Con occhi di talpa fissi sull’esperienza

In “Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema” (a cura di V. Frescura e C. Papparo), Sassella, Roma 2000

1. Il sintagma che svolge la funzione di titolo appartiene a Kant, e precisamente allo scritto: Sopra il detto comune: “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” (1793). L’oggetto della riflessione di Kant è il rapporto tra teoria e pratica, ma anche - indirettamente  - lo statuto e il valore che dovremmo attribuire a un qualsiasi “detto comune”: un topos, un luogo del pensiero ricco di virtualità, oppure uno stereotipo, uno schema irrigidito e povero di senso? Sembra che i detti comuni appartengano alla doxa, all’opinione comune, all’esperienza comune . L’esperienza svolgerebbe dunque un duplice ruolo: come sinonimo di “pratica”, è un termine parziale che si contrappone alla teoria; come equivalente di “opinione comune, sfera dei detti comuni” è un termine globale, che ingloba se stesso nell’accezione precedente.

Il rapporto fra teoria e pratica è doppiamente conflittuale: non soltanto la pratica si oppone alla teoria, ma un modo di pensare pratico, doxastico, tenta di escludere un modo di pensare epistemico, autenticamente filosofico. La differenza tra questi due modi è chiaramente riconoscibile in base al fatto che, per la doxa, la frontiera tra due termini opposti è una nozione ovvia: una frontiera divide due spazi complementari, e non necessariamente antagonisti. Il conflitto nascerebbe dal mancato riconoscimento di una gerarchia: nel nostro caso, sarà sempre l’esperienza ad avere ragione sulla ragione in quanto è il termine più vasto e inglobante. Ci sarebbe una razionalità dell’esperienza a cui la razionalità deve inchinarsi. Ammettiamolo pure: ma l’espressione razionalità dell’esperienza congiunge due termini che la frontiera avrebbe dovuto separare. La doxa si contraddice, e in tal modo confessa la propria inferiorità, la propria impotenza. Il problema va ripensato completamente.

In proposito, Kant offre alcune indicazioni di grande rilievo:

  1. fra la teoria e la pratica deve esserci un termine medio di congiunzione e di passaggio, e questo termine è il giudizio, la facoltà di distinguere se il caso cade o no sotto la regola;
  2. l’incompletezza della teoria non implica sempre, ed esclusivamente, che ci si debba rivolgere alla pratica. Forse “non vi era abbastanza di quella teoria che l’uomo avrebbe dovuto ricavare dall’esperienza”: mancava una teoria degli attriti;
  3. quando le condizioni empiriche dell’esecuzione di una legge vengono elevate a condizioni della legge stessa, quando l’esperienza avuta fino ad ora acquista il diritto di dominare sulla teoria, la necessità si dissolve nella regolarità, e la teoria nella pratica. La co-appartenenza di esperienza e ragione lascia il passo alla doxa:
“e, con tono altamente sprezzante, si pretende di riformare la ragione mediante l’esperienza (durch Erfahrung) anche in ciò che della ragione forma il più alto titolo di gloria, con la presunzione di veder più lontano e più sicuramente con occhi di talpa (mit Maulwurfsaugen) fissi sull’esperienza, che non con gli occhi che furono dati a un essere fatto per camminare in modo eretto e per guardare il cielo”

L’enfasi di questo passo potrebbe suggerire l’opportunità, se non la necessità, che la relazione fra teoria e pratica trovi la propria sintesi, cioè il termine inglobante, nella teoria. Saremmo così agli antipodi della posizione precedente, quando a inglobare l’intera relazione era la pratica, l’esperienza. A ben vedere, però, entrambe le posizioni sono false. Kant non auspica una sintesi sbilanciata dal lato del razionale: anzi, gli sembra “più tollerabile un ignorante, che considera la teoria non necessaria e superflua per la sua pretesa pratica, che non un dotto, che esalta la teoria e il suo valore per la scuola (solo al fine, poniamo, di esercitare il cervello) e, nello stesso tempo, afferma che le cose nella prativa vanno altrimenti”. Da ciò non consegue, peraltro, che la co-appartenenza tra esperienza e ragione debba venire intesa come un’interazione tanto paritaria quanto cieca: ne risulterebbero occhi di talpa che fissano non più l’esperienza, ma la relazione tra ragione ed esperienza. Una cecità di secondo grado, una forma di stupidità. Kant pensa invece a un’interazione illuminata e articolata da un termine medio, dal giudizio, che è intelligenza flessibile.

2. Né interazione cieca, né primato di un termine sull’altro: ma la funzione svolta dal Giudizio non comporta forse una superiorità del versante razionale su quello empirico? Sì, indubbiamente. Non bisogna sottovalutare tuttavia i progressi resi possibili dalla nuova impostazione: dalla dicotomia generica tra ragione ed esperienza siamo passati a una visione pluralista delle nostre facoltà razionali; e abbiamo imparato a diffidare delle dicotomie. È sorto in noi il sospetto che le dicotomie, di cui si appaga la doxa, appartengano allo spazio del rovesciabile, delle mezze verità - cioè della doppia falsità. Ritroviamo il problema di Kant in un aforisma di Nietzsche:

Perché non siamo idealisti. Un tempo i filosofi avevano paura dei sensi: abbiamo noi forse disimparato troppo questa paura? Oggi noi siamo tutti quanti sensisti (Sensualisten), noi uomini del presente e dell’avvenire in filosofia, non già secondo la teoria, ma secondo la prassi, la pratica ...”

Il titolo di questo aforisma ha la forma di una promessa. L’assenza del punto interrogativo corrisponde a un impegno da parte dell’enunciatore: io vi spiegherò - che cosa? perché non siamo idealisti. E tuttavia l’aforisma non offre nessuna spiegazione. Si limita a constatare un mutamento epocale di mentalità: per gli antichi, o quantomeno per i filosofi antichi, l’idealismo era la più spontanea tra le concezioni dell’esistenza. Per filosofare occorreva “mettersi cera nelle orecchie”, e sospendere la pericolosa musica della vita. Invece gli uomini moderni sono spontaneamente sensisti : tutti noi lo siamo, “noi uomini del presente e dell’avvenire in filosofia” - ma, aggiunge Nietzsche, lo siamo nella pratica, e senza essere capaci di fornire una giustificazione teorica. Siamo sensisti, come suggerisce l’inizio dell’aforisma 372, semplicemente perché abbiamo disimparato la paura dei sensi. Ma abbiamo imparato ad ascoltare la vita, in quanto la vita è musica? Oppure abbiamo solo acquisito la tendenza a giudicare in senso contrario alla filosofia antica, e anche a quella moderna, che rimane idealista, gelida, vampiresca?

La difficoltà a presentare una spiegazione, e non una semplice constatazione, dei motivi che hanno reso possibile l’affermarsi del sensismo, è confermata dall’enunciato con cui l’aforisma si chiude: “E noi non temiamo i sensi, perché ...”. L’enunciato si interrompe, quasi non potesse concludersi se non duplicando tautologicamente la propria apertura: noi non temiamo i sensi, perché ... non siamo più idealisti .

Dovremmo chiederci, allora, che cos’è una tautologia. È davvero un enunciato sterile, privo di qualunque valore di verità? Si può accettare la rivalutazione tentata da Perelman, il quale osserva giustamente che, in espressioni come “i bambini sono bambini” l’identità tra i due termini è solo apparente, e che il destinatario di queste espressioni, nel momento in cui le riconosce come figure, è invitato a distinguere i termini cogliendone l’esatto valore semantico; resta però la necessità di un’altra distinzione. Nell’ambito delle tautologie apparenti, non dovremo confondere gli enunciati persuasivi (il cui valore argomentativo è puramente conversazionale: ad esempio, “la mamma è la mamma”), e gli enunciati cognitivi, quelli cioè in cui dall’analisi semantica scaturiscono implicazioni di ordine referenziale.

Ebbene, dire che “non temiamo più i sensi perché siamo diventati sensisti” oppure “perché non siamo più idealisti” è una tautologia vera o solo apparente? Ha delle implicazioni cognitive? Potrebbe averle in quanto delinea un’alternativa: in filosofia o si è idealisti o si è sensisti. Ma è proprio nei riguardi di quest’alternativa che Nietzsche prende le distanze: all’inizio, quando esprime il dubbio che i moderni abbiamo disimparato troppo ad avere paura dei sensi (“haben wir - diese Furcht vielleicht allzusehr verlernt?”); e a metà della sua riflessione, quando esprime in forma alquanto curiosa un auspicio:

“oggi noi vorremmo essere propensi a giudicare precisamente nel senso opposto (cosa questa che potrebbe essere in sé altrettanto falsa)”
Nun möchten wir heute geneigt sein, gerade umgekehrt zu urteilen (was an sich noch ebenso falsch sein könnte)

Vorremmo essere propensi: una propensione, una tendenza, possono essere oggetto di volere? Per Nietzsche la volontà vuole; i suoi oggetti sono oggetti “interni”, il suo dinamismo consiste nel pervenire a stessa - diventare ciò che si è. È davvero bizzarro che Nietzsche scriva una cosa di questo genere: “noi vorremmo aver voglia di ecc.” . Questo raddoppiamento, questa tautologia, possono solo esprimere un’esitazione: noi vorremmo - è un dato di fatto: noi, uomini moderni - noi tendiamo a giudicare in senso opposto e a capovolgere i presupposti della filosofia antica. Vorremmo poter dire che “le idee, con tutto il loro gelido, anemico aspetto” sono “seduttrici peggiori dei sensi”: ma in questo rovesciamento dei valori, che la società moderna di fatto ha già realizzato, c’è qualcosa di troppo semplice.

“Ogni verità è semplice”. - Non è questa una doppia menzogna?
(Crepuscolo degli idoli. - Sentenze e frecce, 4).

Idealismo e sensismo sono “verità” semplici: si tratta perciò di due concezioni entrambe false. La verità inizia con le distinzioni necessarie:

In summa: ogni idealismo filosofico è stato fino a oggi qualcosa come una malattia, quando non fu, come nel caso di Platone, l’accorgimento di una salute sovraricca e pericolosa, il timore della strapotenza dei sensi, la saggezza di un saggio socratico. Forse è soltanto che noi moderni non siamo abbastanza sani per sentire la necessità dell’idealismo di Platone? (Vielleicht sind wir Modernen nur nicht gesund genug, um Platos Idealismus nötig zu haben?)”
(Gaia scienza, af. 372)

Dall’idealismo come malattia all’idealismo come “accorgimento” (die Vorsicht) della salute: la “cera nelle orecchie” non come reazione bensì come astuzia. La cera nelle orecchie degli altri - è la trovata di Ulisse - per ascoltare la musica delle sirene, la musica della vita. L’idealismo di Platone che nasce non dal timore dei sensi, ma dal timore della strapotenza dei sensi (die Furcht vor übermächtigen Sinnen). L’idealismo come teoria delle idee, come teoria. Nietzsche si avvicina a Kant.

3. Fare teoria è rifiutarsi di trasformare un contesto di applicazione in una legalità. Ma se la legalità appartiene solo alla legge, quest’ultima rischia di cadere nell’impotenza e nel ridicolo: rischia cioè di non valere mai nella pratica. Che cosa diremmo di un artigliere in grado di calcolare le traiettorie dei proiettili mediante le leggi della balistica, ma totalmente incapace di colpire un bersaglio? Ecco la necessità di una mediazione, resa possibile dal Giudizio, e che si manifesta in una teoria degli attriti.

Si tratta ora di vedere se il sensismo - in una duplice accezione: come prospettiva filosofica e come epistemologia implicita nel discorso scientifico - sia compatibile con una teoria degli attriti. Contro chi cerca la verità nei sensi, nell’esperienza, nei fatti, il giovane Nietzsche aveva osservato che:

“il fatto è sempre stupido” (das Fakt immer dumm ist).

Ma perché i fatti sono stupidi? Quest’affermazione è troppo suggestiva per non essere vera, e tuttavia occorre analizzarla. I fatti sarebbero stupidi in sé? Intrinsecamente? Diciamo piuttosto che lo sono in quanto ( e se) pretendono di acquistare uno statuto modale improprio, illegittimo. I fatti non sono stupidi in quanto rientrano nella dimensione del dictum, ma solo se, presentandosi come modus, negano la sfera semantica e ne usurpano i diritti. La Dummheit è il fattuale che invade e vuole assorbire (e comunque soggiogare) il semantico. Nota TS

Nietzsche indica tre strategie di aggressione. La prima consiste nella moltiplicazione dei fatti, la seconda nell’evacuazione del senso, la terza - la più sottile - in un prospettivismo non selettivo.

A sua volta, la via del molteplice può condurre alla Dummheit in diversi modi, accomunati, forse, da una voracità dell’occhio che “attende per così dire al varco la realtà” e “si porta ogni sera a casa una manciata di oggetti curiosi”. Questa “psicologia da rigattieri”, che caratterizza l’arte naturalistica (ad esempio i romanzieri parigini), ignora i principi da cui è governata la sfera estetica:

“La natura, valutata in senso artistico, non è un modello. Essa esagera, distorce, lascia lacune. La natura è il caso. Lo studio “secondo la natura” mi sembra un cattivo segno: tradisce sottomissione, debolezza, fatalismo, - questo giacere nella polvere dinanzi ai petits faits è indegno di un artista totale. Vedere quel che è - si addice a un altro genere di spiriti, quelli anti-artistici, aderenti ai fatti. Si deve sapere chi si è ...”

7 . Scorribande

L’aderenza ai fatti è l’antistile. Ma è anche la malattia dello storico e dello scienziato come figure della modernità. In Ecce homo, compilando una lista dei segni di cattiva educazione, Nietzsche elenca “la famosa “oggettività”, la “compassione per tutto ciò che soffre”, il “senso storico” con il suo servilismo di fronte al gusto altri, con il suo leccare i piedi ai petits faits, la “scientificità” “(360-361). In tutte queste forme di comportamento lo sguardo diventa “malocchio” - “un’ottica falsa, una vista obliqua, qualcosa di coatto e di iperbolico”.

La seconda strategia mira all’evacuazione del senso. Essa corrisponde alla “scienza” moderna (le virgolette sono di Nietzsche) come pregiudizio. “Wissenschaft” als Vorurteil. Lo scienziato appare qui come il rappresentante di un “ceto medio dello spirito”, estraneo ai veri grandi problemi e interrogativi dell’esistenza. La sua fede è il meccanicismo, vale a dire la possibilità di ridurre il mondo a un’unica interpretazione; ma

“una siffatta interpretazione, che altro non ammette se non numeri, calcoli, uguaglianze, cose visibili e palpabili, è una balordaggine e una ingenuità, posto che non sia un’infermità dello spirito, un’idiozia! (...) Un’interpretazione “scientifica” del mondo ... potrebbe essere di conseguenza pur sempre una delle più sciocche (eine der dümmsten), cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo, una delle più povere di senso (sinnärmsten): sia detto ciò per gli orecchi e per la coscienza dei signori meccanicisti che oggi s’intrufolano volentieri tra i filosofi (...)
un mondo essenzialmente meccanico sarebbe un mondo essenzialmente privo di senso (sinnlose Welt)” af. 373


Solo una lettura banalizzante di questo aforisma può accontentarsi dell’opposizione tra l’uno e il molteplice. La distinzione principale, quella che ispira tutta la riflessione di Nietzsche, riguarda il fattuale e il semantico. Dovrebbe essere evidente che molte interpretazioni fattuali non elimineranno la povertà del senso, ma solo l’unicità della povertà. È vero, d’altra parte, che non basta introdurre un significato per allontanarsi essenzialmente dalla dimensione fattuale. Irrigidendosi, il senso istupidisce - il significato diventa un dato di fatto, non una prospettiva e una musica. La pluralità è dunque un tratto costitutivo della dimensione semantica.

Ma si faccia attenzione. Non basta moltiplicare i significati, così come non bastava moltiplicare i fatti! La molteplicità non è una garanzia nei confronti della stupidità, al contrario:

“Il mondo è divenuto per noi ancora una volta “infinito”: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite. Ancora una volta il grande brivido ci afferra: ma chi mai avrebbe voglia di divinizzare ancora immediatamente, alla maniera antica, questo mostruoso mondo ignoto? E di adorare, forse, da questo momento, questa cosa ignota come “colui che è ignoto”? Ah, in questo ignoto sono comprese troppe non divine possibilità di interpretazione, troppa stregoneria, scempiaggine (Dummheit), bizzarria d’interpretazione: quella nostra umana, anche troppo umana, interpretazione, che noi conosciamo ...” af. 374


In teoria, il prospettivismo è la più valida delle repliche alla stupidità dei fatti, e alle strategie aggressive del fattuale. Prospettivismo vuol dire pluralità di prospettive, e ogni prospettiva crea ( o dovrebbe creare) un orizzonte di senso. Ma dobbiamo considerare ancora una volta l’eventualità che la teoria non sappia collegarsi con la pratica, o che il collegamento avvenga alla cieca, mediante prospettive non divine - stregonesche, stupide, bizzarre. Una prospettiva, lo si è appena detto, dovrebbe offrire un orizzonte di senso. Ma una prospettiva stupida, stereotipata è ancora una prospettiva? O non è piuttosto la perdita della fluidità essenziale al significato, il suo indurimento nell’opinione, nella doxa? Una prospettiva, nell’accezione pienamente nietzscheana, esprime la volontà di potenza; ma una semplice opinione può esprimere una “volontà di stupidità” (Wille zur Dummheit) (al di là, p, 75). E benché tutto sia volontà di potenza - se così non fosse, le prospettive stupide non potrebbero intrufolarsi tra le prospettive -, la volontà di stupidità non è una specie della volontà di potenza, così come i ciechi non sono un genere di coloro che ci vedono bene. Né i ciechi né coloro che sono ciechi come una talpa, e che “con occhi di talpa fissano l’esperienza”, sono individui capaci di prospettiva.

Una prospettiva è dunque una teoria accompagnata (o rafforzata) da una teoria degli attriti. La nozione di attrito (che qui non possiamo approfondire) indicherà tutti quei fattori a causa dei quali una prospettiva può fallire, e restare una non-prospettiva, un pregiudizio (la “scienza” come pregiudizio, ad esempio), un’opinione, un significato “cosale” o “fattuale”; ma anche le forze grazie a cui una prospettiva può crescere, può affermarsi, dispiegando la propria ricchezza semantica. A differenza dei fatti, i significati non sono sempre stupidi; la stupidità è però resa possibile dalla possibilità di dimenticare che il significato è modus.

Note

  1. Si cita da I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, Utet 1965.
  2. Op. cit., p. 237.
  3. Op. cit., p. 238.
  4. Op. cit., p. 239.
  5. Op. cit. , ibidem.
  6. Op. cit. p. 238.
  7. F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 372.
  8. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Sentenze e frecce, 4 (trad. it. Adelphi, Milano).
  9. F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 372.
  10. L’esempio è di Kant, op. cit. p. 238.
  11. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1974, p. 73.
  12. In proposito, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Teoria dello stile, La Nuova Italia Firenze, 1997.
  13. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Scorribande di un inattuale, 7.
  14. F. Nietzsche, Ecce homo, trad. it. Adelphi, Milano 1986, pp. 360-361.
  15. F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 373.
  16. F. Nietzsche, op. cit., af. 374.
  17. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (Sentenze e intermezzi, 107), trad. it. Adelphi, Milano 1976.
  18. “Il sordo non è una specie di quelli che ci sentono bene” (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, trad. it. Adelphi, Milano 1974, p. 85). La variazione è motivata da evidenti ragioni contestuali.

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