Il "non" dei luoghi

in “I nonluoghi in letteratura” (a cura di Stefano Calabrese e Maria Amalia D’Aronco), Carocci, Roma 2005

1. Una riflessione sul metodo. Postmodernità e costruzione di mappe.

Che cosa viene esattamente negato dal "non" che precede i "luoghi", nel sintagma coniato da Marc Augé? Un tratto, una proprietà? Un tratto essenziale, a quanto sembra, poiché ne risulta una negazione che investe globalmente l'identità del luogo, la sua "natura": scriviamo quest'ultimo termine tra virgolette, prima di esaminare la legittimità di un'equivalenza che forse affonda le sue radici in una fase storica definitivamente tramontata.

Niente di più ovvio - ma la facilità con cui si ricorre a questo prefisso sembra ormai derivare quasi soltanto da esigenze di comodità o dall'abitudine - che parlare di una post-natura come di un tratto peculiare del postmoderno: i nonluoghi della postmodernità sono luoghi artificiali, generati dalla tecnologia e, per definizione, privi di "anima". In effetti l'anima può essere soltanto l'anima di un luogo; per un "nonluogo" è impensabile un genius loci.1 Tuttavia, se ci accontentassimo di una caratterizzazione soltanto privativa, se pensassimo il "non" del nonluogo solo in termini di sottrazione (e il "post" del postmoderno solo in termini di successione/opposizione), dovremmo rinunciare a ogni tentativo di descrivere la contemporaneità. D'altra parte: qual è esattamente il significato di una descrizione della contemporaneità?

Per rispondere a questa domanda occorre acquisire la consapevolezza del gioco linguistico, o se si preferisce del "genere di discorso", a cui essa appartiene. Un discorso inevitabilmente obbligato alla vaghezza, ai riferimenti rapidi e cumulativi, che deve collocare i suoi timidi abbozzi di analisi sull'orizzonte troppo ampio di ciò che intuitivamente viene percepito come un'epoca, sarà una forma di conversazione, e niente di più. Potremmo chiamarla conversazione epocale: è questo il genere di discorso a cui appartengono i dibattiti sull'Illuminismo e sul Romanticismo, sulla modernità e sul postmoderno. "Bisognerebbe aver perso ogni esigenza di rigore intellettuale - ha detto Paul Valéry - per osar definire il Romanticismo". Ciò non implica una rinuncia a ogni possibile discorso epocale, a condizione di sapere che il Romanticismo, o la modernità, ecc., non sono oggetti di scienza bensì di conversazione. Questa precisazione può dispiacere prevalentemente a coloro che, negli ultimi venti o trent'anni, hanno costruito la loro rinomanza nei luoghi conversazionali - neoluoghi più che non luoghi -, e il cui obiettivo principale era ed è rappresentato dal tentativo di far prevalere la conversazione su altri generi di discorso, la filosofia o la teoria della letteratura, o la riflessione sulle arti visive. Chi non giudicherebbe assurda la pretesa di valutare il contributo di Kant alla storia del pensiero privilegiando l'articolo del 1784 "Che cos'è l'Illuminismo?", e spingendo ai margini le tre Critiche? Eppure è un'intenzione di questo tipo (non necessariamente dichiarata o consapevole) che alimenta l'ideologia postmoderna: affermare il primato del doxastico sull'euristico, privilegiare la conversazione rispetto alla ricerca e alla costruzione di nuovi strumenti concettuali.

Sono troppo severo? Non credo: mi sto riferendo all'ideologia postmoderna, cioè a un tipo di discorso costituzionalmente vago e reticente di fronte alle distinzioni e alla complessità. Non intendo asserire che tutti i discorsi sulla postmodernità siano egualmente privi di interesse: ci sono conversazioni che è piacevole e stimolante ascoltare, ci sono discorsi la cui vaghezza non irrita, perlomeno non costantemente. In primo luogo, perché non tentano di negare la legittimità di discorsi più rigorosi e più complessi; in secondo luogo perché li riconosciamo come inevitabili. Abbiamo bisogno infatti di una percezione del mondo: non soltanto come la somma sempre in crescita di percezioni ed esperienze locali, ma come percezione globale. Una percezione del mondo differisce da una visione del mondo (Weltanschauung) non perché sia totalmente priva di un carattere prospettico - il che sarebbe impensabile -, ma perché rappresenta, o si crede che rappresenti, un ambiente condiviso. Un po' come una mappa, che nella sua schematicità appare come un'invariante agli sguardi, diversamente progettuali, di osservatori diversi. Resta il problema di sapere se la mappa sia sufficientemente completa, se sia stata tracciata bene.

Abbiamo bisogno di una percezione del mondo, perché ci inquieta l'idea di vivere in un mondo diverso da quello in cui crediamo di vivere. Quali che siano i nostri impulsi vitali, la corrispondenza tra il sapere e il credere è un bisogno che va soddisfatto: tanto più se la mappa a cui faremo riferimento è inevitabilmente imprecisa, generica. Le vaghezze sono forse scusabili, gli errori assai di meno.

Per quanto valide siano le riserve di ordine cognitivo nei confronti di una mappa che è completa solo al prezzo di essere vaga, e anche se i vuoti che essa delimita, senza poterli penetrare, ci appaiono come le condizioni di una possibile autonomia rispetto alle idee dominanti, vogliamo sapere se la mappa proposta da un'ideologia in cui non ci riconosciamo è più vera di quanto non lo sia la nostra percezione del mondo. Ecco perché non possiamo ignorare del tutto il dibattito sulla postmodernità.

"Viviamo in un mondo che non abbiamo ancora imparato ad osservare", dice Marc Augé.2 La percezione del mondo - locale o globale che sia - richiede dunque un apprendistato. E prima di tutto una distanza, perché nei riguardi del presente l'ostacolo iniziale è rappresentato da un eccesso di prossimità. Un'ermeneutica del presente non deve ridurre distanze,3 al contrario, deve stabilirne una: non si tratta di ridurre un'alterità, di riportarla a condizioni che la rendano intelligibile, si tratta invece di saper cogliere l'alterità là dove essa non sembra disponibile a enunciarsi. Uno sguardo distanziante, in grado di far sorgere l'alterità del presente, può essere prodotto solo in riferimento alla teoria: la linguistica, la psicoanalisi, l'antropologia, ecc.

Non è detto però che la dimensione della teoria, a cui attingerà liberamente e disordinatamente il conversatore, ci possa aiutare immediatamente in quello che è un problema non differibile, e cioè la scelta di un nome per l'epoca di cui vogliamo parlare, in questo caso l'epoca presente. La scelta terminologica ha il suo peso, ed è significativa la modifica proposta da Augé: surmodernità, e non postmodernità. Il "sur" accentua una continuità che il "post" vorrebbe disconoscere, anche se non può fare a meno di indicarla e di riconoscerla (l'epoca successiva all'Illuminismo non fu denominata post-illuminismo, bensì Romanticismo; ma per l'epoca che segue la modernità non è ancora stato trovato un nome, che si svincoli da una sia pur rifiutata dipendenza). Sembra poco probabile, tuttavia, che il nome ormai affermato venga sostituito da un altro.. Il trentennio che chiude il XX secolo e che prosegue nel XXI sarà dunque, anche per noi, l'epoca del postmoderno.

Il problema immediatamente successivo è quello di appendere al gancio del nome proprio una descrizione, o una definizione, minima. Non è affatto ovvio, come credono gli ideologi del postmoderno, che si debba agganciare al nome una definizione massima, composta da una serie di coppie oppositive, come accade forse per la prima volta in un saggio di Hassan dove l'opposizione tra moderno e postmoderno si sviluppa su due lunghe colonne, in cui si contrappongono caratteristiche eterogenee (linguistiche, psicologiche, ecc.).4 La schematicità di questa tabella è fuori discussione: ma la consapevolezza di tale schematicità è sufficiente perché la si possa prendere sul serio, e la si possa considerare quantomeno, come dice ad esempio David Harvey, "un utile punto di partenza"5 ? Ritengo di no, e non soltanto perché molte delle coppie oppositive di Hassan sono così vacue da ostacolare qualunque tentativo di discussione6 - una verifica della loro pertinenza implica un accertamento semantico preliminare -, ma per la struttura stessa del modello proposto: un elenco di dicotomie rigide, che trovano proprio nella loro rigidezza un minimo di plausibilità. Non appena si cerca di renderle più elastiche, esse tendono a dissolversi completamente o a capovolgersi (perché associare il "significato" al moderno e il "significante" al postmoderno ? non si potrebbe sostenere tranquillamente il contrario?). Certo, si può convenire con Harvey che "il modernismo presenta volti diversi a seconda del punto e del momento di osservazione"7; ma se il punto di vista decide di tutto, perché continuare a discutere? Del moderno, e del postmoderno, si potrà dire qualunque cosa.

Per uscire dall'inaccettabile semplicismo di un modello dicotomico non basta il ritorno alla sobrietà, cioè a una definizione minima; e neanche il passo successivo, che dovrebbe consistere nel riconoscere l'esistenza di versioni differenti per ogni epoca, e di svolte, che fanno registrare l'ascesa di una versione sulle altre (ad esempio Harvey parla di una "svolta positivista del modernismo", che vede il convergere di filosofia neopositivista, architettura razionalista, tecnocrazia)8. Occorre mettere in discussione lo stile di pensiero che genera i modelli dicotomici: una razionalità rigida e separativa che l'ideologia postmoderna attribuisce, in una versione caricaturale, al modernismo, e che in realtà è una pratica transepocale, riscontrabile con altissima frequenza anche nell'epoca contemporanea.

2. Obesità del presente e sovrabbondanza dell'ego. Un'aporia dell'identità.

Dunque la tabella di Hassan non è un utile punto di partenza. Essa non rappresenta uno schema integrabile e recuperabile con successive iniezioni di realtà storica; le sue dicotomie non diventano più convincenti, nel momento in cui le indeboliamo e tentiamo di leggerle in termini di più e meno, anziché di esclusione reciproca.9 Vedere nel passaggio dal moderno al postmoderno uno spostamento d'accento o di dominanza, l'indebolimento della "presenza " e il rafforzamento dell'"assenza", l'indebolimento o il declino del "sintomo" e il rafforzamento del "desiderio", e così via, per tutte le coppie oppositive di Hassan (o di altri), è un tentativo estremo di salvare uno schema, il cui difetto irrimediabile va individuato anzitutto nella sua logica. Bisogna piuttosto chiedersi: l'identità di un'epoca - la sua identità sfuggente, instabile - può essere circoscritta, sia pure in una formulazione minima, mediante una definizione proprietaria? Per definizione proprietaria intendiamo, al di là della veste strettamente grammaticale che essa può assumere, quel tipo di definizione (o di descrizione) che si presenta come un elenco di proprietà o qualità, designate in un linguaggio letteralista: ad esempio, il gatto è un animale domestico; questa zolletta di zucchero è bianca, cubica, dolce, solubile in un liquido; e così via. La modernità è tecnocentrica, razionalista, pianificatrice, utopistica, metafisica, metaforica (qui anche la metaforicità diventa una proprietà letterale).

Definizioni e descrizioni di questo tipo trasmettono una sensazione di staticità. Esse riescono a scomporre ciò che risulta scomponibile con questo tipo di tecnica; ma il dinamismo di un'epoca, e soprattutto di un'epoca dinamica come la modernità, in cui "tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria", secondo la celebre espressione di Marx,10 non esigerà forse un diverso tipo di costruzione concettuale? Il semplicismo dell'ideologia postmoderna non sarà forse una conseguenza del suo letteralismo? Non sarà preferibile cercare il nostro punto di partenza in definizioni minime di un altro genere, ad esempio le definizioni paradossali?

In effetti, se anziché porre un'equivalenza poco plausibile tra la semplicità del moderno e la complessità del postmoderno, dicessimo che il postmoderno è forse l'epoca più complessa e nello stesso tempo la più ostile alla complessità, non troveremmo un interessante punto di partenza? Saremmo indotti quasi subito a distinguere tra una nozione puramente numerica della complessità, e un'altra nozione, più difficile da definire; a ciò si accompagnerebbe la distinzione tra il favore di cui gode la complessità nelle scienze naturali, nell'informatica, e in genere come dimensione tecnologica, e la scarsa attenzione, che diventa spesso insofferenza, per la complessità nel campo delle scienze umane, degli studi che hanno per oggetto il linguaggio, e in particolare i linguaggi dell'arte. Il ritorno a forme di critica ideologica, a un contenutismo che sembrava definitivamente superato negli anni più fecondi della teoria, è un fenomeno solidale con il "conversazionalismo" sempre più diffuso.

Anche se questa preferenza non risulta immediatamente visibile nell'uso del termine surmodernità, sembra che Marc Augé abbia voluto tentare la via del paradosso per decifrare il presente: "viviamo in un'epoca paradossale" (NL, 36), egli dice, e proprio la paradossalità è la nozione che permette di chiarire gli eccessi indicati dal "sur".

Per Augé, la surmodernità trova nell'eccesso la sua "modalità essenziale" NL, 32). Anzitutto l'eccesso di tempo, in una situazione in cui gli avvenimenti si moltiplicano, in cui la storia ci tallona come la nostra ombra e ci toglie la possibilità di riflettere: è la sovrabbondanza degli avvenimenti a costituire un problema e non tanto gli orrori del XX secolo" (NL, 31). Ed è questa sovrabbondanza che ostacola la nostra esigenza a fare del tempo un principio di intelligibilità e soprattutto a iscrivervi un principio di identità (NL, 28). L'eccesso indicato da Nietzsche nella Seconda Inattuale ha cambiato forma: non è più l'invasione del passato a minacciare le nostre forze creative, a indurire la nostra elasticità psichica e a diffondere la paralisi,11 ma l'invasione del presente. E poi l'eccesso di spazio, correlato al restringimento del pianeta (NL, 36). Siamo costantemente investiti da un flusso di immagini, provenienti da ogni parte del mondo, che ci informano quasi istantaneamente di ciò che accade, che ci inducono anche a una falsa familiarità con luoghi che non abbiamo mai visitato e che forse continueremo a vedere solo attraverso le medesime immagini (NL, 34). Si moltiplicano i luoghi, e si moltiplicano i nonluoghi.

Il terzo eccesso descritto da Augé riguarda l'ego, una nozione che va immediatamente problematizzata. Non che, dal punto di vista filosofico, la nozione di "tempo" sia meno ardua da affrontare rispetto a quella di "identità"; ma, nel discorso di Augè, il tempo rimane abbastanza sullo sfondo; inoltre la nozione di "ego" appare più promettente per la nostra riflessione sui nonluoghi. Partiamo da una constatazione: dopo Freud non possiamo più far coincidere l'ego con l'intero soggetto; l'ego, o Io, è solo una parte in un soggetto diviso. Assai meno scontati di questo punto di partenza sono però altri aspetti della prospettiva freudiana: non è ancora abbastanza acquisita, almeno nell'ambito degli studi letterari,12 la tesi psicoanalitica secondo cui l'identità consiste essenzialmente nei processi di identificazione. L'Io che ci appare come un involucro dai contorni stabili, l'Io della mediazione tra desiderio e realtà esterna, è solo il risultato instabile di processi oltrepassanti: gli uomini sono animali oltrepassanti, per Freud, in quanto definiti dal desiderio di essere in misura maggiore e comunque più decisiva di quanto non siano definiti dal desiderio di avere. La psicoanalisi non sarebbe però un discorso analitico se si accontentasse di una nozione generica, e non ulteriormente problematizzata, di ciò che intuitivamente comprendiamo facendo uso di questa espressione: il desiderio di essere può modificare la nostra identità in diverse parti (o luoghi) e in diversi modi. Può modificare l'Ideale dell'Io (ciò che vorremmo essere o che riteniamo di dover essere) oppure l'Io (ciò che siamo, realmente o soltanto nel nostro desiderio). E la modificazione è comunque determinata dallo stile: può essere confusiva (come quella di don Chisciotte con gli eroi della cavalleria) o distintiva (come quella di Julien Sorel con Napoleone). Non possiamo presentare in maniera adeguata questa problematica, ma era necessario almeno accennarvi, perché da essa dipende il seguito del nostro discorso.13

La sovrabbondanza dell'ego viene presentata da Augé come una sovrabbondanza di identificazioni, nella quale è implicito un principio di instabilità: "mai i riferimenti all'identità collettiva sono stati così fluttuanti" (NL, 38). L'instabilità sembra dipendere soprattutto da ragioni numeriche: più aumentano le possibilità e le occasione per identificarsi, e più fluttuante diventa, com'è ovvio, il nostro ego. La coerenza di questa logica quantitativa rischia però di farci perdere di vista alcuni aspetti essenziali: la facilità con cui mutiamo identità riguarda l'Io e non l'Ideale dell'Io; alle continue ed effimere metamorfosi con cui modifichiamo il nostro Io (ma fino a che punto?)14 corrispondono la staticità e le durezze di quelle zone della psiche che vanno indicate come le zone dell'Ideale dell'Io. Se si considera che nel corso dello sviluppo psichico queste zone vengono strutturate per ultime, e che esse rappresentano uno scalino (eine Stufe im Ich è l'espressione utilizzata da Freud)15 per una crescita della complessità psichica, se adottiamo questa prospettiva non fatichiamo a cogliere i limiti di processi che solo l'ingenuità o la bêtise dell'ideologia postmoderna ha tanto enfatizzato.

Non c'è dubbio: il mondo come rappresentazione si è dilatato vertiginosamente, negli ultimi decenni; basta pensare alla crescita dei palinsesti televisivi. Ma, ancora una volta, si tratta di una crescita numerica: la sovrabbondanza dell'ego, nella società postmoderna, ha come presupposto determinante la proliferazione di storie, diffuse dai mass media. La TV contribuisce quotidianamente a questa inflazione narrativa, offrendoci sempre nuovi personaggi: i protagonisti di episodi-flash, nei telegiornali, i personaggi delle "serie" o dei serial, gli eroi dei reality show, ecc. Ogni storia, ogni micro-storia, offre possibilità di identificazione. I nonluoghi, secondo Augé, favoriscono le identificazioni effimere e fluttuanti di individui accomunati dalla solitudine: "Assalito dalle immagini diffuse in sovrabbondanza dalle istituzioni legate al commercio, ai trasporti o alle vendite, il passeggero dei non luoghi sperimenta simultaneamente il presente perpetuo e l'incontro col sé". A seconda dei nonluoghi, egli riceve degli "inviti alla identificazione" prevalentemente maschili o femminili (NL, 96). Inviti che però riguardano - su questo bisogna correggere l'espressione usata da Augé -, il suo Io, la sua immagine narcisista, il suo Io Ideale (che non va confuso con l'Ideale dell'Io).16

Dunque, è solo una zona del soggetto a fluttuare, a cambiare volto; è solo una zona della nostra identità che muta a un ritmo carnevalesco, che indossa volubilmente nuove maschere. Ecco il paradosso epocale: l'epoca che enfatizza il molteplice - "potete identificarvi con chiunque" - suggerisce nello stesso tempo di mantenere ben saldo il proprio Io - "siate sempre voi stessi, come oggetto di possibili identificazioni da parte di altri". Da un lato si propone la fluidificazione permanente dell'Io, dall'altro un rafforzamento: i due processi si oppongono e si legano in un'aporia, che dà forma all'ego tipicamente postmoderno. I reality show offrono alla pulsione narrativa di questo ego aporetico la possibilità di una messinscena trionfale: "sii te stesso (poco importa conoscersi); fa' del tuo Io l'eroe di questo racconto, offrilo al maggior numero possibile di individui come possibilità di un'identificazione" - non è questo l'invito che ogni partecipante cerca di interpretare?

3. L'Io dei nonluoghi. Le risorse della sineddoche.

C'è dunque un conflitto tra un Io che vorrebbe essere molti (un Io nomadico, frammentato, cangiante, eterogeneo), e un Io che vuole essere Uno per molti, e sentir confluire in sé la molteplicità più ampia possibile. L'asserzione di Wahrol "in futuro, tutti saranno famosi in tutto il mondo per quindici minuti"17 andrebbe riformulata così: siamo in un'epoca in cui ciascuno di noi potrebbe diventare oggetto di identificazione da parte di una massa di spettatori, per un periodo più o meno breve. Nel conflitto tra il soggetto che vorrebbe disfarsi della sua unità e quello che vuole fortificarla e celebrarla è generalmente il secondo a prevalere. Per diversi motivi: anzitutto perché la possibilità di una metamorfosi permanente è un'illusione narcisista, a meno di non ridurre i processi di metamorfosi a zone marginali, non strutturali (per intenderci: è come riverniciare ogni settimana un'automobile con un colore diverso, senza però modificare la potenza del motore, e tutte le altre prestazioni). Inoltre, perché è preferibile per chiunque, è assai più gratificante, suscitare un'identificazione anziché concederla e subirla.

Ma il conflitto rimane. Le spinte "nomadiche", se vogliamo chiamarle così, vengono facilmente paralizzate, non però eliminate. Anzitutto perché la realtà è un selezionatore brutale: come dice un personaggio di Woody Allen, facendosi beffe di Wahrol, ciascuno di noi conosce un sacco di persone che non sono mai diventate, e non hanno mai avuto la possibilità di diventare celebri neanche per un minuto nel corso di tutta la loro vita;18 la realtà, dunque, spinge le masse verso l'identificazione con gli happy few, con i pochi che hanno il privilegio di suscitare identificazioni collettive. Vi è poi l'inflazione disordinata del narrativo, che diffonde micro-occasioni per una fuga dall'Io. Nella sua globalità, la società attuale risulta meno favorevole di quelle precedenti al principium individuationis (perlomeno nella sua versione statica).

Beninteso, la realtà empirica non sembra aver prodotto novità tali da implicare una riformulazione dei modelli. Una società che rafforza l'Io a spese dell'Ideale dell'Io non falsifica un modello - come quello freudiano - che prevede un conflitto permanente tra i diversi sistemi, e una varietà di dominanze.19 Tuttavia, le novità di una società che si evolve inducono a perfezionare, ma prima di tutto a rileggere, i modelli classici. Così la campagna denigratoria condotta da Lacan nei confronti dell'Io20 ci fa ricordare come, per il secondo Freud, l'Io non sia una zona del tutto trasparente e illuminata dalla coscienza: ci sarebbero parti inconsce dell'Io, e forse parti semplicemente anonime, immaginabili come fenditure in cui precipitano e si smarriscono molte delle nostre identificazioni effimere. D'altronde, quale può essere il destino di certe immagini pubblicitarie? "il quarantenne elegante che sembra gustare felicità ineffabili sotto lo sguardo attento di una hostess bionda; il pilota dallo sguardo sicuro che lancia la sua turbodiesel su non si sa pista africana" (NL, 96); ecc.: scompariranno dalla memoria, o forse scompariranno nella memoria, frantumandosi dentro le rughe e i canyon di un Io parzialmente anonimo.

È da questo processo di frantumazione che deriva la sensazione di solitudine che accomuna gli utenti dei nonluoghi, e di cui Augé auspica una descrizione condotta con lo sguardo dell'etnologo (NL, 110)? Ma gli utenti dei non luoghi sono davvero tutti simili ed egualmente soli? Quando Augé scrive che "lo spazio del nonluogo non crea né identità singola né relazione, ma solitudine e similitudine", si riferisce all'utente solitario degli aeroporti, dei supermercati, delle autostrade: di spazi che vengono percorsi da individui, i quali conquistano l'anonimato solo dopo aver fornito, o a condizione di fornire in un certo momento, in risposta a una sollecitazione legittima, informazioni veridiche sulla propria identità: "Il passeggero dei nonluoghi non ritrova la sua identità che al controllo della dogana, al casello autostradale o alla cassa. Nel frattempo, egli obbedisce allo stesso codice degli altri, registra gli stessi messaggi, risponde alle stesse sollecitazioni" (NL, 95).

Questa oscillazione tra un anonimato di massa e la riconquista di un'identità sineddochica, che si limita ai dati individuali accessibili tramite il passaporto o la carta di credito, o che è del tutto anonima, nei casi in cui ci viene chiesto soltanto di esibire un ticket, non sembra convincente. I nonluoghi appaiono esclusivamente come luoghi di alienazione - un termine di cui abbiamo imparato a diffidare, come ci ricorda lo stesso Augé, in quanto ogni individuo diventa se stesso solo in relazione all'alterità, alienandosi, diventando altro.21

Ci chiedevamo, all'inizio di questa riflessione: che cosa viene esattamente negato dal "non" che precede i luoghi, nel sintagma coniato da Augé? Dovremmo pensare, adesso, che il nonluogo è lo spazio del non-ego? Uno spazio anonimo, negatore dell'identità individuale. Non completamente, però: nei nonluoghi il soggetto vive e si muove come Io sineddochico, cioè come un soggetto definibile con la meno figurale di tutte le figure retoriche. Per quanto riguarda la sineddoche, è stato infatti osservato che, particolarmente nel sotto-tipo della pars pro toto, l'aspetto figurale non è facilmente percepibile: perché l'espressione "ecco una vela all'orizzonte" dovrebbe contenere una figura? Con ogni probabilità, il parlante sta formulando un'asserzione letterale: trasmette il contenuto esatto della sua percezione, determinata dalle onde che nascondono lo scafo dell'imbarcazione. Molte delle cosiddette "sineddochi", osservava Ruwet, rappresentano un grado zero del linguaggio, senza traccia di figuralità.22

La tesi di Ruwet è discutibile: in un contesto più ampio, la sineddoche torna ad essere una procedura stilistica, e si riavvicina al territorio delle figure. Non sembra scorretto, però, dire che essa resta in una zona marginale, a figuralità debole: certamente non possiede le risorse modali della metafora, né può aspirare alle infrazioni categoriali grazie a cui la metafora è stata riconosciuta come la regina delle figure.23 La sineddoche non fa salti: espande o restringe, generalizza o particolarizza, ma sempre all'interno dello stesso mondo, reale o possibile. È per questo che costituisce una procedura fondamentale per l'abitatore transeunte dei nonluoghi: la sineddoche gli garantisce una sufficiente porzione di identità, che gli impedirà di sprofondare davvero nell'anonimato. Negli spazi in cui rischia di perdersi, quando si reca in una paese di cui non parla la lingua, essa lo accompagna con la benevolenza del viaggio organizzato: riduce gli impatti con l'alterità, per esempio offre a un italiano la possibilità di gustare gli spaghetti in un ristorante di Pechino, e di ascoltare "O sole mio" in un night di Marrakech. Predispone e dissemina queste partes pro toto in modo rassicurante: "Paradosso del nonluogo: lo straniero smarrito in un Paese che non conosce si ritrova soltanto nell'anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere (...) è con sollievo che ritrova sugli scaffali del supermercato i prodotti sanitari e alimentari o i casalinghi consacrati dalle marche multinazionali" (NL, 97).

Sulle procedure riduttive della sineddoche si fonda in larga misura l'estetica del kitsch: che cos'è un souvenir se non l'alterità estetica miniaturizzata, parzializzata, resa omogenea e commestibile? Max Black si sbagliava, accostando i modelli in scala alle metafore:24 l'attività di riduzione, confermata da una spietata eliminazione di ogni dissonanza, di ogni eterogeneità, è tipicamente sineddochica.

Il nesso tra sineddoche e non luoghi non si limita però agli effetti rassicuranti, offerti a chi si reca nell'altrove. Persino il viaggio organizzato può diventare superfluo se l'alterità viene importata, come accade, ad esempio, quando si ricrea un "paradiso tropicale" nel nord dell'Europa. Ancora una volta, niente metafora, ma solo sineddoche: modelli in scala e stereotipi. I visitatori di Center Parcs devono solo acquisire la protezione di una cupola, che garantirà loro 29° di temperatura costante, sabbia bianca, acqua azzurra e calda, l'ombra di piante di cocco: i tratti distintivi del paradiso tropicale. Qui è impossibile ferirsi i piedi "su bidoni venuti dal largo o su barattoli di birra abbandonati a terra da turisti maleducati, su rocce che si vedono sempre troppo tardi, coralli taglienti come lame di rasoio o pietrisco subdolamente aggressivo". In questo luogo di delizie, che niente può turbare se non piacevolmente, "qualche piccola onda prodotta ogni quarto d'ora da un macchinario senza sorprese, una falsa cascata, un falso fiume, delle rapide che scorrevano dentro toboggan plastificati",25 viene ridotta, se non proprio eliminata, anche la solitudine. Center Parcs è destinato ai gruppi, in particolare ai gruppi familiari; le sue abitazioni, i suoi cottages, sono caldi, comodi, intimi, come nidi tra gli alberi. Infine, e il dettaglio non è irrilevante, qui, diversamente che a Disneyland, non si fanno foto, o se ne fanno molto poche. Si è veramente a casa.26

4. La solitudine. "The Terminal"e la fabbrica dell'Oréal: varietà dei nonluoghi.

Ho cercato di non far torto al discorso di Augé, evitando di aggiungere l'opposizione tra luoghi e nonluoghi all'elenco delle coppie oppositive mediante cui gli ideologi credono di descrivere il passaggio dall'epoca moderna a quella postmoderna. È vero che Augé non rinuncia del tutto alle semplificazioni della definizione proprietaria - "Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo" (NL, 73) -, ma, lo abbiamo visto, egli sa valersi di altri strumenti di analisi, come il legame paradossale. In ogni caso, se vengono pensati come spazi in cui vi è circolazione e stabilizzazione del senso, con finalità comunitarie, i luoghi apparterrebbero a società organiche; e sarebbe difficile attribuire l'organicità, la solidità delle relazioni comuni, alla società moderna, industriale e metropolitana. Ci sarebbe nondimeno un'esasperazione "surmoderna", che accentua il ruolo del transito rispetto alla dimora, dello svincolo (dove non ci incrocia) rispetto all'incrocio (dove ci si incontra), del passeggero (definito dalla sua destinazione) rispetto al viaggiatore (che s'attarda lungo il suo tragitto), e in riferimento a tale esasperazione che Augé può affermare: "le parole di moda - quelle che non avevano diritto di esistenza una trentina di anni fa - sono quelle dei nonluoghi"; "la surmodernità trova la sua espressione completa nei nonluoghi" NL, 98 e 99).

Sarebbe comunque un errore accentuare le opposizioni separative: la crescita delle procedure sineddochiche, che danno forma a molte aree dell'esistenza nell'epoca postmoderna o surmoderna, è sempre in conflitto con altre strategie retoriche. Luogo e nonluogo non esistono mai in forma pura, "sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente" (NL, 74)27. Ritroviamo un esempio di questo conflitto nell'ultimo film di Spielberg, The terminal (U.S.A. 2004).28 In una situazione di spossessamento estremo, in cui gli vengono sottratte anche le risorse della sineddoche (Viktor si vede togliere anche i documenti d'identità), il protagonista di questa storia non rinuncia a un progetto forse archetipico, e certamente transepocale: la trasformazione del deserto in giardino. Così uno spazio inospitale e incomprensibile diventa a poco a poco il palcoscenico dove prendono forma e si intrecciano le storie, dove rinascono generosità e commozione, fino all'apoteosi finale. In quello che era un nonluogo sboccia irresistibilmente un'anima.

Ma non è solo la pioggia di un'immaginazione narrativa, dall'efficacia ormai sperimentata, a bonificare il deserto dei nonluoghi: d'altronde, sul piano estetico il film di Spielberg non entusiasma, a causa dei troppi stereotipi e del cattivo lirismo. Non basta versare commozione negli stereotipi, per riuscire a redimerli. The terminal è la storia di un Io sineddochico, che, inizialmente ridotto alle pulsioni più elementari (il bisogno di cibo e di sonno, in uno spazio di vetro e d'acciao devastato dalla luce), ricomincia ad espandersi vittoriosamente sino a costituire il nucleo eroico di un'anima collettiva. Esistono però altre strategie retoriche, più complesse, che meritano di essere esplorate. Ecco un esempio, tra quelli scelti da Augé, che ci suggerisce di non sottovalutare la varietà dei nonluoghi, le differenze che si fanno strada nelle somiglianze di famiglia: la fabbrica L'Oréal di Aulnay-sous-Bois realizza il miracolo di un'architettura al tempo stesso reale e virtuale, e non potrebbe farlo che per mezzo di procedure metaforiche: ciò che più affascina, attraverso la descrizione di Augé, è il fatto che queste procedure non convergano in una sola direzione, ma ripropongano il dinamismo tropologico. La fabbrica evoca le navi, i fiori - sprigiona sensazioni tattili che fanno pensare alla pelle. Non è un simbolo ancorato al suo referente, è materia metaforizzata e transustanziata nel linguaggio.

È possibile, per il visitatore solitario dell'Oréal, sentirsi solo? Si ha qualche difficoltà a crederlo, se si pensa alla solitudine come a una condizione mentale, determinata dalla relazione tra il soggetto e il linguaggio. In questa prospettiva, l'"anonimato" dei nonluoghi non corrisponde all'assenza di nomi, bensì a una folla di nomi, ciascuno dei quali ha già svolto o svolgerà, al momento opportuno e se sarà necessario, la propria funzione referenziale. Alcuni dei nonluoghi non sembrano però anonimi, che ci si riferisca o meno al significato più consueto. E non lo sono per ragioni linguistiche e retoriche: mentre l'Io sineddochico conosce, di volta in volta, le componenti insipide della solitudine, da cui cerca di sfuggire, come si è già visto, con identificazioni frettolose e frettolosamente abortite, il soggetto chiamato a gustare costruzioni linguistiche meno vincolate alla dimensione effettuale trova in esse il sapore dell'alterità.

5. Nonluoghi di attrazione.

L'opposizione rigida, e tendenzialmente tassonomica, tra luoghi e nonluoghi ha lasciato il posto a una relazione più "dialettica", da cui è emersa una pluralità di strategie retoriche. Adesso i nonluoghi non ci appaiono più unicamente come gli spazi inariditi dal dominio della sineddoche (la figura-zero): abbiamo iniziato a comprendere il loro potere di attrazione.

Mi sembra che si debbano distinguere almeno tre direzioni divergenti, per uno sviluppo di questa riflessione:

  1. la progettualità figurale. È molto più difficile trasformare una sineddoche, un modello in scala, uno stereotipo, che non progettare un'alternativa. Si può metaforizzare una stazione, non Center Parcs. La figuralità della fabbrica di Aulnay-sous-Bois è strutturale, non ornamentale o correttiva; nasce da un progetto;
  2. come si può spiegare la suggestione di Disneyland? Qui siamo nel campo della finzione e non della figuralità. Di una finzione radicale, però, alimentata dall'intertestualità. Disneyland non è sineddochica, bensì citazionale. Per questo non è kitsch, come lo è invece l'esotismo miniaturizzato;
  3. in condizioni ideali, e comunque favorevoli, gli ipermercati e le autostrade attraggono non solo per ragioni economiche (risparmio di tempo, più ancora che di denaro), ma per la loro fluidità. I paesaggi che ci scorrono di lato funzionano come un codice puramente sintattico, uno sfondo ritmico, come lo erano - e talvolta lo sono ancora - l'alterno guizzare della fiamma, lo sciabordio delle onde.29 Rappresentano il fluire indifferente della percezione, una negazione dell'Io che lo fa arretrare piacevolmente di qualche passo rispetto alla soglia in cui diventerà o tornerà ad essere una sineddoche.

Note

  1. "Nelle antiche città greche i tracciati si sviluppavano intorno a quello che i latini chiamavano tumulus, il luogo dove si seppellivano gli eroi, - leggende, storia, fabula, mito, fantasia ... chi può dirlo? L'eroe era il "genio" del luogo; il suo spirito era la fantasia fondamentale della città. L'espressione spiritus loci equivale alla tomba dell'eroe" (J. Hillman, L'anima dei luoghi, Rizzoli 2004, p. 54).
    Per quanto riguarda l'immaginazione contemporanea, il legame tra le anime e i luoghi emerge prevalentemente nelle storie horror. In Poltergeist di Tobe Hooper (USA 1982), una cittadina dalle case tutte eguali - eccellente esempio di nonluogo - è stata costruita inizialmente sopra un cimitero, spostando solo le lapidi.
  2. M. Augé, Non-lieux, 1992 (trad. it. Non luoghi, Eléuthera, Milano, 1993, p. 37). D'ora in poi il testo verrà citato in sigla: NL, seguito dal numero di pagina dell'edizione italiana.
  3. Sul problema della distanza ermeneutica, cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, 1960 (trad. it. Bompiani, Milano 1983)
  4. Hassan. I., The question of postmodernism, 1981, trad. it. in Postmoderno e letteratura, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Bompiani, Milano 1984.
  5. D. Harvey, The Condition of Postmodernity, 1990 (trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993, p. 61).
  6. La vacuità è particolarmente evidente per quanto riguarda i termini tecnici: significato VS significante, paradigma VS sintagma, metafora VS metonimia, ecc.
  7. D. Harvey, op. cit., p. 39.
  8. D. Harvey, p. 48. E in precedenza: "È antipatico ma utile suddividere questa storia complessa in periodi, sia pure soltanto per comprendere a quale tipo di modernismo reagiscono i postmodernisti" (p. 43).
  9. Ancora Harvey: "le vere rivoluzioni della sensibilità si verificano quando le idee che sono latenti e represse in un certo periodo divengono esplicite e dominanti in un altro periodo" (p. 63).
  10. K. Marx - F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, 1848. Marshall Berman ha scelto questa frase per il titolo del suo libro All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, 1982 (trad. it. L'esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna 1985).
  11. F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, 1873 (trad . it. Adelphi, Milano 1974).
  12. E neanche in filosofia, dove si riscontra un'arretratezza sorprendente nel dibattito sull'identità personale.
  13. Mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Bergamo U.P. 2002, e alla mia introduzione al volume collettivo Problemi del personaggio, Bergamo U.P. 2001.
  14. È una domanda che gli ideologi del postmoderno, con la loro enfasi su mutevolezza, plasticità, indeterminatezza, si guardano bene dal porsi.
  15. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, 1921, cap. XI (trad. it. Boringhieri).
  16. Più che una confusione, quella di Augé potrebbe essere una svista, o più semplicemente l'azzeramento di una distinzione tecnica che non gli sembrava necessaria in questo contesto. Io ritengo però che il discorso così stimolante di Augé abbia tutto da guadagnare nell'uso di questa distinzione.
  17. Cfr. Warhol, König et al., Andy Warhol, Moderna Museet, Stoccolma 1968 (s.i. di p.).
  18. Il film di Allen è Celebrity.
  19. A venir immediatamente falsificati dalle trasformazioni storiche sono gli pseudo-modelli che esprimono generalizzazioni di ordine statistico, non i modelli il cui valore euristico deriva dal riferimento a possibilità che trascendono il contesto storico di enunciazione.
  20. "l'Io (moi) non sa nulla dei desideri del soggetto" (J.Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954; trad. it. Einaudi, Torino 1978, p. 207-208).
  21. Un cenno all'"alienazione necessaria", con riferimento a Freud e a Lévi-Strauss, in Nonluoghi, cit., p. 40.
  22. N. Ruwet, "Sineddochi e metonimie" in Linguistica e poetica, 1975 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1986).
  23. Ho sviluppato questa tesi soprattutto in "Metafore simmetriche e regimi di senso", 1995 (Documenti di lavoro del Centro Internazionale di Semiotica e di linguistica di Urbino). Nel mio libro del 1993, Retorica. L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia, il nesso tra linguaggio figurale teoria delle modalità non era sufficientemente enunciato.
  24. M. Black, Models and Archetypes, 1960 (trad. it in Modelli Archetipi Metafore, Pratiche, Parma, 1983).
  25. Augé, Disneyland e altri non luoghi, p. 37.
  26. Ibid., p. 41 e 42.
  27. Si ricordi che il nonluogo è anche "questione di sguardo" (Disneyland e altri nonluoghi, cit., p. 75)
  28. Ecco una sintesi della trama: "Viktor arriva al "JFK" di new York con un volo dall'Europa dell'Est. Al controllo dei documenti è bloccato dagli agenti: mentre era in viaggio, nel suo Paese ha avuto luogo un colpo di Stato, e ora divampa la guerra civile. La situazione rimane sospesa a tempo indeterminato, perché il responsabile della sicurezza del "JFK" non vuole rischiare la propria carriera per un eventuale errore nella procedura. nel frattempo Viktor impara l'inglese, coltiva delle amicizie, trova un lavoro, d'innamora di una hostess" (cito dalla scheda di Luca Bandirali in "Segnocinema, 130, 2004, p. 36).
  29. Cfr. Ju. Lotman, I due modelli della comunicazione, 1973, in Lotman e Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1975.

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