Dalle somiglianze alle differenze di famiglia

Pubblicato in “L'immagine riflessa”, anno XX, n. 1-2, 2011

1. Per quali vie, e con quali strumenti, una teoria delle singolarità può trattare il problema delle somiglianze, a partire dal problema delle somiglianze di famiglia? L’espressione teoria delle singolarità indica una prospettiva di ricerca che non è soltanto mia, evidentemente: viene affermata con forza da Deleuze, “Il primo principio della filosofia è che gli Universali non spiegano niente, ma devono invece esser spiegati” 1 - e per quanto mi senta estraneo per molti aspetti al pensiero deleuziano, non posso non apprezzare questa enunciazione; è la prospettiva fondamentale della psicoanalisi freudiana e lacaniana; è la linea di ricerca più feconda nella teoria della letteratura, che pure è stata tentata dalla ricerca degli universali (le leggi che governerebbero l’esperienza letteraria) ma che ha raggiunto i risultati più importanti quando ha creato strumenti per l’analisi dei testi nella loro complessità e singolarità. Va subito precisato che singolarità non è un sinonimo di ‘individualità’ o di ‘caso individuale’, perché una individualità può limitarsi a rispecchiare tratti tipici e ripetibili: dunque con la nozione di singolarità, che dovremo man mano precisare, non si indicherà semplicemente il token di un type.

Una teoria delle singolarità non può privilegiare la via tassonomica, né la rarefazione tematica: insomma, non può orientarsi in direzione delle costanti, comunque vengano intese. Sta di fatto, però, che la nozione di ‘somiglianze di famiglia’ è sorta nell’ambito dei problemi di categorizzazione, dunque in un orizzonte che sembra legittimo chiamare ‘tassonomico’. Tutto inizia con Wittgenstein, un autore che meriterebbe di venir letto con più attenzione, e senza trascurare la sua passione per le differenze2 . A partire dalle Ricerche filosofiche, e poi dagli studi della Rosch, si è sviluppata una critica alla teoria classica dei concetti in cui la rilevazione di somiglianze è chiamata a svolgere un ruolo diverso: non più la ricerca di ciò che è comune (“Che cosa è comune a tutti questi giochi? - Non dire: «Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giochi’»)3, cioè di condizioni singolarmente necessarie e congiuntamente sufficienti, ma il riconoscimento di un prototipo, che riunisce e accentua le proprietà tipiche degli elementi di una determinata classe, e rispetto al quale le somiglianze tra elementi sono legate al grado. Per alcuni la nuova teoria avrebbe sostituito completamente quella classica, per altri l’avrebbe ridimensionata e affiancata. Va notato che sono più gli psicologi che non i filosofi ad avere aderito con piena convinzione alla teoria prototipale: ciò non sorprende, perché uno psicologo può indirizzare la propria attenzione ai modi effettivi di funzionamento della mente umana, corretti o sbagliati che siano, mentre un filosofo generalmente non si accontenta di descrivere e registrare abitudini mentali.

Ammettiamo che i processi di categorizzazione avvengano in conformità alla teoria dei prototipi, e, dunque, che vi siano effetti prototipali (o tipici) in rapporto a ogni classe di oggetti, dagli artefatti come le sedie e i veicoli alle professioni, come segretaria o muratore, dai generi biologici come uomo e donna alle forme sociali come democrazia e giustizia, fino agli oggetti matematici, come i numeri. Dobbiamo ritenere che tali effetti svolgano un ruolo cognitivo di pari importanza e di pari legittimità? Da una serie di esperimenti risulta che il concetto di numero pari esibisce effetti prototipali, vale a dire che alcuni numeri sono percepiti da determinati individui come ‘più pari’ di altri (ad esempio, 4 viene considerato ‘più pari’ di 18 e ‘molto più pari’ di 106). Come osserva Diego Marconi, “non c’è nessun senso ragionevole in cui un numero pari possa essere detto più pari di un altro numero pari: essere pari è semplicemente essere divisibile per due, e, se un soggetto dispone del concetto di numero pari, non può che essere questo il suo criterio di applicazione4. Decidendo di esprimere con maggior forza questa obiezione, potremmo dire che questi esperimenti mostrano che la pervasività degli effetti prototipali corrisponde a qualcosa di imbarazzante per i suoi sostenitori, e cioè che la mente umana tende a percepire e a produrre, oltre alle buone somiglianze, anche una grande quantità di ‘somiglianze spazzatura’5.

 

2. Questa constatazione, che molti studiosi preferiscono eludere o minimizzare, non va peraltro considerata una novità: i rapporti di somiglianza sono stati spesso indicati come ingovernabili, cioè come un luogo di proliferazioni ingannevoli. Per esempio, Michel Foucault ha descritto la nascita del paradigma cartesiano nell’orizzonte di una guerra contro l’inflazione delle somiglianze: un’inflazione che la cultura medioevale-rinascimentale non soltanto tollerava, ma alla quale attribuiva un ruolo costruttivo nella produzione e nell’organizzazione del sapere. Nella ricca trama semantica della somiglianza, Foucault mette in rilievo quattro figure principali. La convenientia, cioè la somiglianza fomentata dal luogo: avvicinandosi le une alle altre, le cose finiscono con lo sprigionare tutte le potenzialità del simile; “i loro margini si toccano; le loro frange si mescolano, l’estremità dell’una indica l’inizio dell’altra” (32)6. L’aemulatio, somiglianza senza contatto, che si manifesta nel riflesso, nella specularità e dunque nel raddoppiamento: le cose si rispondono, esse “possono imitarsi da un capo all’altro dell’universo senza concatenamento né prossimità” (ivi, p. 33-34), con pari intensità oppure con disparità di forza, in una trama di conferme reciproche che non esclude la rivalità: “in questo duello le due figure affrontate s’impossessano l’una dell’altra. Il simile avvolge il simile, che a sua volta lo accerchia, e sarà forse nuovamente avviluppato, in virtù di un raddoppiamento che ha il potere di ripetersi all’infinito” (ivi, p. 35). L’analogia, in cui convenientia e aemulatio si sovrappongono, rivelatrice di somiglianze sottili, quelle dei rapporti e non delle proprietà, nascoste e visibili: ad opera sua, tutte le figure del mondo possono essere accostate” (ivi, p.36). La simpatia, che “percorre in un istante gli spazi più vasti” (ivi, p. 37) e che possiede “il pericoloso potere di assimilare, di rendere le cose identiche le une alle altre, di mescolarle, di farne svanire l’individualità” (ivi, p. 38). Contro questa forza dissolvente, che tende ad annullare ogni confine individuale e a far precipitare l’intero universo in un punto, opera la forza dell’Antipatia, che crea e mantiene distanze: “In virtù di questo gioco il mondo resta identico; le somiglianze continuano a essere ciò che sono, e a somigliarsi. Il medesimo resta il medesimo, e sbarrato nella propria identità” (ivi, p. 39).

Queste pagine contengono implicazioni che vanno evidenziate: Foucault ha descritto quello che possiamo chiamare un regime di somiglianze, e più precisamente il regime confusivo, nella cultura del Medio Evo e del Rinascimento così come egli l’ha ricostruita. Delineando la quarta figura, ha compiuto però un passo ulteriore: la produzione di distanze ad opera dell’Antipatia non corrisponde forse al funzionamento di un secondo regime, il separativo? Dunque Foucault sta utilizzando implicitamente la nozione di ‘regime’ – nozione che emergerà peraltro in maniera esplicita in altri suoi scritti: tuttavia, il fatto di utilizzarla qui implicitamente, senza metterla a fuoco, costituisce un limite notevole del suo discorso. Ciò che manca in questa ‘storia delle somiglianze’ è precisamente una teoria delle somiglianze, in grado di distinguere il funzionamento di regimi diversi. Con quali conseguenze?

Ricostruendo le trasformazioni culturali dal Medioevo a oggi, ciò che l’archeologia non riesce a vedere, essendo priva di una teoria delle somiglianze, è l’esistenza e l’azione di un terzo regime, che chiameremo distintivo, e che si è manifestato, ad esempio, e per restare nella fase temporale sin qui considerata, nel sapere strategico del Principe di Machiavelli e nella parodia delle somiglianze, dispiegata dal Don Chisciotte7. Potremmo dire, allora, che l’attenzione foucaultiana alle discontinuità epocali nasconde parzialmente le differenze tra regimi, il cui conflitto attraversa le epoche, e che non può venir ignorato nella comprensione di ciascuna di esse. La ricostruzione dell’episteme, dei campi epistemologici, appare rischiosamente vicina agli Universali, verso cui Deleuze esprimeva la propria diffidenza. Forse una diffidenza esagerata, e che occorre valutare con attenzione: nessuna teoria può fare a meno di concetti, che tendono a collocarsi sul versante della massima generalità, e comunque di un’ampia generalità. Rinunciare a questo tipo di concetti significherebbe impoverire la teoria, e condannarla a una duplicazione miope di oggetti che si sottrarrebbero all’analisi. Vedremmo le cose solo ‘in primo piano’. Dovrebbe essere evidente che una teoria delle singolarità non intende soggiacere a questi effetti di obesizzazione. Ciò che la caratterizza è la funzione assegnata ai concetti più generali, alla cui posizione sovraordinata non viene attribuito una superiorità esplicativa.

Non basta. Occorre ricordare che l’elaborazione dei concetti non avviene unicamente lungo la via della rarefazione e dell’astrazione, e comunque dei procedimenti tassonomici e induttivi; e neanche soltanto ad opera dei procedimenti deduttivi. Queste vie più sicure e rigide non coprono l’intero ambito dell’elaborazione concettuale, e vanno affiancate da altre vie, e tra di esse un’attività che chiameremo analisi della polisemia. Tutti i termini delle lingue naturali, forse, presentano un’identità polisemica più o meno accentuata, che è stata e viene giudicata da alcuni come una ricchezza, da altri come un difetto. Alla filosofia, e ad ogni disciplina che ambisca ad acquistare lo statuto di teoria autentica, il compito di non limitarsi a censire la molteplicità dei significati (o degli usi), ma di afferrare le potenzialità cognitive che la polisemia offre.

Riprendiamo ora in esame la nozione di ‘somiglianza’ e l’atteggiamento metodologico di Foucault, ma anche il dibattito contemporaneo sullo statuto dei concetti.

 

3. A un censimento di carattere lessicale la trama della somiglianza si presenta in una molteplicità disordinata: “Amicitia, Aequalitas (contractus, consensus, matrimonium, societas, pax et similia), Consonantia, Concertus, Continuum, Paritas, Proportio, Similitudo, Coniunctio, Copula”, e, aggiunge Foucault, numerose altre nozioni (ivi, p. 31). Anziché dirigere il proprio sforzo definitorio su ciascuno di questi termini – che sembrano formare una famiglia dalle somiglianze intricate -, Foucault propone una tipologia: quattro figure principali, che dovrebbero circoscrivere l’orizzonte di questa forma di pensiero e rendere conto della sua varietà interna. Come abbiamo visto, però, la tipologia esplicita si intreccia con un’altra tipologia, soltanto abbozzata, e incompleta: quella dei regimi. Che cos’è un regime, relativamente alla dimensione dei concetti? Non è facile definirlo: vale subito la pena di osservare che si tratta di un concetto completamente ignorato dal dibattito sui concetti nell’ambito delle scienze cognitive. Per quale ragione? Cercando di rispondere a questa seconda domanda si può iniziare a rispondere anche alla prima.

Si è accennato alla novità rappresentata dalla teoria dei prototipi rispetto alla concezione classica; una novità indiscutibile, anche se resta problematica la possibile coesistenza delle due teorie. Ciò che interessa qui, tuttavia, è un’altra cosa: al di là del loro contrasto, la concezione classica e quella che nasce con Wittgenstein (in particolare la teoria dei prototipi) presentano una forte affinità o solidarietà epistemologica. Entrambe sono imperniate fondamentalmente sulla nozione di ‘proprietà’ e dunque possono venir considerate e chiamate concezioni proprietarie. Le discussioni interne (sul carattere composizionale dei concetti, e sulla loro strutturazione, ecc.) muovono comunque dal presupposto che un concetto indichi una proprietà singola (il giallo delle mele) oppure una collezione di proprietà (sfericità, durezza, sapore dolce, ecc.: l’elenco dei tratti semantici è il corrispettivo delle proprietà).

L’attuale dibattito andrebbe ampliato ad altre due concezioni: quella degli esemplari, e quella delle teorie (preferisco parlare di ‘mini-teoria’, per evitare una fastidiosa sovrapposizione con un termine che andrebbe riservato a costruzioni complesse). Nel caso degli esemplari, la somiglianza continua a svolgere un ruolo decisivo; mentre un prototipo è una rappresentazione generale, astratta o riassuntiva, un concetto inteso come esemplare indicherebbe invece una collezione. Con questo vantaggio: per categorizzare, la rappresentazione di un cane ‘medio’ potrebbe risultare meno utile che non una collezione di esemplari di cani8. Inteso invece come una mini-teoria, un concetto è un insieme di informazioni, alcune più fondamentali e centrali, altre derivate e più suscettibili di revisione. La novità più importante, in questa sede, è che le mini-teorie non considerano la somiglianza come il fattore decisivo nella categorizzazione: alcuni studi hanno mostrato che “per categorie sovraordinate come il concetto di veicolo o di arma, la tipicità di un esemplare è data dal suo confronto con un ideale, e ciò che conta come ideale non dipende da proprietà osservative (proprietà frequenti o diagnostiche degli esemplari esperiti), quanto piuttosto dal sapere che cosa si deve fare con le cose di questo tipo”. La marginalità della somiglianza diventa palese nei riguardi delle categorie ad hoc, come posti in cui nascondersi, regali di Natale per una nonna, ecc. 9. Si passa da una concezione proprietaria a una concezione funzionale? Parrebbe di sì: ad esempio, perché un oggetto sia una sedia è essenziale la funzione di potercisi sedere, e non il materiale o l’aspetto. Tuttavia non si può non rilevare come, nell’ambito di quest’ultima concezione, si continui a utilizzare la nozione di ‘proprietà’: “la funzione vincola le variazioni possibili delle altre proprietà di un artefatto: poiché la sedia è un oggetto fatto per sedersi, non può essere costituita da schiuma da barba”10. Al fine di categorizzare, l’attenzione si concentra su ciò che certi elementi hanno in comune, funzioni o anche cause. Non stupisce quindi che si parli di ‘proprietà funzionali comuni”11, smussando la differenza tra proprietà e funzione. In effetti, come esistono proprietà disposizionali, non sempre immediatamente osservabili (ad esempio la solubilità, che una zolletta di zucchero non rende esplicita se non quando viene immersa in un liquido), così sembra legittimo parlare di proprietà funzionali. Tanto più che la funzione ‘potersi sedere sopra’ non basterebbe, ad esempio, per differenziare una sedia da un divano: bisognerebbe recuperare le proprietà osservabili. Insomma, le funzioni, intese non in senso matematico ma come ‘servire a qualcosa’, e le proprietà appartengono a un medesimo orizzonte: la loro differenza non le rende abbastanza diverse per collocarle in diversi regimi.

Con la teoria dei regimi, invece, vengono introdotte differenze decisive. Comunque la si voglia formulare, la teoria dei regimi mette l’accento sul modo, cioè sullo stile di pensiero che presiede a un’opera, a un insieme di testi, a una cultura. E dunque mette l’accento sui modi di categorizzare.

Ancora una precisazione: nel dibattito attuale, i termini modale e amodale vengono utilizzati in un’accezione ristretta, che non ha nulla a che vedere con i regimi. Per le teorie ‘embodied’, i concetti sono rappresentazioni ‘modali’ nel senso che “tengono traccia del modo specifico in cui l’informazione è stata acquisita (tatto, vista, eccetera)”12. Nella prospettiva che sto per delineare, e che si ispira tra l’altro alla differenza che Heidegger pone tra proprietà e modi d’essere, un’espressione come proprietà modali13 risulterebbe del tutto aberrante. In conclusione, il dibattito attuale sui concetti, e il confronto tra diverse concezioni (definizioni, prototipi, esemplari, mini-teorie) appartiene a un solo regime, il separativo. Manca del tutto la consapevolezza di una eterogeneità tra stili di pensiero.

 

3. Torniamo brevemente a Foucault. La differenza tra la configurazione culturale che domina ancora il XVI secolo e quella che s’impone nel secolo successivo può certamente essere descritta come un formidabile ridimensionamento della funzione conoscitiva affidata alla somiglianza: “All’inizio del XVII secolo, nel periodo che a torto o ragione viene chiamato barocco, il pensiero cessa di muoversi nell’elemento della somiglianza. La similitudine non è più la forma del sapere, ma piuttosto l’occasione dell’errore (…) L’età del simile sta per chiudersi su se stessa” (MC, 66). Con più precisione, però, si dovrebbe dire che vaste zone della cultura medioevale e rinascimentale, sino ad allora irrigate dal regime confusivo, appaiono improvvisamente come acquitrini da prosciugare e non più come rigogliose e vitali. Il progetto di bonifica e di trasformazione s’ispira al regime separativo, paradigmaticamente rappresentato dal pensiero cartesiano. Non che le somiglianze scompaiano; ma vengono accettate solo, per usare una celebre espressione, in quanto chiare e distinte. Si faccia attenzione però: distinguere è un verbo che assume significati diversi a seconda del regime a cui viene riferito.

E’ giunto il momento di precisare la nozione di ‘regime’ – regime di senso o dei concetti. E non soltanto per indicare la possibilità di riscrivere con maggior rigore e ricchezza di articolazioni la storia delle somiglianze (l’histoire des ressemblances), come viene impostata da Foucault: questo rimane un obiettivo, per così dire, tangenziale. Ripropongo la tesi già enunciata: una storia delle somiglianze esige una teoria delle somiglianze. Ma una teoria delle somiglianze potrà essere sviluppata adeguatamente solo in rapporto a una teoria dell’intelligenza e delle capacità cognitive: e quest’ultima potrà dispiegarsi adeguatamente solo accettando l’ipotesi secondo cui il pensiero è sempre modalizzato, cioè stilisticamente determinato. Il grande limite di quelle che oggi vengono chiamate scienze cognitive è che sono scienze ‘separative’, cioè monostilistiche.

Con ciò non si nega l’interesse e l’importanza del dibattito attuale; ma è necessario andare oltre. Che cosa significa, dunque, analizzare il funzionamento del pensiero nella prospettiva dei regimi? Poiché in questa sede non si può rispondere se non schematicamente, concentreremo l’attenzione su un unico problema, quello per l’appunto delle somiglianze. Abbiamo detto che Foucault riconosce soltanto due regimi, il confusivo e il separativo: o meglio, che il conflitto tra questi due regimi è chiaramente riconoscibile, in quanto occupa interamente la scena, nella sua descrizione del passaggio tra l’epoca rinascimentale e l’epoca barocca. Non dobbiamo tuttavia credere che un regime, ad esempio il separativo, possa esistere in una sola versione, quella che si afferma nel XVII secolo 14.

Procedendo in maniera un po’ esitante, Foucault inizia con l’affermare che la somiglianza è stata marginalizzata; in seguito si corregge: “Cartesio rifiuta sì la somiglianza, ma ciò avviene non escludendo dal pensiero razionale l’atto di confronto, né cercando di limitarlo, ma al contrario universalizzandolo e conferendo ad esso, in tal modo, la sua forma più pura” (ivi, 67). Esistono due forme di confronto, la misura e l’ordine: “d’ora in avanti ogni somiglianza verrà sottoposta alla prova del confronto, cioè essa sarà accettata soltanto dopo aver trovato, attraverso la misura, o, più radicalmente, attraverso l’ordine, l’identità e la serie delle differenze l’unità comune” (ivi, 79).

Dunque: alla domanda “tutte le somiglianze si somigliano?” il regime confusivo risponde positivamente; il regime separativo risponde negativamente; ma è essenziale comprendere le ragioni trascendentali del “no”, se si vuole accedere al funzionamento dei regimi.

Quando afferma che, trascurando l’intuizione di una cosa isolata, ogni conoscenza “è ottenuta attraverso il confronto di due o più cose tra di loro”15, Cartesio indica la condizione di accesso al regime separativo. L’atto di confronto agisce da filtro, separando anzitutto ciò che è omogeneo da ciò che è eterogeneo; e soltanto l’omogeneo risulterà misurabile e ordinabile, dunque calcolabile. Il regime separativo è disposto ad accettare soltanto le somiglianze omogenee, vale a dire quelle che presentano un genere comune, e che si dispongono su un terreno comune. Non accadrà più, o meglio non accadrà mai in questo regime, che le erbe vengano paragonate agli astri: le erbe sono confrontabili soltanto con le erbe, e le stelle con le stelle. Il volto umano non potrà più ripetere il cielo. A venir escluso è l’intero dominio delle somiglianze eterogenee, irrimediabilmente ‘inesatte’ e non computabili: il metaforico.

Perché le metafore scavalcano i confini che separano i generi, in quanto domini o insiemi definiti dalla gerarchia tra proprietà essenziali e proprietà accidentali, e congiungono gli enti sulla base di nessi che ignorano qualunque gerarchia ontologica. Così accadeva nella cultura confusiva del Rinascimento, per la quale, ad esempio, “il volto è l’emulo del cielo; come l’intelletto dell’uomo riflette imperfettamente la saggezza di Dio, così i due occhi con la loro luminosità illimitata riflettono la grande illuminazione diffusa, nel cielo, dal sole e dalla luna; la bocca è Venere, poiché attraverso essa passano i baci e le parole d’amore; il naso rende la minuscola immagine dello scettro di Giove e del caduceo di Mercurio16. Va detto però che queste somiglianze sterili e arbitrarie appartengono al confusivo inferiore: per ogni regime dovremmo infatti distinguere le modalità mentalmente più ricche – e il confusivo offre contributi fondamentali alla sfera estetica, per esempio – dalle modalità inferiori. Nel confusivo inferiore germogliano metafore effimere e inconsistenti, benché non prive di suggestione, e anche molte somiglianze-spazzatura.

Non tutte le somiglianze eterogenee, però, sono confusive, e prive di valore conoscitivo; ecco perché bisogna riconoscere un terzo regime, in cui le metafore ridescrivono il mondo e indicano prospettive feconde. Come riconoscerle, però? Non sembra possibile affrontare questo problema lungo la via del metodo, ma solo sperimentalmente. Tra i vari concetti di ‘concetto’ che abbiamo considerato, il più pertinente per comprendere il funzionamento della metafora (pur nella differenza tra regimi) è quello delle mini-teorie. In effetti una buona metafora è una micro-teoria, un micro-universo semantico virtualmente in espansione, e l’oltrepassamento di confini attuato dalle metafore va probabilmente giudicato caso per caso. Non si deve comunque enfatizzare il valore ‘trasgressivo’ della metafora: si rischia di farla apparire soltanto come l’insorgenza di un caos che il pensiero rigido non può sopprimere o abolire, e che tollera confinandolo nei piaceri sregolati dell’immaginazione e destituendolo di qualunque pretesa di conoscenza. Invece la metafora è un modo di pensare, e le trasgressioni categoriali attuate dalle metafore corrispondono a un pensiero dei legami. La teoria dei regimi comprende perciò le indagini sulle forme di intelligenza che rientrano nel campo dell’intelligenza figurale: il che significa la necessità di nuove tipologie.

Questa è la direzione che ritengo di poter indicare: una sperimentazione tipologica che introduca differenze di famiglia là dove uno sguardo irresoluto si limiterebbe a percepire somiglianze di famiglia. Sia chiaro però che una tipologia non deve rispondere solo alla difficoltà di cogliere l’elemento comune in una varietà multiforme, ma ancora sufficientemente omogenea17: la sperimentazione tipologica dovrà evitare qualunque riduzione di complessità e di eterogeneità nei fenomeni indagati.

Con maggior precisione, la ricerca potrebbe muoversi lungo queste vie:

- la distinzione tra i regimi: il separativo, che è il regime della rigidità o della semirigidità, il regime del letteralismo, il più ostile (quando non è totalmente ostile) al linguaggio figurale; il confusivo, non riducibile alla ‘confusione’, che è soltanto la sua modalità inferiore; e il distintivo, che va pensato come il regime della flessibilità. Soltanto qui può venir elaborata una teoria dell’intelligenza figurale. Il verbo distinguere assume quindi significati diversi, a seconda che sia riferito a stili di pensiero rigidi oppure flessibili;

- la distinzione tra procedimenti figurali, di cui verificheremo tra breve la fecondità e la necessità;

- il problema del conflitto, relativamente alle molte versioni di un medesimo nucleo narrativo: le versioni del mito di Narciso, o di Tristano e Isotta, o di Don Giovanni, ecc. Anziché registrare le varianti, nell’ottica di un pensiero del Molteplice, è possibile introdurre distinzioni conflittuali, ad esempio tra versioni etiche e cognitive. Ne riparleremo (cfr. i paragrafi 7 e 8).

 

4. Nessun tentativo di pensare l’eterogeneo, e l’alterità, può sottrarsi a un’obiezione preliminare, la cui radicalità assume peraltro, in molte occasioni, un aspetto stereotipato. La vera alterità, si dice, è ciò che sfugge a qualunque cattura da parte del pensiero: a venir classificato, o categorizzato, è ciò che risulta disponibile alla classificazione, e non il residuo innominabile, recalcitrante a ogni ordinamento possibile. In una certa misura, l’obiezione va accettata: la realtà effettuale ha qualcosa in comune con i sogni, cioè un ombelico che affonda nell’ignoto18. Inaccettabile, però, è l’invito a desistere di fronte a una ineffabilità, dichiarata tale soltanto perché sfugge a modelli troppo rigidi, e ad una razionalità unilaterale. Prima di affermare che esistono oggetti inclassificabili, sarà bene smascherare le cattive classificazioni. E prima di rassegnarsi al divieto di pensare le singolarità – individuum est ineffabile -, ci si dovrà chiedere se la teoria è chiamata a pensare sempre e soltanto l’individuo, e non piuttosto il dividuum. Il dividuum, il ‘dividuale’, non sarà forse articolabile? E ancora: a chi guarda alle tassonomie come all’obiettivo supremo, si potrà obiettare che più importante di una possibile tassonomia è la possibilità di un’analisi.

Consideriamo un esempio di alterità radicale, tornando ancora una volta a Le parole e le cose. Foucault inizia la sua ricerca con l’impensabile, cioè con una classificazione, il cui principio d’ordine è così radicalmente altro rispetto ai nostri modi di classificare (“alla nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro”; ivi, p. 5), da suscitare un riso irresistibile, e anche un malessere intellettuale.

L’impossibile da pensare viene esemplificato daun testo di Borges, che menziona “una certa enciclopedia cinese secondo la quale “gli animali si dividono in : a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche”19. Ma da cosa dipende questa impossibilità? che cosa la genera? Secondo Foucault, questo frammento non ci presenta semplicemente un elenco bizzarro, e tantomeno un catalogo di mostruosità, un elenco iperbolico di deformazioni. La sua ‘mostruosità’ sobria deriva invece dall’aver abolito ogni possibile spazio comune, in cui gli elementi enumerati si sarebbero potuti incontrare (ivi, p. 6). Ciò che viene meno, insomma, è ogni possibilità di somiglianza.

In effetti, la funzione intrinseca di ogni relazione di somiglianza è la generazione di uno spazio comune, per quanto ridotto, esiguo e sottile possa essere. Se ne vuole una prova? Ciò che riduce il carattere eteroclito dell’elenco “Aspidi, Amfisbene, Ameruduti, ecc.” non è soltanto il loro incontrarsi nella saliva di Eustene (ivi, p. 6), ma la lettera iniziale, la ‘A’ che tutte queste parole condividono e che si profila inevitabilmente come un principio di riunione e di affiancamento, se non di ordine. Nell’enciclopedia cinese, invece, l’eterogeneità non sembra riducibile da nessun punto di vista; anzi, ad accrescere smisuratamente il disordine dei troppi ordini possibili e discordi, a negare la possibilità di uno spazio comune in grado di accoglierli, e dunque ogni eventualità di ‘tenere insieme’ gli elementi della serie, contribuisce la classe degli animali “inclusi nella presente classificazione”: elemento paradossale che sconvolge la successione delle ‘e’, rendendo impensabile anche la coesistenza per mera contiguità.

Prima di esaminare nuovamente il caso dell’enciclopedia cinese in maniera più precisa e analitica, è opportuno ricordare sinteticamente il progetto foucaultiano. La Prefazione a Le parole e le cose pone il lettore di fronte a un caso inquietante, a qualcosa che fa vacillare le nostre abitudini classificatorie, il cui presupposto implicito è la possibilità di riconoscere o di instaurare relazioni di similarità. D’improvviso, queste abitudini non ci appaiono più ovvie, la loro efficacia risulta sospesa e costringe a chiedersi: “Quando instauriamo una classificazione consapevole, quando diciamo che il cane e il gatto si somigliamo meno di due levrieri, anche se entrambi sono addomesticati o imbalsamati, anche se entrambi corrono come matti, e anche se fanno l’amore, qual è dunque l’elemento di base a partire dal quale possiamo sostenere quest’affermazione con piena certezza? Su quale ‘tavola’ (“table”), in base a quale spazio di identità, di similitudini, di analogie, abbiamo preso l’abitudine di distribuire tante cose diverse e uguali?” (ivi, p. 9). Abbandonando l’ipotesi di un reticolo trascendentale, che sorreggerebbe le percezioni di affinità nel variare delle epoche, Foucault parla di sfondi epocali mutevoli, di a priori storici, destinati a essere l’oggetto d’indagine dell’archeologia. L’opera del 1966 si prefigge così di mostrare come la cultura occidentale, dal Rinascimento in poi, ha sperimentato l’affinità delle cose, e come ha costruito i modi di classificazione: “si tratta insomma di una storia della somiglianza (une histoire de la ressemblance)” (ivi, p. 14). Tale progetto è focalizzato su una “regione mediana” in cui si manifesterebbe l’ordine “nel suo stesso essere” (ivi, p. 11) e che sarebbe più ‘vera’ (le virgolette sono di Foucault) delle teorie che tentano di renderla esplicita.

Ma fino a che punto il testo di Borges è inclassificabile? E’ davvero impossibile risalire alle tecniche figurali di cui è l’esito? Foucault assimila e confonde l’impossibilità di trovare un luogo comune per le voci dell’enciclopedia cinese con l’impossibilità di analizzare un elenco, che sfugge effettivamente agli spazi della somiglianza in quanto è costruito principalmente sulla metonimia, sulla tecnica dell’à côté. La sua bizzarria sta dunque, anzitutto, nel rappresentare un caso di metonimico puro – eventualità rara nella tradizionale letteraria, almeno quella occidentale. Forse la metonimia in quanto strategia testuale e stile di pensiero non è mai stata sperimentata realmente se non nella nostra epoca, di cui Borges dice che “coltiva deliberatamente l’incoerenza”. A rendere più complicato il testo di Borges è peraltro la combinazione tra metonimia e paradosso, due tecniche che appartengono a due diverse province figurali20.

A questo punto si potrebbe rovesciare almeno parzialmente il topos dell’ineffabile, e affermare che tutto ciò che entra a far parte del linguaggio – compresa l’enciclopedia cinese di Borges - è sempre articolabile, e dunque analizzabile. Non senza residui, forse. Ma prima di dichiarare ineffabile ciò che si sottrae alla ricerca di un terreno comune, ciò che non si dispone su una table pensata come luogo di convergenza, dobbiamo considerare la possibilità di legami diversi da quelli della Somiglianza. E’ vero che, nel caso delle serie metonimiche, il legame tende ad assumere la forma dello ‘slegato’ e dell’informe; tuttavia, nel momento in cui consideriamo un certo numero di casi di metonimia – casi riuniti da una percepibile familiarità, da somiglianze di famiglia -, dovremmo saper riconoscere le differenze di complessità: soltanto nella sua modalità inferiore, la metonimia è semplice disordine, caos inconcepibile e fastidioso; nella sua modalità superiore, come nella scrittura di Kafka o nella pittura di De Chirico, la metonimia è una strategia testuale a cui non possiamo non attribuire uno straordinario valore estetico.

Più inquietanti dell’enciclopedia cinese sono alcuni personaggi di Kafka, la cui identità è così instabilmente cumulativa da rendere poco plausibile ogni principio di organizzazione e di chiusura. Il personaggio esce costantemente da se stesso, si deposita accanto a se stesso, e la sua realtà proteiforme non oltrepassa né precede la serie delle sue apparenze. Ciò che tiene insieme la serie delle sue identità, o dei suoi tratti, è soltanto il nome proprio, il cui potere di unificazione non è certo superiore al nome di genere comune ‘animali’ utilizzato nell’enciclopedia cinese. Ecco un esempio, la descrizione di Klamm nel Castello:

Quando egli viene in paese ha un aspetto, e un secondo ne ha quando va via, un altro prima di bere la sua birra, e un altro ancora dopo averla bevuta, nella veglia cambia, e cambia di nuovo nel sonno, e quando è solo e quando parla; e come ben si comprende dopo tutto ciò, è quasi completamente diverso quando si trova al castello. D’altronde, anche nel villaggio le differenze di cui si parla sono abbastanza grandi: diversità di statura, di portamento, di corpulenza, di barba, solo sul vestire concordano fortunatamente tutte le testimonianze, egli porta sempre lo stesso abito, una giacca nera a lunghe falde. Tutte queste differenze, s’intende, non sono opera di magia, anzi si comprendono assai bene, dipendono dall’umore, dal grado di commozione, dalle innumerevoli sfumature di speranza o di disperazione in cui si trova lo spettatore, che oltre a ciò lo può contemplare di solito solo per brevi istanti”.21

 

Ci si potrebbe chiedere se la frammentazione del personaggio non dipenda esclusivamente dallo sguardo dello spettatore, come il testo sembra suggerire a un certo punto, e non dal suo statuto ontologico: non è così, perché l’immagine “varia, ma forse non varia tanto quanto l’aspetto reale (wirkliches Aussehen) di Klamm”22. Che l’identità, in Kafka, dipenda in misura essenziale dal principio metonimico è confermato tra l’altro da un passo dei Diari: “Che cosa ho in comune con gli ebrei? A malapena ho qualcosa in comune con me stesso”23.

Si noti, ancora, che la presenza di un unico elemento ricorrente nelle descrizioni di Klamm (lo stesso abito, una giacca nera a lunghe falde) non contribuisce affatto a una stabilizzazione identitaria, anzi, aumenta l’enigmaticità dell’insieme: svolge dunque una funzione di dissonanza, paragonabile alla funzione del paradosso nell’enciclopedia cinese; in entrambi i casi un elemento estraneo interviene a spezzare la possibile monotonia della serie.

Non posso dilungarmi sulla metonimia come strategia testuale e come stile di pensiero; ma la tecnica delle definizioni in forma di elenco, in Nietzsche, e la proposta di Deleuze di sostituire la congiunzione ‘e’ alla copula ‘è’ mostrano come la metonimia sia entrata sulla scena della modernità con grande impeto, proponendosi come un tipo di legame che riduce al minimo lo spazio comune tra gli elementi di un insieme o di una serie: come la più agguerrita avversaria delle somiglianze (omogenee). Nondimeno, la metonimia è un legame che procede, per così, dire, sul filo del rasoio del non-legame o dello slegato. Un rasoio tagliente, non una corda tesa che garantirebbe comunque una direzione e un sostegno. Il metonimico è uno stile di pensiero che non poggia su alcun fondamento, ed è sorretto unicamente dal proprio slancio.

 

5. Nella famiglia delle tecniche figurali bisogna dunque introdurre le differenze: in maniera sperimentale, cercando di costruire il modello più articolato possibile, ma evitando una proliferazione sterile delle distinzioni che ci condurrebbe alla paralisi (tendenzialmente, alla mappa che crede di poter duplicare il territorio). Ci sono molte buone ragioni, credo – e ho cercato di mostrarlo in un precedente lavoro a cui sono costretto nuovamente a richiamarmi -, per abbandonare il modello jakobsoniano che riduce a due i macro-procedimenti figurali (metafora e metonimia). Si tratta di un modello troppo poco articolato, che crea confusione e legittima schematismi, anche sul piano filosofico. Vorrei riprendere rapidamente questo problema, anche per completare il riferimento a Foucault, e alla sua prospettiva sulle somiglianze. Schematicamente:

- il rapporto di similarità tra oggetti (problema delle classificazioni) va distinto dal problema del rapporto tra pensiero e realtà (il pensiero somiglia alle cose? ). Tuttavia i due problemi finiscono con l’intersecarsi.

- in un testo su Magritte, Foucault distingue la nozione di ‘somiglianza’ da quella di ‘similitudine’. “Mi sembra che Magritte abbia dissociato dalla somiglianza la similitudine e abbia fatto giocare questa contro quella. La somiglianza (ressemblance) ha un ‘modello’ (‘patron’): elemento originale che ordina e gerarchizza a partire da sé tutte le copie sempre più sbiadite che se ne possono fare. Somigliare suppone una referenza prima che prescrive e classifica. La similarità (le similaire) si sviluppa in serie che non hanno inizio né fine, che si possono percorrere in un senso o nell’altro, che non obbediscono a nessuna gerarchia, ma si propagano di piccole differenze in piccole differenze. La somiglianza serve alla rappresentazione, che vi regna sopra; la similitudine (similitude) serve alla ripetizione che vi corre attraverso24. Qui la divaricazione terminologica – di per sé ammissibile, sia chiaro – permette la contrapposizione tra due modelli. Il primo, tradizionale, afferma la funzione rappresentativa del pensiero nei processi cognitivi: dunque il pensiero somiglierebbe alle cose, e una rappresentazione sarebbe vera in quanto somigliante. Questa è una concezione referenziale, dunque ‘servile’, della conoscenza. Il secondo svincola la somiglianza dal referente: all’oggetto subentra una rete aperta di similitudini, e all’asserzione unica (“sempre la stessa: questo, quello, quell’altro sono la tal cosa”) subentra una molteplicità di affermazioni diverse (“che danzano insieme, appoggiandosi e cadendo le une sulle altre”)25. Il referente si dissolve nel simulacro, o meglio nei simulacri.

E’ chiaramente riconoscibile qui una visione in cui convergono le filosofie francesi della differenza (Foucault, Deleuze e Derrida), e che potremmo sintetizzare così: l’intento è quello di enfatizzare i rapporti orizzontali tra i segni in contrasto con il rapporto verticale tra il segno (rappresentativo) e il referente. I debiti nei riguardi dello strutturalismo dovrebbero essere evidenti.

- questo progetto è caratterizzato parzialmente da alcuni equivoci: (a) si tende a porre come equivalenti la nozione di ‘serie’ e quella di ‘metonimia’, come se le serie fossero essenzialmente e inevitabilmente metonimiche. Non è così: anche la metafora può essere seriale, anche le metafore possono danzare insieme, appoggiarsi e cadere le une sulle altre (è scontato il riferimento a Proust, meno scontato menzionare il Canto di Gerione nell’Inferno dantesco)26;

(b) si tende a considerare metonimico l’insieme dei rapporti orizzontali, come se ogni rapporto orizzontale rendesse possibile soltanto uno slittamento per contiguità. In maniera complementare, per la cattiva influenza del fortunatissimo modello di Jakobson, si tende a postulare un rapporto verticale (o referenziale) tra la metafora e l’oggetto. Niente di più errato, per diversi motivi.

Si dimentica la differenza tra rappresentazioni (concrete o astratte) basate su somigliane omogenee (una collezione di esemplari di mela, oppure la definizione di mela) e unità semiotiche basate su somiglianze eterogenee, come avviene per le metafore (sicuramente per le più prototipiche tra le metafore). Le prime raccolgono proprietà empiriche, che vanno a comporre un ‘quadro’; le seconde non offrono alcuna rappresentazione, se con rappresentazione si intende un’immagine o una costruzione verbale orientata da somiglianze empiriche e omogenee. Perciò Black ha affermato giustamente che le metafore inventano le somiglianze27: ora, se le metafore generano una verità ‘di invenzione’, dovrebbe essere evidente la distanza tra gli effetti di conoscenza che esse producono e gli effetti prodotti dalle rappresentazioni. E’ in riferimento alla conoscenza rappresentativa che è stato formulato e ha continuato a ricevere consensi il modello della verità come adequatio, modello che appare almeno parzialmente legittimo quando opera nella miscela modale dominata dall’effettualità, dalla Wirklichkeit. Tuttavia le metafore spezzano l’involucro della realtà effettuale. Un esempio: “la parole humaine est comme un chaudron fêlé où nous battons des mélodies à faire danser les ours, quand on voudrait attendrir les étoiles”28. Quale somiglianza, nell’ordine delle somiglianze empiriche, e comunque omogenee, potremmo trovare tra la parola umana e un paiolo incrinato? Nessuna29.

 

6. Vorrei provare adesso ad affrontare il problema delle somiglianze in relazione a un caso paradigmatico, in cui la proliferazione del simile si manifesta in molte direzioni, e non soltanto nella molteplicità delle varianti. Esistono numerose versione del mito di Narciso: sono tutte egualmente valide, egualmente ricche? Le differenze di complessità in questa serie dovrebbero apparire evidenti, anche a un primo sguardo; il mio intento però non è soltanto quello di ottenere un’ammissione generica, ma di ostacolare l’uso di somiglianze generiche e depistanti, e di indicare una via molto più articolata. Il primato delle differenze resta enfaticamente sterile, se non è accompagnato da indicazioni metodologiche.

Regulae ad directionem ingenii – è questo che occorre cercare: senza dubbio, non si tratterà di regole che forniscono indicazioni rigide, regole da applicare meccanicamente o quasi, bensì di principi che creano nuove possibilità nell’intelligenza dei testi. Il più ampio di questi principi afferma che il testo è l’elaboratore ultimo del proprio significato: vale a dire che né il contesto né l’intertesto sono in grado di offrirci una vera possibilità di interpretazione. Nessuna verità sul testo può essere elaborata se si disconosce la sua singolarità, disconoscimento che risulta inevitabile se si privilegia il denominatore comune in una pluralità di versioni, oppure se si dissolve la complessità del testo in ramificazioni ‘soltanto possibili’. Dunque c’è sempre un testo, e c’è sempre un ‘fuori testo’, contrariamente a quanto ha sostenuto Derrida (Il n’y a pas de hors-texte): e questa differenza nasce non da frontiere rigide che causerebbero un effetto di chiusura, ma da quella che è l’autentica apertura del testo, cioè la forza con cui esso si svincola dalle reti di false somiglianze. Dalla sua emersione, da un atto di ribellione all’egualitarismo del molteplice.

Davanti a una pluralità di versioni del medesimo mito, ad esempio quello di Narciso, un compito essenziale consisterà nell’individuare anzitutto la versione più complessa, o se si vuole, nello scommettere su di essa, in attesa di verifiche. La mia ipotesi è che si debba indagare il testo di Ovidio; avendo già tentato altrove questa indagine, sia pure in una prospettiva non seriale, indicherò rapidamente i risultati a cui sono giunto30. Propongo una scansione narrativa e logica, ispirata alla psicoanalisi lacaniana:

(a) nel primo tempo di questa versione del mito, Narciso è ‘colui che non si riflette’: egli suscita l’amore, senza mai provarlo o ricambiarlo. E poiché l’amore è sempre, e sia pure in misura variabile, narcisistico, nella sua “tenera forma” indurita dalla superbia (in tenera tam dura superbia forma; v. 354) 31, tutti si riflettono. E s’innamorano.

All’inizio, dunque, Narciso non è “narcisista”. Non è innamorato di se stesso, piuttosto è indifferente all’amore – anzi, è indifferente all’alterità stessa. Se assumiamo l’asse immaginario, nella definizione di Lacan, dovremo dire che in Narciso si riscontra la coincidenza di Io e Io ideale (a e a’, nello schema L, riportato qui sotto in maniera semplificata), e che questa coincidenza gioca a favore di a’: il protagonista del mito è una pura superficie riflettente, incapace di trattenere qualunque immagine.32 Narciso è un essere totalmente confusivo, è l’indistinzione tra il soggetto e lo specchio, ma in questa confusione egli agisce come specchio.

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Il protagonista è inizialmente un soggetto indiviso.

(b) nel secondo tempo avviene la scoperta della divisione. Narciso si invaghisce di una forma che vede riflessa, e che è la sua. S’innamora del simile – inconsapevolmente, è vero, ma non casualmente: non potrebbe innamorarsi di nessun’altra immagine. La somiglianza, che qui coincide con la bellezza suprema, è stendhalianamente una promessa di felicità? Sì, in quanto è la conferma più desiderata e più desiderabile. E’ l’abolizione della distanza: una somiglianza perfetta non avvicina forse due esseri più di qualunque altra relazione, tranne l’identità stessa? Lo scacco di Narciso consiste proprio in ciò, che la figura amata è troppo vicina. Così egli si strugge per la lontananza:

Votum in amante novum: vellem, quod amamus abesset ! (v. 468)

“Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse più distante”. Più distante, perché una separazione comunque esiste: “ci divide un sottile velo d’acqua (exigua prohibemur aqua, v. 450). L’immagine vorrebbe essere presa: “diresti che si può toccare; è un nulla che si oppone al nostro amore” (posse putes tangi: minimum est, quod amantibus obstat, v. 453), e tuttavia il minimum è troppo poco, oltre che troppo. Di qui il desiderio inaudito di una distanza più grande.

Narciso che si riflette nell’acqua della fonte è la raffigurazione di un paradosso: la lontananza dipende da un eccesso di vicinanza, la persona da cui siamo più divisi è la persona a cui siamo più uniti – noi stessi. Non solo: la causa della scissione è l’amore, cioè il desiderio di non-scissione. L’amore è causa di una impasse insuperabile.

L’impossibile che si fa strada nel mito di Narciso non è tanto un’impossibilità empirica bensì logica: è l’impossibilità di coincidere con se stessi. In altri termini, l’impossibilità empirica di abbracciare la propria immagine – l’assurdità che suscita sconcerto, e anche derisione, nelle versioni minori o mediocri del mito 33 - è il velo di un’impossibilità logica. L’io desidera coincidere con l’Io ideale (o immagine perfetta, narcisistica), a desidera coincidere con a’. Ciò non è possibile, ed esattamente questa è la tragedia del narcisismo. A suggellare lo scacco dell’identità che aspira ad essere coincidenza giunge l’atto di riconoscimento: “Ma questo sono io! Ho capito e la mia immagine non m’inganna più” (Iste ego sum! sensi, nec me mea fallit imago, v. 463).

Adesso il protagonista è un soggetto diviso, la funzione-specchio si è staccata da lui e ciò gli consente per la prima volta di riflettersi in qualcosa d’altro. Paradossalmente, nella sua alterità non assimilabile.

(c) terzo tempo: la fissità del desiderio, il Todestrieb freudiano. Tempo interminabile, che oltrepassa e ignora la metamorfosi. “Anche dopo, quando fu accolto nella sede infernale, continuava a contemplarsi nell’acqua dello Stige” (Tum quoque se, postquam est inferna sede receptus, in Stygia spectabat aqua, vv. 504-505). Fedeltà mortifera al proprio desiderio, spinto alla rigidità suprema (cfr. Lacan, Seminario VII).

 

7. In riferimento a quest’analisi, si dovrebbero comprendere le ragioni della superiorità che viene qui assegnata alla versione di Ovidio: in nessun altra versione, forse, incontriamo la verità del mito – e dunque la verità di quella posizione psichica che è stata chiamata narcisismo. Ciò accade perché Ovidio ha imperniato il suo racconto essenzialmente su un dispositivo di conoscenza, e non su un dispositivo etico. Troppo sovente l’amore di Narciso per se stesso è stato colpevolizzato, e la sua morte – per consunzione, per annegamento – è stata indicata come la punizione che deriva da una colpa: il mito ci trasmetterebbe un messaggio di natura etica, e cioè che non si deve amare eccessivamente se stessi. Questa è la lettura moraleggiante o moralistica del mito. Nell’interpretazione cognitiva di Ovidio, invece, risulta che non si può amare se stessi. Non si può se si pensa – e non si potrebbe non pensarlo – all’amore come al desiderio di ‘fare uno’, o superamento della divisione. L’amore per se stessi, l’amor sui, è destinato a naufragare, a cozzare contro l’impossibile. Come ogni altro amore.

Dunque il narcisismo è la verità dell’amore non in senso riduzionistico (anche quando crediamo di amare, dominerebbe in noi l’egoismo; non siamo in grado di amare gli altri, ecc.); il mito di Narciso dice che non siamo in grado di amare noi stessi – come vorremmo.

Per chi è abituato a una visione banalizzata del narcisismo questa conclusione è piuttosto sconcertante; eppure è legittimata dal testo di Ovidio, a patto di leggere l’episodio delle Metamorfosi senza schemi precostituiti. Si riscontra qui una di quelle concordanze rilevate da Freud tra il genio dei poeti e le ricerche della psicoanalisi34: la letteratura ha messo in scena le divisioni del soggetto prima della psicoanalisi, e forse meglio di quanto possa farlo una teoria del soggetto diviso. Ma, evidentemente, non sarà possibile cogliere le concordanze tra il genio dei poeti e una teoria del soggetto diviso se non si possiedono conoscenze minimamente adeguate di quella teoria. Da Freud a Lacan, la concezione del narcisismo compie progressi decisivi; dunque non è corretto far riferimento alla psicoanalisi e citare soltanto Freud. E non è corretto neanche attribuire a Freud una concezione puramente ‘economica’ del narcisismo, limitandosi al primo capitolo del saggio Introduzione al narcisismo, dove i flussi della libido, quella dell’Io e quella oggettuale, appaiono complementari, e ignorando gli altri due capitoli35. Nel terzo, e sia pure in assenza di una chiara distinzione tra Io ideale e Ideale dell’Io, emerge il problema della perfezione perduta, e dunque dell’immagine con cui il soggetto desidera identificarsi. A partire da qui Lacan svilupperà la tesi dell’Io come relazione (tra a e a’) e non semplicemente come una zona della psiche, che potrebbe venire sovrainvestita libidicamente. Emerge così la problematica dei modi di identità: il soggetto scopre di non poter coincidere con se stesso, anzitutto nel registro dell’Immaginario e poi nel Simbolico: l’identità degli esseri umani appare nella sua possibilità superiore come ‘non-coincidenza’, per quanto il collasso nell’indiviso resti una possibilità a disposizione del soggetto.

Se il narcisismo è tragico, ciò dipende dal desiderio impossibile di coincidere con l’immagine ideale, con la forma perfetta che noi stessi siamo – ma solo nel desiderio ! Il Ritratto di Dorian Gray presenta questo desiderio in una forma più completa di quanto non avvenga in Ovidio, e cioè nella sua terribile ambivalenza. Nel mito di Narciso sembra esserci soltanto amore per la propria immagine; nondimeno il legame tra Eros e Thanatos si manifesta come necessità di autodistruzione.

Dunque, la versione del mito nelle Metamorfosi di Ovidio è un’indagine sullo statuto del soggetto diviso. Il primato del dispositivo di conoscenza su quello etico non vieta di trarre insegnamenti o precetti morali da questa vicenda, in cui il soggetto è così distruttivamente incatenato a se stesso; tuttavia non è ammissibile il precipitarsi verso banalità di carattere etico, ignorando la costruzione del testo, la sua ricchezza, la sua logica.

 

 

8. La prima regola da mettere alla prova invita a considerare qualunque testo come una ‘formazione di conflitto’, come la combinazione di un dispositivo etico e di un dispositivo di conoscenza. Poiché il rapporto di forza tra i due dispositivi è variabile, questa prima regola sconsiglia, e fa apparire fallace, ogni tentativo di rintracciare un denominatore comune che non sia il conflitto tra etico e cognitivo. Si noti che le versioni più semplici del mito di Narciso si limitano a un solo dispositivo, quello etico (un testo semplice è tendenzialmente privo di conflittualità interna, in quanto rigidamente articolato); l’altro dispositivo, per contro, è pressoché obbligato ad appoggiarsi al dispositivo più semplice. Propongo di chiamare principio di appoggio questa modalità di ibridazione, mediante la quale una costruzione complessa emerge da uno schema semplice, ma non così rigido da impedire espansioni e trasformazioni36.

Molti grandi testi della letteratura si appoggiano a testi folklorici: riprendono uno schema narrativo preesistente, ripetendolo ma anche variandolo; le trasformazioni e le espansioni essenziali riguardano tuttavia i personaggi. Così avviene nella tragedia greca, dove l’identità elementare di un eroe viene problematizzata, e acquista una straordinaria complessità. Nello stesso tempo, alcuni personaggi mantengono un’identità semplice, o relativamente semplice, che chiameremo per comodità folklorica. Ad esempio, l’Edipo re presenta a un certo punto una contesa tra due ‘solutori di enigmi’, il sovrano di Tebe e Tiresia. La città si affida alle doti ermeneutiche di quest’ultimo per individuare l’assassino di Laio, ed è proprio Edipo a esprimere questa fiducia collettiva interrogando il vate. Ma quando Tiresia indica in lui il colpevole di quel delitto, Edipo reagisce con ira (e usa parole il cui significato non è soltanto quello che più immediatamente appare): perché hai taciuto, gli chiede derisoriamente, quando la Sfinge tormentava la città di Tebe? Perché non hai dispiegato allora le tue doti profetiche? 37 In quelle che sembrano soltanto parole di derisione e di ritorsione dobbiamo cogliere la traccia di una differenza tra due tipi di ermeneutica, e tra due eroi decifratori: gli enigmi alla portata di Tiresia sono unicamente enigmi fattuali; tutto ciò che egli può dire di Edipo è la sua vera provenienza, da Laio e da Giocasta; ma l’enigma di Edipo non concerne soltanto l’identità anagrafica, bensì il modo d’essere di chi è dípous, trípous, tetrápous. Commenta Vernant: “si tratta certamente di lui, si tratta dell’uomo. Ma questa risposta non è un sapere che in apparenza; essa maschera il vero problema; che cos’è allora l’uomo, che cos’è Edipo?”38

Dunque l’identità di Edipo non è semplicemente un’identità fattuale, biografica o anagrafica; e ciò che oltrepassa questo tipo di identità non risulta accessibile alle doti ermeneutiche di Tiresia39. Analogamente, la profezia di Tiresia relativamente a Narciso – “Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga, tarda vecchiaia, l’indovino aveva risposto: “Se non conoscerà se stesso” (“Si se non noverit”inquit) (vv. 346-348) – ha un carattere fattuale, cioè si limita a indicare la pericolosa possibilità di un evento che, in quanto nucleo narrativo, appartiene a tutte le versioni del mito. Ma Ovidio non si è limitato a illustrare le doti profetiche di Tiresia40: con un’elaborazione simile a quella realizzata da Sofocle nel personaggio di Edipo, Ovidio ha trasformato la conferma di una profezia in un problema di identità, in un’indagine sul desiderio e sull’identità.

Se non conoscerà se stesso: se non incontrerà la propria immagine come una imago dell’Immaginario (nell’accezione lacaniana). Noi, più fortunati di lui, incontriamo la nostra immagine nel Simbolico, cioè in una dimensione addomestica in cui essa ha perduto o non possiede interamente il potere di captazione, che determina il destino di Narciso. Nondimeno, nel mito si manifesta una verità che riguarda ciascuno di noi: in quanto è un essere desiderante, ciascuno di noi vorrebbe coincidere con l’Io ideale, e s’innamora di chi va ad occupare la posizione dell’imago narcisista. Più fortunati di Narciso, disponiamo di risorse mediante cui contrastare – in misura molto variabile - quell’irresistibile potere di captazione. Il mito di Narciso indica una delle nostre possibilità estreme.

Possiamo enunciare una seconda regola: ogni volta che analizziamo le molteplici versioni di un mito, che affonda le sue radici nella sfera folklorica, non dobbiamo trascurare le differenze tra personaggi che rimangono folklorici e personaggi che vengono elaborati letterariamente, che appartengono alla letteratura.

 

9. Il libro terzo delle Metamorfosi è un intrico di somiglianze. Qui le family resemblances si presentano anche, alla lettera, come legami di parentela e come appartenenza al medesimo territorio: “tutti o quasi i personaggi hanno una relazione con la famiglia di Cadmo e con i tempi più antichi della città di Tebe in Beozia: una relazione genealogica, cronologica e territoriale”41. La particolare compattezza di questo libro nasce da una concatenazione di storie su una base geografica ristretta (“una novità per quest’opera”); nelle antiche storie di Tebe e della montagna beotica tornano continuamente gli stessi temi: la sessualità, i tranelli della visione, la difficoltà di capire la logica punitiva degli dèi, il ruolo della profezia. Un mondo tragico, dove entrano in crisi i rapporti tra uomo e animale (episodi di Atteone e Penteo), tra umano e divino (Semele), tra uomo e donna (Tiresia), tra io e immagine (Narciso)42: un mondo in cui - vorrei aggiungere - il regime confusivo travolge il regime separativo. La dominanza del confusivo viene confermata dai riferimenti al dio anti-separativo per eccellenza, Dioniso, figura che riunisce e scavalca tutti gli opposti.

Dal punto di vista puramente descrittivo non vi è nulla da obiettare a questa presentazione, che ho ripreso e integrato; ma l’interpretazione non può limitarsi a un censimento dei temi, e delle ricorrenze interne: resta il problema – e qui inizia la via dell’interpretazione – di quale sia il valore delle somiglianze veicolate dal testo. Parlo di ‘somiglianze veicolate’ per indicare somiglianze empiriche, percepibili a occhio nudo, visibili senza strumenti, senza un modello, senza un’ipotesi: immediatamente accessibili – ma forse ingannevoli e fuorvianti, almeno in una certa misura. Consideriamo più attentamente alcune di queste somiglianze, e per prima, data la rilevanza del contesto dionisiaco, quella tra Narciso e Dioniso. Una connessione importante tra le due figure potrebbe essere individuata nel motivo dell’immagine speculare: Dioniso viene fatto a pezzi dai Titani mentre fissa la sua immagine in uno specchio (insieme all’astragalo, alla palla, alla trottola, ecc., uno dei giocattoli del dio fanciullo)43. Lo sbranamento, lo sparagmós, è motivo ricorrente nel libro terzo: la morte per sbranamento è anche il destino di Atteone e di Penteo. Tuttavia nell’episodio di Narciso non vi è alcuna frammentazione del corpo. Non si dovrà distinguere allora tra l’identità mereologica di Dioniso, e di ogni identità che oscilla tra corps morcelé e forma unitaria, e l’identità relazionale di Narciso? Certamente l’identità di Dioniso va decifrata non solo mereologicamente, ma anche attraverso il legame tra gli opposti: nella complessa personalità del dio non sembrano però riscontrabili i tratti paradossali che costituiscono la specificità del mito in cui un bellissimo giovane s’innamora del proprio riflesso. E se lo specchio è collegato al tema dell’illusione che invade la realtà, va ricordato che Narciso supera l’illusione, riconosce il riflesso in quanto tale (Iste ego sum! sensi, nec me mea fallit imago): solo a partire da questo momento la follia del suo desiderio si rivela in tutta la sua pienezza.

Quanto ai tranelli ottici: con questa espressione non si finisce con l’indicare un insieme di situazioni che risultano simili soltanto in una prospettiva ristretta, quella del dispositivo etico? ‘Vedere ciò che non deve essere visto’ è un tratto che ricorre nelle storie di Atteone, di Penteo, di Tiresia, di Narciso. Ma nella storia di Narciso non c’è un oggetto proibito, nel senso in cui una visione proibita emerge, per esempio, agli occhi di Atteone e di Penteo: a loro volta queste vicende non sono equivalenti, solo in quella di Penteo affiora l’attrazione verso l’eros innominabile di una (desiderata) visione orgiastica.

Su un comune sfondo di somiglianze, forse una nebulosa di somiglianze, si diramano e si districano storie diverse, ciascuna nella propria singolarità. Privilegiare gli elementi comuni, o affidarsi a una rete instabile di similarità, alle fluttuazioni di questa rete, significa negare virtualità che prendono forma nel lavoro analitico. Uno sguardo unilateralmente tassonomico è inevitabilmente uno sguardo sfocato. Sfocato, e illusoriamente preciso: si crede che le somiglianze empiricamente date offrano una base oggettiva a qualunque indagine testuale. Non è così, è la teoria e non la percezione empirica a decidere quali siano le vere somiglianze. Ovviamente il problema non si pone, o si configura come problema assai più semplice, per chi si occupa di oggetti empirici, e non di quelle combinazioni tra oggetto empirico e oggetto virtuale che chiamiamo opere d’arte.

La terza regola era stata già enunciata nel paragrafo 6: il primato del testo e l’inferiorità del contesto, il testo come elaboratore ultimo del proprio significato, in virtù delle proprie coerenze, della propria costruzione logica.

Un esempio di come la teoria abbia il diritto di non concordare con somiglianze veicolate dal testo: per quasi tutti i lettori, compresi gli specialisti, esisterebbero forti similarità tra Narciso ed Eco – entrambi si consumano in una passione impossibile, entrambi appaiono legati alla duplicità (dell’immagine, in un caso, della voce nell’altro). Tuttavia, dal punto di vista logico, le due figure divergono essenzialmente: Eco rappresenta la coincidenza possibile, Narciso la coincidenza impossibile. Eco viene condannata a coincidere con frammenti di alterità, di parole altrui: come molti esseri umani, sa parlare solo con parole altrui (direbbe Bachtin), e dunque è la coincidenza sempre possibile con altri Io (= con Non-Io). Invece Narciso è la coincidenza impossibile con Io, con l’Io ideale, l’Io più proprio; è la non-coincidenza con sé. In quanto figura dell’identità-coincidenza, Eco appare come un’involontaria parodia di Narciso.

 

10. L’identità di Narciso non risulta essenzialmente connessa con lo sparagmós e neanche con la metamorfosi – e quest’ultimo è il tratto più singolare e più sorprendente in un’opera che contiene tante storie di trasformazione. Alla prima di questa storie si è tentati di attribuire un valore paradigmatico: Licàone, re dell’Arcadia, uccisore degli ospiti, incarnazione della ferocia, viene mutato in lupo. La ferinitas è la chiave di una trasformazione in cui la nuova forma è un’esplicitazione di essenza44, che può essere giudicata da punti di vista divergenti. Si può insistere sulla continuità, sulla presenza della medesima identità nel cambiamento della morphé45; tuttavia, enfatizzando il carattere ‘conservativo’ della metamorfosi, non si finisce con il cancellare, o con il ridurre ai minimi termini, l’operazione attuata nel testo? Ciò che il lettore ammira non è la persistenza del tratto semantico /ferocia/ in Licàone e nel lupo, bensì il processo di trasformazione. In tale processo si manifesta, e sia pure in una forma conservativa, la spinta verso la non-coincidenza come modo d’essere di quegli enti che noi siamo (direbbe Heidegger).

Non posso approfondire adesso questo problema, che mi sembra comunque di importanza cruciale. Vorrei ribadire che, nell’episodio di Narciso, diversamente da molti altri episodi, la metamorfosi occupa un posto marginale: è condensata in un paio di versi (“Al posto del corpo trovarono un fiore: giallo nel mezzo, e tutt’intorno petali bianchi”)46, ed è indicata soltanto nell’esito finale senza alcuna descrizione del processo, che rappresenta invece l’acmé della storia di Licàone e di altre storie.

Ancora una volta, le differenze di famiglia. Ci si potrà chiedere a questo punto se schierarsi a favore delle differenze e delle singolarità non implichi una svalutazione completa di ogni progetto tassonomico. Non è mia intenzione suggerire una conclusione così catastrofica. Credo però che il passaggio dalle definizioni essenzialiste alle somiglianze di famiglia, di cui si parla spesso come di un evento liberatorio, abbia un’importanza minore di quella che gli è stata attribuita: almeno per coloro che non studiano oggetti strettamente empirici, ma ‘oggetti che non sono oggetti’, bensì testi. Quando si entra nella dimensione dei testi, il problema delle somiglianze cresce vertiginosamente in complessità. Potremmo riprendere e parafrasare così il celebre passo di Wittgenstein: in questi casi, non dire “Vedo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda” – ma guarda se ciò che chiami somiglianza ti autorizza a ignorare o a marginalizzare le altre relazioni logiche. Infatti vedrai facilmente somiglianze, parentele, anzi ne vedrai tutta una serie. Non limitarti a osservare, ma pensa! Allora comincerai a vedere le differenze. Differenze in grande e in piccolo (im Grossen und Kleinen).

Note

1 Gilles Deleuze – Felix Guattari, Qu’est-ce que la philosophie ?, 1991; trad. it. Einaudi, Torino 1996, p. XV.

2 Come ricorda Luigi Perissinotto, «Ti insegnerò le differenze (I’ll teach you differences)» era il verso tratto dal Re Lear (Atto I, scena quarta) che Wittgenstein, a un certo punto, avrebbe voluto usare come motto per le Ricerche filosofiche, “ritenendo che esso potesse illustrare efficacemente l’interesse che orientava il suo filosofare. “(…) il mio interesse” egli avrebbe detto all’amico Drury, “sta nel mostrare che le cose che sembrano identiche sono in realtà differenti” (Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano, pp. 94-95).

3 Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, trad. di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1967, p. 46.

4 Diego Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 77. Marconi cita gli esperimenti di S.L. Armstrong, L.R. Gleitman e H. Gleitman, What Some Concepts Might Not Be, 1983.

5 Perciò non appare giustificata la posizione di chi ritiene che la teoria classica sia falsa. E tanto meno se si passa dalla prospettiva tassonomica a quella operativa: per esempio, la domanda “1467 è un numero primo?” sarà affrontata verosimilmente senza l’intrusione di effetti prototipali.

6 Michel Foucault, Les mots et les choses, 1966, trad. it. Rizzoli, Milano 1978. Citato in sigla: MC, seguito dal numero di pagina della traduzione italiana.

7 Naturalmente Foucault cita il Don Chisciotte: ma in che modo? Come “la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all’infinito segni e similitudini” (PC, 63). Il principio parodico dell’opera di Cervantes troverebbe dunque la sua collocazione e la sua ‘origine’ nel regime delle identità e delle differenze, che è quello di Cartesio: insomma nel separativo. Come se il riso provocato dal Don Chisciotte nascesse semplicemente dal buon senso di chi non confonde elmi e bacinelle di barbiere, ecc.

8 Elisabetta Lalumera, Cosa sono i concetti, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 82.84.

9 Ivi, pp. 89-93, con riferimento in particolare agli studi di Lawrence Barsalou.

10 Ivi, p. 94.

11 Ivi, p. 149.

12 Ivi, p.121.

13 Ivi, p. 139.

14 Il regime separativo preferisce i confini netti, tuttavia può ammettere confini vaghi. La vaghezza, la presenza di casi borderline, non produce un cambiamento di regime.

15 Cartesio, Regulae ad directionem ingenii, 1628, regola XIV; trad. it. Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere, volume primo, Laterza, Bari 1967, p. 75, traduzione di Gallo Galli. Qui si è fatto riferimento alla traduzione di Foucault, p. 67.

16 Ulisse Aldrovandi, Monstrorum historia, 1647, cit. da Foucault, MC, p. 33.

17 La tipologia presentata da Roger Caillois, Les jeux et les homes. Le masque et le vertige, 1967 è una possibile risposta a Wittgenstein.

18 Sigmund Freud, Die Traumdeutung, 1899, trad. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Boringhieri, Torino 1966, p. 480.

19 Jorge Luis Borges, Otras inquisiciones, 1952, trad. it. Altre inquisizioni, Adelphi, Milano 2000, pp. 112-113.

20 Mi permetto di rinviare a Giovanni Bottiroli, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, e a due saggi ‘integrativi: «Metafore simmetriche e regimi di senso», Documenti di Lavoro del Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica, Urbino 1995, e «Metaphors and Modal Mixtures» in Metaphors (a cura di di Stefano Arduini), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007. Quest’ultimo saggio è disponibile anche nel sito www.giovannibottiroli.it.

21 Franz Kafka, Das Schloss, 1926, trad. it. Il castello, in Romanzi, trad. di Anita Rho, Mondadori, Milano 1969, pp. 755-56.

22 Ivi, p. 755.

23 “Was habe ich mit Juden gemeinsam? Ich habe kaum etwas mit mir gemeinsam” (Diari, 8 gennaio 1914).

24 Michel Foucault, Ceci n’est pas une pipe, 1973; trad. it. Serra e Riva, Milano 1980, p. 62.

25 Ivi, p. 66.

26 Cfr. Sonia Maura Barillari, «Disordine ontologico e strategie figurali: il Gerione dantesco», L’immagine riflessa N. S. VII (1998): 39-56.

27 Max Black, Metaphor, 1954; trad. it. in Id., Modelli Archetipi Metafore, Pratiche, Parma 1983, p. 55.

28 Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1857, édition de Claudine Gothot-Mersch, Garnier, Paris 1990, p. 196.

29 Si noti, fra l’altro, che la presenza del ‘come’ non impedisce affatto all’enunciato di Flaubert di essere una metafora. Il meccanismo semantico (ma anche logico) della metafora è ampiamente autonomo rispetto alla veste grammaticale, contrariamente a un pregiudizio molto diffuso.

30 Sono costretto a rinviare a Giovanni Bottiroli, «Narciso senza specchio. Un esercizio di tri-logica», in La psicoanalisi, 36 (2004): 92-101

31 Cito da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1979.

32 E’ totalmente errata la posizione di Gabriele Pulli, secondo cui Eco sarebbe superficie rispecchiante e Narciso puro riflesso (cfr. L’enigma della simmetria. Freud Ovidio Matte Blanco, Franco Angeli, 1999).

33 In particolare nella versione di Pausania: “è davvero una storia completamente idiota, che un individuo già arrivato all’età di potersi innamorare non sia nemmeno capace di distinguere che cosa è un uomo e che cosa è l’immagine (skià) di un uomo” (Guida della Grecia, III, 31).

34 Sigmund Freud, Der Wahn und die Träume in W. Jensens “Gradiva”, trad. Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di W. Jensen, 1905; trad. it. in Opere, vol. 5 , Boringhieri, Torino 1969.

35 Sigmund Freud, Introduzione al narcisismo, 1914; in Opere, vol. 7.

36 Mi ispiro a Freud, e alla tesi secondo cui le pulsioni erotiche, più flessibili, si appoggiano alle pulsioni autoconservative.

37 Sofocle, Edipo re, vv. 390-393.

38 Jean-Pierre Vernant, «Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell’Edipo re» (1970), ora in Id. – Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia (1972), Einaudi, Torino 1976.

39 Per questa interpretazione mi permetto di rinviare a Giovanni Bottiroli, «Il contagio delle somiglianze. Follia e violenza nel teatro greco», in Id., Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Il Sestante, Bergamo University Press, Bergamo 2002.

40 Così ritiene Umberto Curi: “la storia del giovane innamorato della propria immagine altro non è che una mera esemplificazione delle capacità divinatorie di Tiresia, una dimostrazione delle ragioni che ne hanno consacrato la fama come indovino, più che un episodio dotato di una propria autonomia tematica” (Miti d’amore, Bompiani, Milano 2009, p. 93).

È una delle tante affermazioni gratuite che mostrano quanto riduttiva, arbitraria e confusa possa essere una lettura del racconto ovidiano di Narciso quando ci si affida a somiglianze ‘atomiche’, e si dimentica la costruzione testuale.

41 Cfr. il commento di Alessandro Barchiesi e Giampiero Rosati a Ovidio, Metamorfosi (Libri III-IV), Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, p. 125.

42 Ivi, pp. 125-126.

43 Clemente Alessandrino, Il Protrettico, trad. it. a cura di Matteo Galloni, Borla, Roma 1991, p. 57.

44 “Nella metamorfosi il carattere della ferocia costituisce il ponte tra l’uomo Licàone e il lupo: l’identificazione finale avviene attraverso il mutamento di alcuni particolari fisici, ma con la persistenza, nel nuovo essere, dei tratti che caratterizzavano la ferocia dell’uomo” (Emilio Pianezzola, Ovidio. Modelli retorici e forma narrativa, Pàtron, Bologna 1999, p. 37).

45 Secondo Curi, i personaggi di Ovidio si trasformerebbero “senza che questa transizione implichi un mutamento di identità, ma solo l’esplicitazione dell’altra forma già fin dall’inizio implicitamente compresente con la forma originaria” (Miti d’amore, p. 72).

46Croceum pro corpore florem // inveniunt foliis medium cingentibus albis” (vv. 509-510).

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