dovrebbe mostrarsi in grado di compiere un’azione che è giudicata spregevole dalla comune umanità, ma che egli potrebbe trasfigurare. Dalla teoria dell’umanità divisa in due specie consegue infatti che il significato di un’azione è nelle mani di chi la compie. E dunque per Raskol’nikov si tratta di essere all’altezza del significato che egli potrebbe conferire al suo gesto - a quale condizione? essere un individuo creatore, un forgiatore di significati, qualcuno che «ha il dono o il talento di dire una parola nuova» (DeC, 302). Da questa situazione circolare non si esce che sperimentando le proprie possibilità. Ma egli non lo ha già fatto? L’articolo che desta tanto interesse in Porfirij non implica forse nel suo autore una sufficiente certezza?
Sembra di no. Anzitutto perché un’intuizione, per quanto acuta o profonda, non è ancora una teoria; e il giovane che ha avuto l’audacia di concepirla potrebbe non avere più il tempo o le risorse per trasmetterle la forza e le dimensioni necessarie. Vi sono poi altri motivi che spingono urgentemente all’azione (ne riparleremo). Infine - e questo potrebbe essere l’elemento decisivo - perché solo portando un’idea sul terreno scabro dell’effettualità si placa l’irritante e penosa sensazione di vederla scivolare indisturbata sul ghiaccio. Insomma, per sentirsi all’altezza delle proprie possibilità occorre uscire dalla sfera del “semplicemente possibile”; Raskol’nikov ha bisogno di trovarsi sul terreno scabro, ha bisogno di provare l’ostacolo.
Il ritorno, l’intrusione della Secondità nella sfera dei possibili, assumerà la forma della circostanza fortunata e irripetibile: ascoltando casualmente una conversazione al mercato, il giovane verrà a disporre della certezza di poter trovare la vecchia in casa da sola, il giorno seguente alle sette di sera (DeC, 79-80) e verrà dunque a sapere che, nell’ordine della Secondità, il destino ha ormai deciso. Ma resta aperto il problema essenziale: sarò all’altezza della mia azione? ne sono degno? Somiglio davvero agli uomini superiori?
3. A queste domande Raskol’nikov non è in grado di rispondere. Non lo è adesso e non lo sarà per molto tempo, forse mai: perché egli non smetterà mai di confrontarsi con gli uomini che hanno saputo oltrepassare la Legge, e questa possibilesomiglianza lo tormenterà come l’aquila che divora senza sosta il cuore di Prometeo. La sua affinità con gli individui superiori è e nel medesimo tempo non è sufficientemente provata dall’idea che egli ha saputo concepire - che cosa gli è mancato dunque?
“Il suo delitto per lui consisteva unicamente nel fatto di non aver saputo reggerne il peso, e quindi di essersi costituito e di aver confessato” (DeC, 624).
Quanto alla scissione (raskol) di cui egli è il portatore e che è allusa nel suo stesso nome, occorre comprenderne rigorosamente il senso: se scissione significa «colpa», la colpa di cui il giovane si sente responsabile non consiste solo nel suo isolamento rispetto alla comunità, alla «totalità universale» 14, ma nella sua diversità rispetto agli individui superiori. Ogni qual volta percepisce la tracotanza e il grottesco di un gesto che avrebbe dovuto innalzarlo, trasformarlo, mentre lo ha consegnato alle sue debolezze inguaribili, Raskol’nikov viene preso da un’atroce disperazione:
“No, quegli uomini sono d’una d’altra pasta; quegli uomini non sono fatti così. Un vero distruttore, al quale tutto è lecito, mette a sacco Tolone, compie una strage a Parigi, dimentica l’esercito in Egitto, spreca mezzo milione di uomini nella spedizione di Mosca, se la cava con un gioco di parole a Vilna; e dopo che è morto gli innalzano statue; tutto gli è lecito, dunque...”
Un pensiero improvviso, diverso, lo fece quasi ridere:
“Napoleone, le Piramidi, Waterloo... e la grama, sordida vedova di un impiegato del registro, una vecchietta, un’usuraia, con un forziere rosso sotto il letto... Come potrebbe, anche un Porfirij Petròvic, ingoiare un rospo del genere?... Come potrebbero?... L’estetica non lo consente:‘Napoleone, andarsi a ficcare sotto il letto di quella vecchietta! Eh, che schifo!...’ “ (DeC, 317).
Ecco l’autentica vergogna: non di essersi «tagliato fuori» dalla comune umanità, ma di essere estraneo all’ideale: «Obbedisci, tremante creatura, e non aver desideri, perché queste non sono cose per te!...» (DeC, 318).
Si dirà che alla fine avviene una riconciliazione: l’individuo che si è rivoltato contro la Madre Terra, e ne ha conosciuta la collera, accetta l’espiazione che essa esige 15. Ma si potrebbe anche dire, con le parole di Dostoevskij, che «qui, ormai, comincia una nuova storia» (DeC, 631). La storia di Raskol’nikov si conclude con il castigo, e non con il castigo socialmente inflitto, bensì con la torturata coscienza di chi non sa rinunciare al proprio desiderio. Inutilmente ha detto a se stesso: Ubbidisci e non desiderare! Egli continuerà a non credere che quelle parole valgano anche per lui, benché, nello stesso tempo, non possa impedire che esse gli risuonino dentro.
Tutti gli uomini sognano, ma non tutti allo stesso modo. Nella stragrande maggioranza, sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente; ma alcuni di loro sognano di giorno, e ciò che sognano tenteranno di realizzarlo. Raskol’nikov non sembra appartenere a nessuna di queste due categorie. Egli è un ibrido, una formazione di compromesso: sogna durante il giorno, ma i suoi sogni prendono vita in un ripostiglio polveroso, in una stanza che somiglia a un armadio. Sono cosparsi dalla stessa polvere che copre libri e quaderni abbandonati sul tavolo. Quando si avvicina il momento di passare all’azione, Raskol’nikov si sente soffocare:
“Lasciò la panchina e si allontanò quasi di corsa; voleva tornare indietro, verso casa, ma all’improvviso si sentì nauseato all’idea che proprio là, in quell’angolo, in quell’orribile specie di armadio, tutta quella faccenda andava maturando già da più di un mese. Così, si lasciò andare dove lo portavano le gambe “ (DeC, 69).
Il giovane tenta di allontanarsi: la sua passeggiata lo porta in una zona dove non c’è polvere o calcina, dove non ci sono «né afa né puzzo né bettole» (DeC, 70). Qui egli può illudersi per un po’ di respirare. «Ma ben presto anche quelle sensazioni nuove, piacevoli, divennero morbose e irritanti» (Ibidem). Raskol’nikov beve un bicchierino di vodka, viene preso dalla sonnolenza. Si avvia in direzione di casa; «ma, arrivato al Petrovskij Ostrov, si fermò completamente sfinito; lasciata la strada, s’inoltrò tra i cespugli, cadde sull’erba e si addormentò all’istante» (Ibidem).
Adesso sogna. Si notino le condizioni in cui si esplica l’attività onirica, tra il calore del sole che sta tramontando 16 e il contatto con la Madre Terra. Rilevare queste condizioni non autorizza il passaggio a un banale simbolismo, anche se il sole che intossica l’aria con i suoi vapori e che sventola le sue inutili fiamme rosse nell’ora del crepuscolo potrebbe alludere alle insufficienze paterne. Più interessanti delle metafore isolate e verticali mi sembrano le metafore che possono comporre orizzontalmente una serie: armadio - lettera - sogno - baule. Contenitori? Esteriormente sì, anche se non tutti con eguale funzionalità. Più che un contenitore, un sogno è un trasformatore - ma non sono tali anche la stanza di Raskol’nikov e la lettera che gli è stata appena inviata da sua madre? In ogni caso questi oggetti contengono o trasformano possibilità o significati, più di quanto non racchiudano oggetti o eventi.
Dovremmo riportare integralmente a questo punto, per evitare le parzialità della parafrasi, il sogno di Raskol’nikov. Ma tanta scrupolosità non potrebbe che differire, ingenuamente, la scelta di una prospettiva per avviare l’analisi. Da ciò non dovrebbero nascere peraltro le preocupazioni tipiche di una tradizione filosofica che, nella versione del relativismo, considera il sorgere di una prospettiva individuale come un ostacolo - e soltanto come un ostacolo - alla conoscenza, anziché ammettere che quanto chiamiamo «la nostra soggettività» possa costituire uno strumento indispensabile. «Non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo» (Nietzsche) 17, ma ciò non significa che siamo insetti infilzati dalla nostra prospettiva come da uno spillo. Come se avessimo una prospettiva sola! Come se fossimo soggetti indivisi, moltiplicati solo dalla molteplicità (dei punti di vista, delle opinioni, ecc.). Come se una prospettiva avesse la rigidità di un canocchiale, fissato su un perno e rivolto invariabilmente nella stessa direzione.
Niente può essere paragonato al sogno sul piano dell’individualità. Se ogni sogno sembra scritto in una lingua privata, è probabile che questo derivi anche dall’esasperazione del punto di vista in prima persona. I sogni sono egoisti, dice Freud. Ma, dopo Freud, la parola egoismo non indica più, o perlomeno non indica sempre, la compattezza dell’Io: per quanto egoisti, e dominati dal punto di vista del sognatore, i sogni sono trasformazioni che incrinano le salde commessure del soggetto e lo inviano sulla scena in compagnia delle sue maschere.
4. Nel primo sogno di Raskol’nikov sembra però che le maschere e i travestimenti possano cadere facilmente; qui la retorica onirica sembra aver rinunciato alle sue bizzarrie, limitandosi ad «allegorizzare» gli elementi di una fantasia lungamente meditata. Da quest’impressione si potrebbe derivare un giudizio estetico piuttosto severo: Dostoesvskij si sarebbe servito di un repertorio di segni senza densità per comporre un microtesto caratterizzato da un patetismo enfatico e da altri tratti, che rinviano al codice dell’immaginazione melodrammatica (come lo ha definito Peter Brooks 18). La tendenza ad articolare in modo totale i problemi morali, il bene e il male nettamente personalizzati, l’assenza di psicologia a favore di un’esteriorizzazione dei conflitti, il trionfo spettacolare del male (il vero fascino del melodramma consiste nel momento del trionfo della malvagità), l’abbondanza di valutazioni morali, esplicite e immediate, la forzatura dei toni, l’iperbolicità e il manicheismo: nel primo sogno di Raskol’nikov tutte queste caratteristiche sono riscontrabili senza difficoltà. Tuttavia, prima di attribuire al protagonista di Delitto e castigo un’identità melodrammatica dobbiamo esaminare meglio la superficie del sogno, la profondità della sua superficie - l’opposizione banale tra le due nozioni va sostituita con un nesso congiuntivo. Il fatto che manchino gli indizi più vistosi attraverso cui si manifesta la logica onirica non deve indurci a sottovalutare il potenziale semantico di questo sogno, che una semiotica dei codici e degli stereotipi potrebbe travisare completamente. La domanda «che cosa rappresenta il sogno?» riguarda sempre l’identità del sognatore, e l’identità (come è già stato detto) non è sintetizzabile in un elenco di proprietà o di comportamenti. Non sappiamo ancora, però, se esista un solo modo - o un modo particolarmente appropriato - per formulare la domanda sull’identità.
Secondo Freud, interrogarsi su chi viene rappresentato nel sogno equivale a chiedersi: quante volte? e dove? Infatti «nel sogno posso rappresentare il mio Io in modi diversi, ora direttamente, ora per mezzo dell’identificazione con persone estraneee» 19. E l’identificazione (Identifizierung) fa sì che Io possa venir sostituito da un altro personaggio, oppure che sia il mio Io a celare un’altra persona, oppure che Io venga accompagnato da altre persone, riconoscibili ancora una volta come il mio Io. Occorre domandarsi allora dove si trova l’io di Raskol’nikov nel sogno della giumenta, e quante sono le sue apparizioni.
Nell’insieme, e in una prospettiva psicoanalitica, questo sogno rappresenterebbe la scena primaria, cioè una concezione sadica del coito: le divergenze iniziano, osserva Marinov, quando si deve indicare a quale personaggio, o a quali personaggi (bambino, padre, muzik, giumenta) il sognatore s’identifica, e in che maniera 20. Senza dubbio Raskol’nikov è il muzik che si accanisce, sino ad ucciderla, contro la vecchia e fragile cavallina in cui non si può non riconoscere un’immagine dell’usuraia; ma il sogno condenserebbe, secondo Marinov, diversi impulsi (incestuosi, parricidi, omosessuali): la giumenta sarebbe contemporaneamente la madre posseduta sadicamente e il padre ucciso (più originariamente, il padre di Dostoevskij ucciso dai suoi contadini); per quanto riguarda questo secondo livello, Raskol’nikov si sdoppierebbe nel muzik che uccide il padre e nel bambino che lo difende - il fatto che, dopo l’omicidio, egli soccorra Marmeladov investito da una carrozza, dimostrerebbe il senso di colpa verso il padre; inoltre Raskol’nikov si identificherebbe con la giumenta, a causa degli aspetti femminili della sua personalità (la futura sottomissione al giudice e l’identificazione con le due donne uccise sarebbero rappresentate dalla sua pietà verso l’animale martoriato). Nel sogno si manifesterebbero infine il tema del parto (giumenta che muore tentando di trascinare un carico troppo pesante = madre che muore tentando di partorire), e il crimine dello studente come aborto: uccidendo l’usuraia, Raskol’nikov cerca di partorire la sua idea delirante, ma non ci riesce.
Da una lettura trasparente, imperniata sul codice melodrammatico, siamo passati a una moltiplicazione di significati. Sorge il dubbio che le identificazioni affermate da Marinov siano davvero troppe, e in ogni caso che non debbano venir collocate tutte sul medesimo piano. Non possiamo però escludere che il sogno sia caratterizzato da un’oscillazione «identitaria», da un’indecisione profonda per quanto riguarda il luogo dell’Io: d’altronde i sogni sono eminentemente delle formazioni di compromesso.
La facilità con cui l’Io cambia forma in virtù della logica onirica dipende dalla «natura» del desiderio, che, in quanto desiderio di essere e non solo di avere, è intrinsecamente un meccanismo di spostamento, di condensazione, di trasformazione dell’identità. In quanto dominata dal desiderio di essere l’identità è identificazione, oltrepassamento di confini, assenza dal proprio posto. Quali sono dunque le identità in relazione a cui Raskol’nikov può dire - o vorrebbe dire Io?
Tra i resti diurni, rielaborati oniricamente, troviamo l’incontro con Marmeladov, la lettera della madre, lo sconosciuto che insidia una ragazza già sedotta e non in grado di difendersi. Nel sistema dei personaggi di Delitto e castigo, le figure maschili comprendono padri e mariti indegni: padri deboli, come Marmeladov, che ha assistito alle violenze sulla figlia e sulla moglie senza reagire, mariti come Svidrigajlov e, nelle intenzioni, Luzin. Figure paterne, probabilmente, immagini rispetto a cui l’identificazione per Raskol’nikov è impossibile, così come gli sarebbe impossibile approvare l’immagine del padre che appare nel sogno. Che cos’è infatti un padre, per Raskol’nikov? È un uomo che deve essere superato - questa la risposta che egli ha ricevuto da sua madre.
L’identità paterna non viene dunque cercata nel luogo dell’Altro, del Simbolico, ma all’interno del desiderio della madre, cioè nell’Immaginario 21. Negli ideali materni, nella sopravvalutazione materna: sarebbe diverso se il comandamento «supera tuo padre!» provenisse da una Legge astratta, che insegna a distinguere tra l’ideale e le persone che personificano l’ideale, tra la funzione e l’individuo che ne è il supporto sempre inadeguato; e se il figlio avesse avuto un padre abbastanza forte e «castrante», in grado di separarlo e di proteggerlo dalla confusività di un desiderio assoluto. Raskol’nikov deve difendersi da solo. L’identificazione con gli uomini superiori è un tentativo di adeguarsi all’ideale materno ma anche, nello stesso tempo, un tentativo di emanciparsi e difendersi dalla madre.
Difendendo, nello stesso tempo, qualcun altro. Nel romanzo di Dostoevskij l’insieme dei personaggi femminili sembra disporsi in una serie di coppie, collegate analogicamente. Per comodità visiva, potremmo ordinarle così:
- la madre di Raskol’nikov - la sorella (Dunja)
- la vecchia usuraia - sua sorella, Lizaveta
- Katerina Ivanovna - Sonja
- l’affittacamere - sua figlia
Naturalmente la quarta coppia svolge un ruolo minore; però non va trascurata in quanto mette in evidenza un tema fondamentale, quello cioè del debito. Sin dalla prima pagina del romanzo, vediamo Raskol’nikov passare davanti alla cucina della padrona di casa con «una sensazione vaga e invincibile di paura»; egli teme di imbattersi nella donna, perché è sempre in arretrato con l’affitto (DeC, 13). Ma anche con l’usuraia Raskol’nikov ha un rapporto economico - e per quanto diverse, sua madre e l’usuraia si somigliano a causa del rapporto di ascendenza nei confronti di una persona più giovane; infine, la madre e Katerina Ivanovna sono unite dall’ambiguità con cui consentono a una figlia (o ad una figliastra) di prostituirsi. Che per Dunja il matrimonio con Luzin equivalga a vendersi per denaro, e sia pure per un denaro destinato alle persone più amate, su questo Raskol’nikov non ha il minimo dubbio: tutte le figure femminili (madri ambigue, figlie sublimi, donne con un ascendente economico) appaiono dunque collegate e parzialmente intrecciate. Sottrarsi a questo labirinto femminile è il problema che Raskol’nikov non può differire ulteriormente:
«Era evidente che non era più possibile, ormai, torturarsi e soffrire passivamente, accontentandosi solo di riflettere sull’insolubilità dei problemi, ma occorreva assolutamente fare qualcosa, e subito, al più presto. Occorreva ad ogni costo decidersi a far qualcosa, oppure...
- Oppure, rinunciare addirittura alla vita! -, esclamò ad un tratto al colmo dell’esaltazione. - Piegarsi docilmente alla sorte così com’è, una volta per tutte, soffocando ogni cosa dentro di sé, rinunciando a ogni diritto ad agire, a vivere e ad amare!» (DeC, 61).
Il sogno tenterà di offrire una risposta a un problema insolubile: vi riuscirà? O lascerà indecisa la soluzione? Prima che Raskol’nikov si addormenti tra i cespugli del Petrovskij Ostrov, accade ancora qualcosa: è l’episodio della ragazza sedotta, che il protagonista vorrebbe aiutare e che poi abbandona, con un commento cinico. Quest’episodio sembra fornire almeno un elemento visibile al sogno (il gesto di scagliarsi contro un individuo fisicamente più robusto, gesto che viene bloccato nella realtà dall’intervento di un poliziotto e nel sogno dal padre, che afferra il bambino e lo conduce via dalla folla; DeC, pp. 63 e 76), ma forse vi contribuisce in maniera più sotterranea; l’ambivalenza del protagonista nei confronti della ragazza sconosciuta potrebbe corrispondere alla sua ambivalenza nei confronti della sorella: impedirà davvero che si abusi sessualmente di lei, o si limiterà a piangere come il bambino del sogno?
5. Dostoevskij affermerà, nei Fratelli Karamazov, che l’uomo è uno schiavo, sia pure con la costituzione del ribelle. L’uomo si ribella perché desidera l’autonomia, ma il suo desiderio viene alimentato e contraddetto dalla dipendenza. Non è possibile, adesso, approfondire quest’intuizione straordinaria e terribile, però è significativo che, quando deve esemplificare gli individui che hanno il diritto di uccidere, Raskol’nikov pensi ai legislatori: «Più avanti nel mio articolo, a quel che ricordo, io formulo l’idea che tutti...beh, diciamo, se non altro i legislatori e i fondatori della società umana, a partire dai più antichi sino ai vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone, e via discorrendo, tutti sino all’ultimo uomo siano stati dei delinquenti, già per il semplice fatto che ponendo una nuova legge, per ciò stesso infrangevano la legge antica, venerata dalla società e trasmessa dai padri» (DeC, 301) 22.
Che l’aporia della condizione umana venga perfettamente incarnata da Raskol’nikov, appare subito chiaro se si accetta di passare, almeno temporaneamente, per la strettoria edipica. Nell’ex studente che vive in una profonda trascuratezza, e che ha compiuto un duplice omicidio, vi è l’orgoglio di essere superiore al padre: però quest’orgoglio dipende dalla madre (nella cui memoria i modesti tentativi letterari del mariti sono ben presenti), dunque Raskol’nikov continua a dipendere da lei, a essere il suo Fallo. Non vi è in lui l’orgoglio della propria autonomia, bensì l’orgoglio di essere orgogliosi 23: il che significa essere orgogliosi senza fondamento, senza motivo, cioè essere orgogliosi di nulla.
L’orgoglio di Raskol’nikov appartiene al piano dell’Immaginario. È un orgoglio che va e viene (secondo la tipica volubilità dostoevskiana). L’eroe di Delitto e castigo è tutto e nulla; il desiderio dell’Altro lo innalza, ma chi viene innalzato dal desiderio dell’Altro - con tutta l’ambiguità del genitivo - rimane una creatura dipendente, un essere destinato all’obbedienza.
Questa contraddizione, Raskol’nikov oscuramente la percepisce. E in ogni caso la trascina al di là dell’Edipo, collocandola nel cuore del Simbolico (che non è l’Edipo, se non in misura ridotta): in quasi tutti gli uomini, egli dice, l’impulso alla ribellione viene soffocato dalla mancanza di coraggio, e resta un impulso privato.: «Mmh... già... All’uomo passa tutto per le mani e tutto si lascia scappare per pura vigliaccheria... Questa è una verità assiomatica... Che strano! Cos’è che fa più paura alla gente? Una nuova iniziativa, una parola nuova» (DeC, 14). Solo quando entra nella dimensione pubblica, nello spazio del Simbolico, solo diventando linguaggio, la ribellione può redimersi dal sangue che essa è obbligata a versare. Una parola nuova, una nuova legislazione, una nuova tavola dei valori. Della necessità del Simbolico, Raskol’nikov appare perfettamente consapevole.
Ma esiste un modo, una via, per uscire dalla condizione aporetica dell’umanità? Se c’è, non può consistere che in un paradosso:
«senza forza non otterrai niente; e la forza bisogna saperla conquistare con la forza stessa: ecco quello che loro non sanno» aggiunse con orgoglio, sicuro di sé, trascinandosi a stento via dal ponte. Orgoglio e fede in se stesso crescevano in lui ad ogni istante (DeC, 221-222).
Questa riflessione è successiva al sogno, e all’omicidio; tuttavia si inserisce nel medesimo solco di pensieri, va a sfociare nell’idea di Raskol’nikov. La sua pertinenza in rapporto all’analisi del primo sogno mi sembra indiscutibile: che cosa fa il muzik, se non alimentare la sua violenza con la violenza che mette in atto?
Dunque Raskol’nikov rappresenta se stesso nel muzik, oltre che nel bambino. Questo punto mi sembra fuori discussione. Ciò che resta fortemente problematico, invece, è se il protagonista si identifichi anche nell’animale così crudelmente ucciso - «Ho forse ucciso quella vecchietta? Ho ucciso me stesso, non la vecchietta» dirà poi a Sonja (DeC, 482); e soprattutto resta da chiarire il senso di questa frantumazione, di questo «scisma» dell’Io.
Disponiamo degli elementi per tentare un’interpretazione? Credo di sì, anche se l’interpretazione non ci condurrà ad un senso inteso come un «senso veicolato», un messaggio o un significato ultimo. Possiamo escludere, ad esempio, che la scena onirica scaturisca da un impulso parricida: sia perché il riferimento all’uccisione del padre di Dostoevskij ci porterebbe sul terreno della psicobiografia, e apparirebbe dunque illegittimo nella prospettiva di un’analisi rigorosamente testuale, sia perché il sogno sembra esprimere semmai il desiderio di un padre vero, un padre non sadico (come il muzik) e non impotente (come il padre spettatore). Più suggestiva appare l’ipotesi, avanzata da Marinov, di un parto fallito, di un aborto - a condizione però di staccare quest’ipotesi da ogni residuo di fisicità, e di svilupparla in una direzione filosofica. In ogni caso non dovremo limitarci a un’interpretazione «per livelli», che giustapponga cioè diversi livelli di lettura, tutti in qualche modo plausibili 24.
Ammettendo che Raskol’nikov si identifichi anche con la giumenta, in quanto anch’egli trascina un peso troppo grande (l’ambizione di essere un individuo superiore), il muzik sadico ci appare come il Modello irraggiungibile, il grande leader capace di sacrificare la vita altrui per raggiungere una nuova Legge, una Legge più alta e più elevata, o forse soltanto l’autonomia, il nomos che dipende solo dal legislatore. Non è forse questo l’ideale di Raskol’nikov?
Ma la molteplicità delle identificazioni (reali e ideali) non vorrà dire, anzitutto, che il tema del sogno è la molteplicità delle identificazioni? La scissione dell’Io? Non una scissione manichea, come vedremo. Il sogno tenta di rispondere - non è detto che vi possa riuscire; in tal caso diremo con Ovidio, e con Freud: «Ut desint vires, tamen est laudanda voluntas» 25 - a un’indecisione ontologica. Chi sono Io? si chiede ossessivamente Raskol’nikov; un essere superiore o un pidocchio, come tutti gli altri? Ciò che più lo tormenta è la possibilità di arrogarsi un diritto (di vita e di morte) senza averne la forza – cioè la possibilità.
Nei termini di Lacan, Raskol’nikov è privo di un modello paterno, non ha avuto un padre tale da consentirgli di realizzare positivamente l’identificazione secondaria, l’accesso al Simbolico. Per il giovane protagonista di Delitto e castigo, il Simbolico è risultato quasi immediatamente «non edipico», almeno nel senso che egli è stato costretto a cercare i propri modelli di identità direttamente sul terreno della storia: lì ha trovato le figure che cercava, i crudeli e potenti legislatori; ma senza uscire interamente dall’Edipo, restando prigioniero di una dipendenza materna. La domanda «chi sono?» ammette una lacerante moltiplicità di risposte.
Tutti i sogni, anche i sogni d’angoscia, nascono da un desiderio, o da più desideri, che dovranno unirsi in un compromesso, dice la teoria di Freud. Se anche non valesse per tutti i sogni, questa teoria sembra la più adatta per interrogare la scena onirica in cui l’Io di Raskol’nikov è presente in molti Io, così come sono molti i desideri che il sogno prova a realizzare. C’è un primo desiderio, uccidere la vecchia usuraia, il desiderio di avere la forza, la brutalità, la determinazione per farlo, senza lasciarsi vincere dalla pietà. E c’è un secondo desiderio, quello di non uccidere - ma ciò significa sacrificare l’esistenza e la felicità di una sorella, lasciare che Dunja sposi Luzin; e questo vorrebbe dire «piegarsi docilmente alla sorte così com’è, una volta per tutte, soffocando ogni cosa dentro di sé, rinunciando ad agire, a vivere e ad amare» (DeC, 61). Tra i materiali che il sogno deve elaborare, vi è dunque un aut aut insostenibile.
Questo incubo logico viene risolto solo parzialmente, e sul piano dei connettivi logici: un «aut... aut» diventa un «et...et». Infatti Raskol’nikov è il superuomo capace di uccidere (la giumenta, l’usuraia) e di spezzare la dipendenza materna (solo in questo senso la serie potrebbe arricchirsi di un terzo termine, la madre, e non perché il sogno evochi la Urszene, il coito parentale); ma egli è anche un sottouomo, così abietto e vile da sacrificare sua sorella. Il dilemma sfocia in una condensazione: nel sogno l’individuo capace di uccidere non è un essere superiore, ma un plebeo, un servo – è padrone della giumenta! ma pur sempre un plebeo), e la vittima è contemporaneamente un essere inutile (una vecchia cavalla) e una creatura innocente. Nondimeno la possibilità, così ontologicamente fondata, di essere un plebeo, viene rifiutata dal sognatore – e il sogno gli concede, sia pur faticosamente, quest’ultima illusione: così egli si riconosce esplicitamente solo nel bambino che prova un’infinità pietà per la vittima, che generosamente vuole difenderla, e che deve rassegnarsi alla propria impotenza. Potrebbe essere questo, il terzo desiderio del sogno: evitare la scelta, tornare all’innocenza infantile, liberarsi da un peso troppo grande che fortunatamente i bambini non sono costretti a portare; perché l’impotenza in un bambino non è ancora una colpa.
Quando si sveglia, Raskol’nikov mantiene ancora per un po’ la sua identità onirica «dichiarata»: «io non sono Mikòlka, io non ucciderò; non prenderò una scure, non le fracasserò il cranio, ecc.». Per breve tempo il sognatore si sentirà liberato da un maleficio («Come se nel suo cuore un bubbone, che era andato maturando per tutto il mese, d’un tratto si fosse aperto», DeC, 77). Se però recuperiamo il filo dei suoi pensieri, successivi al sogno, non troviamo solo una reazione inorridita, eticamente corretta, e melodrammatica. Troviamo ancora il dubbio, e non un dubbio morale bensì il timore di non farcela:
«Se ancora ieri, dico ieri, quando andavo a compiere questa... questa prova, ancora ieri ho capito perfettamente di non farcela... Perché continuo ad avere dei dubbi?
(...) No, non ce la farò, non ce la farò! Anche se tutti miei calcoli sono perfetti, e tutto ciò che ho deciso in questo mese è chiaro come il giorno e giusto come la matematica! O Signore! Tanto, non mi deciderò comunque a farlo! Non ce la farò, non ce la farò!» (DeC, 77).
Il protagonista di questa storia, dice Dostoevskij, non riuscì mai a comprendere perché, quel giorno, «lui che era così stanco, esausto, e avrebbe avuto tutte le ragioni per tornarsene a casa dalla via più corta, vi era invece tornato passando dalla piazza Sennàja, situata completamente fuori dalla sua strada» (DeC, 78). Ebbene, alla luce delle emozioni e dei pensieri contraddittori di Raskol’nikov, dopo il risveglio, questo giro del tutto superfluo appare tutt’altro che incomprensibile. Se il sogno avesse rappresentato il trionfo delle esigenze morali, il ritorno ai valori della tradizione, e la liberazione definitiva dal fardello che lo aveva oppresso così a lungo, Raskol’nikov sarebbe tornato a casa, nel suo stambugio, in quella specie di armadio, per riaprire i quaderni coperti di polvere. Ma a questo egli non si è ancora rassegnato.
Se prosegue a girovagare per la città, è perché spera ancora di trovare la «forza necessaria»: per annullare ciò che insiste come Necessità non basta un sogno angoscioso, un sogno orribile.
6. In questo giro del tutto superfluo Raskol’nikov trova ciò che sperava di incontrare - inconsciamente? no, non credo si possa parlare di «inconscio», a meno di confondere la rimozione con una rassegnazione effimera, con una sensazione di impotenza 26: ciò che Raskol’nikov può ancora sperare di incontrare è il kairòs, la circostanza fortunata, la benevolenza del destino - in nessun altro modo egli potrebbe acquistare la forza necessaria. Questa circostanza favorevole è un frammento di conversazione, da cui egli apprende che il giorno dopo, alle sette di sera, la vecchia usuraia sarebbe rimasta in casa completamente sola (DeC, 78-80).
Adesso non può più sottrarsi all’azione, e però non è stato lui a decidere: «d’un tratto si sentì come se avesse perso ogni libertà di ragionamento e ogni forza di volontà e tutto si fosse deciso una volta per sempre» (DeC, 80).
Certo, la tentazione è irresistibile; è come se il diavolo si fosse messo sulla sua strada, «come se lo stesse aspettando lì, al varco, a bella posta!» (DeC, 78). Dopo infinite esitazioni e oscillazioni, il Male trionfa. Ecco di nuovo lo schema etico, melodrammatico, manicheo. Nondimeno un’interpretazione etica del nesso tra delitto e castigo risulta, con ogni probabilità, del tutto fuorviante. A dircelo è il sogno che abbiamo analizzato.
Un sogno aporetico, e non un sogno manicheo. Il tentativo di giungere a una «formazione di compromesso» termina con la riproposizione di un conflitto. Dobbiamo chiederci allora in che consista precisamente l’aporia. Non è forse Raskol’nikov un personaggio aporetico, incatenato a se stesso? Ma qui incatenato a se stesso vuol dire «all’Altro che è Io» 27. Aporia è un altro nome della dipendenza.
Che uccidendo la vecchia Raskol’nikov uccida se stesso è un’affermazione che rilancia la prospettiva etica, almeno fino al momento in cui non si comprende che uccidere se stesso è per l’eroe di Dostoevskij l’unico modo di liberarsi, spezzando il terribile legame di dipendenza che fa di lui un essere umano, un essere qualsiasi, ciò che egli non vuole e non accetta di essere: ciò che egli non è, benché gli manchi la forza necessaria a raggiungere la condizione superiore. Così la sua anima è costantemente tormentata - ma non dall’orrore per l’omicidio, o dal rimorso.
Raskol’nikov è chiamato a vivere – benché egli non sia in grado di viverla - un’esistenza extramorale. Non il pensiero dell’omicidio suscita orrore e disperazione, ma il pensiero di se stesso, omicida, e simile al muzik che appare nel sogno. L’omicidio è necessario - per spezzare la somiglianza con i propri simili -, le forze per compierlo sono insufficienti. L’interpretazione etica del nesso tra delitto e castigo enfatizza la necessità del castigo, mentre ciò che l’intero romanzo di Dostoevskij mostra è la necessità del delitto.
In una prospettiva extramorale, che riflette il lato ribelle e sedizioso degli uomini, l’etica stessa appare come una proposta e un’occasione di dipendenza; e anche se l’uomo, pur essendo costitutivamente un ribelle, è un essere dipendente - l’animale più coraggioso (Nietzsche), e l’animale più dipendente -, la ribellione alla Legge rimane necessaria. Non può esistere autonomia finché esiste la Legge. Anzi, della Legge si potrebbe dire che nessun altro «oggetto» è altrettanto tossico, nessun altra «cosa» ci rende tanto incompleti ed eteronomi. Fin qui, fino a questa aporia, si spinge l’idea della necessità, e dell’impossibilità, di abolire la Legge. Non è un caso che i più grandi criminali siano i legislatori.
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Note
- Th. E. LAWRENCE, The seven pillars of wisdom, 1926 (trad. it. Bompiani, Milano, 1949, p. 15).
- «La concezione semitica del mondo ignorava i mezzi toni. Popolo di colori primari, o meglio di bianchi e di neri, vedevano il mondo disegnato a contorni precisi (...) Conoscevano solo verità e menzogna, fede e empietà, senza il nostro ambiguo corteo di sfumature» (Ibidem, p. 31).
- Cfr. M. BACHTIN, Dostoevskij. Poetica e stilistica, trad. it. Einaudi, Torino, 1968, p. 117.
- F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, 1866, trad. it. Garzanti, Milano, 1969, p. 302 (versione di Pietro Zveteremich). D’ora in avanti il romanzo verrà citato con la sigla DeC, seguita dal numero di pagina della traduzione italiana.
- M. BACHTIN, op. cit., p. 65.
- F. DOSTOEVSKIJ, Ricordi dal sottosuolo, 1864, trad. it. in Il romanzo del sottosuolo, a cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 218.
- Mi permetto di rinviare a G. BOTTIROLI, Differenze di famiglia, Introduzione a Problemi del personaggio, Bergamo University Press, Bergamo 2001, pp. 11-46.
- M. BACHTIN, op. cit., pp. 68-69.
- M. BACHTIN, op. cit., p.73.
- La distinzione tra il medesimo (das gleiche) e lo stesso (das selbe) è affermata da Heidegger in più occasioni. Cfr. ad esempio “…Poeticamente abita l’uomo …” in Vorträge und Aufsätze, 1954, trad. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 129.
- J. LACAN, Ecrits, 1966 (trad. it. Einaudi, Torino, 1974, p. 822).
- Cfr. H. BLUMENBERG, Il riso della donna di Tracia, 1988, trad. it. Il Mulino, Bologna.
- Cfr. SESTOV, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche, 1903, trad. it. ESI, Napoli, 1950. Ringrazio Rosanna Casari per avermi fatto scoprire questo magnifico saggio.
- V. IVANOV, Dostoevskij. Tragedia Mito Mistica, 1932, trad. it. Il Mulino, Bologna 1994, p. 93.
- Ibidem, 91.
- Lo apprendiamo alcune pagine dopo, DeC 77.
- F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft, 1882, aforisma 374 (trad. it. La gaia scienza, Adelphi , Milano, 1965).
- Cfr. P. BROOKS, The Melodramatic Imagination, 1976 (trad. it. L’immaginazione melodrammatica, Pratiche, Parma, 1985).
- S. FREUD, Die Traumdeutung, 1899 (trad. it. in Opere, vol. 3, Boringhieri, Torino, 1967, p. 297).
- V. MARINOV, Figures du crime chez Dostoïevski, Presses Universitaires de France, Paris, 1990, p. 23.
- Uso questi termini, ovviamente, nell’accezione lacaniana.
- Questo punto viene evidenziato anche nel libro di Jacques ROLLAND, Dostoïesvki. La question de l’autre, 1983, trad. it. Dostoevskij e la questione dell’altro, Jaca Book, Milano, 1990, p. 100, sia pure in una prospettiva di lettura ispirata a Lévinas e che definirei prevalentemente «etica».
- «È forse orgoglio (gordost’), questo, Dunja?». «Sì, Rodja, è orgoglio». Negli occhi spenti di lui passò come una fiamma: sembrava che gli facesse piacere l’idea di essere ancora orgoglioso (DeC, p. 594).
- È il difetto principale del libro (peraltro assai stimolante) di Marinov.
- OVIDIO, Epistole dal Ponto, libro 3, 4.79. Quest’espressione viene citata da Freud quando discute alcune complicazioni della sua teoria del sogno, e precisamente i sogni d’angoscia e gli incubi (Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, 1917, trad. it. in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 383).
- In casi di questo genere ha perfettamente ragione Bachtin a dire che la coscienza è molto più terribile dell’inconscio (Piano per il rifacimento del libro su Dostoevskij, 1961, in L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino, 1988, p. 325).
- Mi sembra inevitabile vedere in questa formula un rovesciamento di quella, celebre, di Rimbaud «Io è un altro».